Donne migranti

Dossier sulle donne migranti e il Mercato del Lavoro
a cura della prof.ssa Francesca Lazzari (02 febbraio 2021)


1. INTRODUZIONE

L’analisi dei fenomeni migratori può dipendere da persi fattori:
- dalle condizioni strutturali del mercato che provocano spostamenti di popolazione alla ricerca di
lavoro (il mercato globalizzato, in funzione dei suoi interessi, determina l’emigrazione di molte per-
sone, dai paesi più poveri ai paesi ricchi, per svolgervi i lavori non richiesti dalla popolazione autoc-
tona, di solito poco qualificati e mal retribuiti)
- dalle scelte personali dei singoli che, davanti a difficoltà economiche, decidono di emigrare per
migliorare la propria situazione e quella dei propri famigliari
 - da crisi ambientali (siccità, desertificazione, …), crisi politiche ( guerre, dittature, persecuzioni
di minoranze etniche, reigiose, politiche,...)
Sono vere tutte queste prospettive, anzi spesso si intersecano in un meccanismo di causa-effetto.

2. LE MIGRAZIONI, LE DONNE E IL MDL NEI PAESI DI ARRIVO

Le migrazioni sono sempre state pensate come un fenomeno prettamente maschile. Recenti e appro-
fonditi studi mostrano, invece, numerosi casi in cui le donne si presentano quali protagoniste negli
spostamenti tra Paesi, evidenziando, peraltro, una crescente femminilizzazione dei contemporanei
flussi migratori.
Si può parlare di un vero processo di femminilizzazione dell’immigrazione, che ha coinciso,soprat-
tutto nei paesi dell’Europa mediterranea, con l’aumento della richiesta di lavoratori da impiegare
nel settore della cura domestica.
Le più importanti istituzioni internazionali nel campo dello sviluppo dei Paesi emergenti (FMI,
Banca Mondiale, ecc.) riconoscono il ruolo determinante del fattore donna per la crescita socio-eco-
nomica. Questo ruolo si concretizza, da parte delle donne stanziali, attraverso il coinvolgimento in
progetti mirati di finanziamento dell’istruzione, di microcredito, di sviluppo dell’imprenditoria; da
parte delle donne migranti attraverso l’invio delle rimesse che consentono di elevare le possibilità di
sviluppo socioeconomico dei familiari rimasti in patria, con effetti positivi sull’intera economia dei
Paesi di provenienza.
Le donne immigrate corrono il rischio di essere vittime di una doppia discriminazione: etnica e di
genere. La condizione femminile e quella di straniera appaiono strettamente connesse dal fatto di
essere considerate come differenti rispetto a identità definite, e in quanto tali oggetto di esclusione.
Il lavoro offerto alle donne immigrate ha queste caratteristiche: intermittente, aleatorio, in altri ter-
mini flessibile, fornisce un reddito scarso perché precario. Il progetto migratorio avviene spesso
con il sostegno delle donne già emigrate, che fanno da mediatrici stabilendo contatti con le agenzie
che domandano lavoro e cercano le informazioni sul nuovo paese. Si crea, così, una catena migrato-
ria che può assumere anche un carattere familiare: le prime donne immigrate ne fanno venire altre,
loro parenti. In alcuni casi, invece, le donne sono arrivate a seguito dei lavoratori maschi, attraverso
il ricongiungimento con i familiari, questo all’inizio del fenomeno migratorio eraconsiderato il per-
corso tipo soprattutto per alcune comunità (Marocco), mentre altre comunità preferisconi un percor-
so inverso che porta le donne a emigrare per prime come le filippine e le capoverdiane, le ucraine e
le moldave.
Lo strumento del ricongiungimento familiare rappresenta un importante indicatore di stabilizzazio-
ne, e ha fatto emergere il ruolo centrale delle donne nei processi di integrazione della famiglia mi-
grante.
Vi è una DIMENSIONE DI GENERE nelle migrazioni=> sono segregate in alcuni settori e in alcu-
ne mansioni: occupazioni di basso livello, mancanza di riconoscimento del lavoro di cura, dipen-
denza economica e sociale. Le donne sono inserite principalmente nel mercato del lavoro in gran
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parte invisibile sul piano contrattuale ( irregolare o sommerso) e di conseguenza sono prive di ade-
guata tutela nell’ambito della sicurezza sociale.
Dopo anni di crisi economica e sociale nei loro paesi e dopo un processo migratorio che le ha allon-
tanate dal loro mondo culturale e affettivo la loro è un’identità da ricostruire, in bilico tra modelli
culturali femminili spesso molto persi. L’impatto che l’esperienza migratoria produce sulle donne
è molto forte dal punto di vista sia privato che pubblico, ma sembra che le capacità di adattamento
femminile risultino maggiori di quelle maschili.
Le donne immigrate agiscono spesso da collante sociale, facilitando l’integrazione delle comunità
immigrate con quelle di accoglienza, rinsaldando, allo stesso tempo, l’identità culturale di prove-
nienza.
La distanza culturale è segnata anche dagli stereotipi che vengono connessi alla figura della lavora-
trice immigrata e che vorrebbero l’esistenza di pretese vocazioni culturali, secondo le quali le asiati-
che, e in particolare le filippine, ad esempio, sarebbero più adatte come collaboratrici domestiche e
le polacche, le centro-sudamericane e le altre donne dell’Est europeo sono più indicate per l’assi-
stenza domiciliare, come badanti ( specializzazione etnica => stereotipo) .
Negli anni ’70 le donne protagoniste dei primi flussi migratori verso il nostro Paese, provenivano
soprattutto dalle isole di Capo Verde, dal Corno d‘Africa, dalle Filippine, dall’America del Sud ed
entravano in particolare come collaboratrici domestiche, a volte grazie alla mediazione di un istituto
religioso. Le antesignane dell’immigrazione femminile in Italia sono state le donne filippine, giunte
nel nostro paese in seguito alla spinta del regime di Marcos e con il supporto dei missionari cattoli-
ci presenti nel paese.
Se consideriamo i flussi migratori in ordine temporale si può osservare come a un iniziale flusso di
immigrazione proveniente soprattutto dai paesi africani e asiatici si sia affiancato, pentando in se-
guito prevalente, quello dell’Est europeo avvenuto in seguito alla caduta dei regimi comunisti degli
anni Novanta e alle situazioni di instabilità economica e sociale che sono seguite.
La collettività rumena, in particolare, è tra le più numerose nel panorama dell’immigrazione stranie-
ra in Italia. Anche nel caso dell’immigrazione ucraina ci troviamo di fronte a una netta prevalenza
femminile: le donne rappresentano più dell’80% del totale dei titolari di permesso di soggiorno nel-
lo stesso anno. Per quanto riguarda la comunità albanese, la scelta del nostro paese come meta di
migrazione è in parte dovuta alla vicinanza geografica e agli elementi culturali in comune, oltre alla
conoscenza spesso dell’italiano. La presenza femminile albanese è andata nel corso degli anni sem-
pre più aumentando, fino ad avvicinarsi a un pareggio delle presenze rispetto a quelle maschili, an-
che per effetto della ricomposizione dei nuclei familiari.
E’ interessante notare, al riguardo, che le comunità di immigrati con il minor tasso di presenza fem-
minile, sono state quelle di origine musulmana. A partire dalla fine degli anni novanta, è stato l’isti-
tuto del ricongiungimento familiare a dare un forte impulso all’immigrazione delle donne dell’area
maghrebina.
Il fenomeno della femminilizzazione dei flussi migratori è stato evidenziato dai livelli di incremento
delle quote femminili nelle operazioni di regolarizzazione. Negli anni successivi la presenza
regolare di donne immigrate non solo ha subito una costante crescita ma ha coinvolto soprattutto
determinate comunità. Attualmente i filippini, nel complesso, rappresentano il sesto gruppo
straniero per presenza in Italia, dopo Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina, e sono insediati
soprattutto nelle grandi città.
Rispetto alla collocazione territoriale, le donne si sono insediate in maggioranza al Centro (51,9%) e
al Sud (52,1%), e tra quelle con permesso di soggiorno per motivi di lavoro una su tre si è inserita
nel settore del lavoro domestico.
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Studi antropologici condotti su alcune comunità di migranti rivelano, infatti, come l’esperienza mi-
gratoria, scandita da ritmi di cambiamento, rottura e riequilibro, costringa queste donne, ma anche i
familiari rimasti nel paese di appartenenza, a ridefinire i sistemi culturali di riferimento oltre che la
loro stessa identità femminile e nazionale.
Le donne che inviano a casa una parte di guadagni pengono, ad esempio, un agente primario per il
sostentamento della famiglia, conquistando o riconquistando una dignità spesso messa in discussio-
ne e generando un nuovo equilibrio all’interno della famiglia stessa e dell’intera comunità.
Nei casi in cui l’emigrazione femminile viene stigmatizzata da sistemi sociali e/o religiosi o dalle
stesse istituzioni dei Paesi di provenienza, la scelta piene ancor più forte in quanto richiede di af-
frontare comportamenti e situazioni di potenziale emarginazione ed esclusione sociale.
Queste donne combattono due volte: per l’integrazione nella società di accoglienza e per la reinte-
grazione in quella di partenza, affrontando una dura prova a livello psicologico.
In merito a ciò, è utile evidenziare alcuni recenti indicatori di integrazione femminile:
1. aumento del numero di ricongiungimenti familiari a carico di donne capofamiglia;
2. aumento dei matrimoni misti (ogni anno in Italia ne vengono celebrati circa 13.000, dei quali il
79,8% riguarda donne straniere che sposano uomini italiani);
3. crescente inserimento imprenditoriale (le donne straniere titolari di un’impresa nel nostro Paese
risultano essere circa il 16% del totale);
4. sviluppo di numerose associazioni di donne immigrate, importanti canali di supporto per far sen-
tire la propria voce ed avere visibilità.

L’immigrazione femminile si rivela, pertanto, caratterizzata da una complessità, versatilità e molte-
plicità di situazioni e strategie di inserimento produttive di effetti sull’intera società di accoglienza
e sulle seconde generazioni.
In Italia, secondo i dati Caritas/Migrantes, le donne immigrate guadagnano annualmente il 39,7% in
meno degli uomini immigrati, soprattutto a causa del massiccio inserimento nel lavoro domestico e
di cura che ha basse retribuzioni e spesso è laoro sommerso.
La presenza delle lavoratrici immigrate non è omogenea rispetto ai comparti produttivi, ma si con-
centra nei settori ad alta intensità di lavoro, con orari lunghi e ripetuti nella settimana e contratti pre-
cari. L’ambito lavorativo prevalente è il settore dei servizi connessi alla cura della persona (soprat-
tutto di bambini ed anziani) e alla pulizia, ma una discreta presenza si riscontra anche in quello ri-
storativo e alberghiero. Il progressivo incremento del lavoro di cura e dei servizi alle famiglie, so-
prattutto a domicilio a pieno tempo o, comunque, ad orari lunghi, ha alimentato il MdL delle donne
immigrate (sono la maggioranza delle lavoratrici impegnate nel lavoro domiciliare notte e giorno o
comunque ad orari lunghi.). Per queste ultime tale soluzione lavorativa risponde ad una duplice
esigenza: quella di poter disporre da subito di un alloggio e di effettuare risparmi sul salario. Il la-
voro di cura è fortemente connotato al femminile e, in larga parte, invisibile e sommerso, reso anco-
ra più vulnerabile dalla eventuale assenza del permesso di soggiorno. E’ marcato sul piano etnico /
est Europa (Ucraina; Moldavia,…). Una forte crescita ha riguardato il lavoro agricolo nel quale si
registra un nuovo tipo di migrazione femminile, che vede alcune donne lasciare il proprio paese ed
arrivare in Italia con un visto turistico, lavorare per tre mesi e poi rientrare, per tornare di nuovo e
così via; lo scopo è quello di ridurre il tempo di allontanamento dalla propria famiglia per gestirne
più facilmente il distacco e il reinserimento. Si tratta di lavoratrici provenienti per la maggior parte
da Romania , dalla Serbia. Si assiste ad un progressivo inserimento delle donne immigrate nella
piccola e media impresa manifatturiera (assemblaggio, pellame, tessiture, calzature, alimentari) .
Le donne straniere si sono inserite quindi in settori lavorativi generalmente poco appetibili per le
donne italiane, con bassa retribuzione, impossibilità di crescita professionale, gravosità e pesantez-
za delle mansioni, oltre a scarsa considerazione a livello sociale. Tuttavia è da registrare un’iniziale
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variazione di tendenza a causa dell’attuale crisi economica che ha spinto anche le donne italiane ad
avvicinarsi a queste occupazioni, soprattutto se avoratrici deboli e poco qualificate.
Più in generale si può affermare che la partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro se
da una parte ha creato la domanda di lavoro delle donne straniere: il lavoro domestico salariato del-
le donne immigrate consente alle italiane, un aumento dell’occupazione.
Una parte minoritaria, ancorché crescente, di donne immigrate ha avviato attività autonome.
Unioncamere rileva una crescita nel numero delle imprese a titolare straniero, e in particolare della
percentuale rappresentata da donne. La distribuzione delle imprese risulta non omogenea sul territo-
rio nazionale e rispetto alle perse comunità immigrate: la Lombardia registra il maggiornumero di
attività produttive gestite da donne immigrate, seguita dalla Toscana e dal Lazio; le tre regioni rap-
presentano circa il 37% del totale. Il settore del commercio viene scelto particolarmente dalle donne
cinesi, da quelle nigeriane e dalle donne provenienti dall’Ucraina. In generale l’autoimprenditoriali-
tà può rappresentare, per le donne migranti, una possibilità di affrancamento da un lavoro dipenden-
te troppo spesso contraddistinto da varie forme di discriminazione, nonché una valida alternativa
alla sottoccupazione e alla scarsa mobilità sociale.
I dati che documentano la crescita dell’occupazione femminile straniera è dovuta non solo a un nu-
mero maggiore di assunzioni, ma soprattutto alla regolarizzazione dei contratti di badanti e colf.

Per quanto riguarda i motivi che da sempre hanno spinto le donne ad emigrare, oltre a quelli
comuni anche agli immigrati di sesso maschile (di tipo economico, culturale, per rifugio politico,
ecc.), se ne aggiungono altri tipicamente femminili che vanno dal ricongiungimento familiare al
desiderio di emancipazione, dal matrimonio con un connazionale in precedenza emigrato e al
tentativo di sfuggire ad una condizione subalterna legata alla cultura e alle tradizioni del paese
d’origine.
Come dimostrano molte indagini, i progetti migratori, soprattutto se le donne ne sono protagoniste,
vanno inseriti all’interno di una strategia familiare di sopravvivenza e di sviluppo.
La maggior parte di esse si separa dalla propria famiglia per costruire un autonomo percorso di vita
e di lavoro, anche se nel tentativo di raggiungere tale autorealizzazione non poche donne rimango-
no, purtroppo, imprigionate nella rete della tratta e del commercio sessuale, da cui non è facile usci-
re. le straniere che hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di lavoro raggiungano il
46,3% mentre quelle che lo hanno avuto per ricongiungimento familiare il 44,9%. Fra gli altri moti-
vi di soggiorno, il permesso per studio interessa il 2,3% delle soggiornanti, la residenza elettiva
l’1,9% e i motivi religiosi l’1,8%.
In dettaglio:
- Alcune vengono qui perché in determinati settori, nello specifico quello del lavoro di cura domici-
liare, esiste una reale offerta di lavoro (sono un sintomo della condizione sociale ed economica dei
paesi da dove provengono, così come il lavoro che svolgono esprime la realtà del Welfare dei paesi
in cui arrivano, delle strutture parentali e delle dinamiche demografiche e socio-economiche in atto
nelle famiglie. L’esperienza femminile rompe così, ancora una volta, la separatezza tra pubblico e
privato, tanto nella società di arrivo, quanto nella società di partenza) .
Ci sono altre donne che arrivano dall’est senza visto turistico per fare le badanti: attraversano i con-
fini a piedi e riescono così a superare i controlli delle frontiere. Il viaggio “materiale” in Italia, si
realizza di solito in macchina o in pullman. Le donne parlano spesso di piccoli pullman, che partono
dai loro paesi di origine e che, dopo un viaggio di un paio di giorni, arrivavano in Italia. Questi pul-
mini sono spesso gli stessi che le donne usano per inviare a casa pacchi e soldi. Molte volte, sono le
famiglie di classe media a cercare una badante perché è meno onerosa che il ricovero in casa di ri-
poso o in altri servizi istituzionali. La badante si preferisce coniugata, italiana, ma, se straniera, me-
glio se proveniente da paesi europei con modello socioculturale simile al nostro.
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Nel caso delle badanti l’emigrazione porta all’assenza fisica, ma paradossalmente non all’abbando-
no: la madre continua a educare i suoi figli a distanza, i soldi che invia costantemente mantengono
la struttura famigliare e sono rimessa importante per l’economia degli Stati di provenienza. I com-
piti professionali delle badanti includono tanto il lavoro domestico in senso tradizionale quanto
aspetti relazionali e di cura, per cui le implicazioni affettive del ruolo acquisiscono un particolare ri-
lievo. Quando vengono a sapere che una famiglia cerca una badante, le persone arrivate da più tem-
po e che hanno molte conoscenze, vendono il lavoro a un’altra donna emigrata, sia essa arrivata di
recente o da poco rimasta senza lavoro. Un’altra pratica comune tra le badanti è quella di vendere il
proprio posto di lavoro prima di tornare al loro paese.

- Altre, decidono di emigrare per assumersi la responsabilità del sostentamento delle loro famiglie.
(Emigrano per soldi, ma i soldi sono solo un mezzo e non il fine. Servono per pagare gli studi ai fi-
gli, per comprare una casa, per combattere la crisi famigliare che la disoccupazione e il conseguente
alcolismo, maschile hanno provocato)

L’emigrazione non è solo un scelta inpiduale, ma è pentata un meccanismo sociale.

Nella pratica si verifica una forte differenza tra le aspettative migratorie delle donne giovani e nubili
e le donne sposate:
- le giovani emigrano per allontanarsi dalle difficoltà economiche, ma anche per conoscere nuove
lingue, viaggiare all’estero, cercare un posto perso con una mentalità più aperta. Il lavoro di ba-
dante è il primo passo del loro progetto. Si accetta inizialmente finché la conoscenza della lingua e
delle opportunità offerte sul mercato locale non permettono di cercare altri lavori. Sanno, almeno
all’inizio, che questa è praticamente l’unica possibilità di trovare lavoro: perciò lo si accetta con la
convinzione e il desiderio che non durerà a lungo.
- le donne sposate emigrano per guadagnare soldi che costantemente invieranno alle loro famiglie.
La partenza delle donne sposate o delle madri giovani si inserisce la maggior parte delle volte
all’interno di strategie famigliari.

MdL veneto e donne immigrate , pur con ovvie differenziazioni tra situazioni provinciali, il terri-
torio veneto presenta caratteristiche omogenee sul versante socio-demografico. Più precisamente si
evidenziano i seguenti aspetti:
-    alte quote di popolazione anziana ed aumento dei “grandi vecchi” con problemi di cura;
-    pluralizzazione delle forme familiari caratterizzate da una progressiva fragilità di “care” che
si concretizza: per le famiglie più giovani in problemi di conciliazione fra lavoro e accudimento dei
figli; per le famiglie più anziane in problemi di “tenuta fisica” rispetto alla fatica e ad un investi-
mento totalizzante nella cura dei grandi vecchi;
-    un welfare che, pur ampliando la sfera degli interventi, non riesce a coprire (anche sul ver-
sante dei costi) le molteplici esigenze connesse alla vita quotidiana, soprattutto quando esse richie-
dono un’assistenza/affiancamento pressoché permanente che vanno ben oltre ad un care prestazio-
nale a prevalente valenza socio-sanitaria;
-    aumento progressivo del fenomeno migratorio, sempre più femminilizzato, che offre dispo-
nibilità lavorative immediatamente spendibili nel care familiare, con particolare rilevanza del lavoro
di cura domiciliare “giorno e notte” o comunque a “orari lunghi”;
-    tasso di disoccupazione in crescita e tasso più basso di occupazione femminile;
-    l’espansione dei servizi alla famiglia e la corrispondete crescita dell’occupazione ha
riguardato soprattutto gli ambiti legati alla cura dell’infanzia, all’assistenza agli anziani e ai servizi
per l’alimentazione. Molti posti di lavoro nei servizi alla famiglia continuano a essere creati nelle
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forme del lavoro sommerso. Nonostante la recente espansione c’è ancora una significativa area di
bisogno insoddisfatto che tende a crescere in relazione ai trends sociali e demografici indicati;
-    il costo dei servizi rappresenta un effettivo ostacolo alla trasformazione della domanda la-
tente in domanda effettiva;
-    una possibile prospettiva per rispondere alla domanda insoddisfatta è il reinserimento di
molte donne nel mondo del lavoro attraverso formule imprenditoriali autonome , di piccola società
cooperativa o di cooperativa sociale per attutire la presenza di scarsa professionalizzazione, unita-
mente all’assenza di un profilo specifico nonché conseguente assenza di prospettive di carriera qua-
le meccanismo incentivante di crescita professionale;
-    il part-time è diffuso, però, viste le basse retribuzioni orarie, le lavoratrici e i lavoratori ten-
dono a considerare questa formula come un limite piuttosto che come una scelta;
-    la promozione dell’ingresso degli uomini nel settore dei servizi alla famiglia non riceve ade-
guata attenzione da parte delle politiche di pari opportunità.

Le badanti in Veneto. Quante siano esattamente, nessuno è in grado di dirlo. Si stima siano circa
30.000. Quattro su cinque sono irregolari; dietro di esse c'è spesso un vero e proprio racket della
manodopera. Si stima che il 60/70 % degli arrivi in Veneto siano controllati dalle mafie dei paesi di
provenienza. L’arrivo in Veneto di donne, soprattutto dell’Europa dell’Est per lavorare come “ba-
danti” può essere datato all’incirca dalla fine degli anni 90. Per prime arrivarono le donne croate,
poi le donne polacche; attualmente la maggior parte delle donne provengono dalla Moldavia o
dall’Ucraina. La loro presenza nelle città e nei paesi della Regione riguarda il quotidiano di noi tutti
perché il loro lavoro le porta a convivere con le famiglie. Esistono persi fattori alla base di questa
prevalenza: il primo è che – per la cultura di provenienza più simile a quella occidentale in termini
di economia domestica, o per la maggiore disponibilità ad accettare le mansioni legate al lavoro di
cura – le donne provenienti dall’area ex comunista sono reputate più adatte di altre a svolgere que-
sto servizio. Si stima che ce ne siano 3 ogni 1000 abitanti (contro lo 0,3 di addetti all’assistenza do-
miciliare dipendenti dai Comuni, ogni 1000 abitanti).
Secondo una rilevazione della Regione Veneto sono per l'81% dell'Est europeo, hanno un'età com-
presa tra i 30 e i 40 anni, un'istruzione medio-alta e famiglia a carico lasciata nella loro terra d'origi-
ne. La situazione familiare di queste donne, nei Paesi di origine, risulta essere abbastanza affine a
quella che esisteva in Veneto trenta o quarant’anni fa, con famiglie estese, convivenza di più genera-
zioni, cura degli anziani a casa e un’economia spesso ancora rurale. I paesi di provenienza, dopo la
caduta dell’Unione Sovietica vivono immersi in una forte crisi economica. Le badanti prendono uno
stipendio che oscilla tra i 700 e i 900/1000 euro al mese lavorando spesso più di 10 ore al giorno e
senza quasi mai godere di ferie e riposi settimanali.
In Veneto il terzo settore opera nel Welfare care in modo diffuso attraverso le cooperative sociali e
assumendo modalità operative simili a quelle del settore privato. Sono moltissimi ormai gli anziani
non autosufficienti seguiti quotidianamente dalle badanti. Costituiscono un vero e proprio sistema di
assistenza parallelo che permette ai Servizi Sociali degli enti pubblici di risparmiare risorse. Per
esempio, in Veneto, la Regione , grazie alle badanti presenti nel territorio, risparmia in un anno circa
180 milioni di euro. La provincia di Vicenza mostra una situazione in cui l’utenza di servizi è eleva-
ta, così come la domanda di regolarizzazione di lavoro domestico rispetto alla popolazione anziana;
va perciò interpretata quindi come una provincia in cui la regolarizzazione del lavoro di assistenza
ha avuto un buon successo.
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                 SCHEDE DI APPROFONDIMENTO

1. Le donne migranti e la famiglia di origine
Il percorso migratorio comporta, dunque, notevoli effetti a livello di rapporti familiari; il distacco
dalla famiglia di origine ed eventualmente da quella di formazione, che spesso – soprattutto per le
donne dei Paesi in via di sviluppo e per quelle dell’Europa dell’Est - richiede di lasciare indietro
marito e figli, determina una ristrutturazione dei legami parentali e familiari, con notevoli conse-
guenze psico-emotive.
Stanno emergendo, così, nuove figure di madri, cosiddette transnazionali, che mentre curano i figli
di altre donne cercano di mantenere dei legami a distanza con i propri, rimasti nei Paesi di origine.
Si stanno formando nuovi modelli di famiglie, cosiddette ‘patchwork’, in quanto alcuni membri del-
la famiglia (madre con figli più piccoli o più grandi a seconda delle situazioni) vivono insieme nel
Paese di accoglienza mentre altri membri (genitori, marito con altri figli) vivono nel Pese di origine.
La condizione di separazione rispetto al proprio partner per venire in Italia a cercare lavoro è molto
diffusa tra le migranti dell’Europa dell’Est, mentre lo è in meno della metà dei casi per le sudameri-
cane. Questa è probabilmente una delle motivazioni che spinge queste ultime ad avere prevalente-
mente progetti migratori di lungo periodo, mentre le donne dell’Europa dell’Est sono maggiormente
orientate a una permanenza di breve-medio periodo.
Tra le donne filippine, invece, il progetto migratorio si mostra fin dall’inizio rivolto a coinvolgere
tutta la famiglia, per cui la donna costituisce una sorta di ponte per il successivo ingresso del resto
della famiglia.
Le donne immigrate hanno spesso oneri di lavoro tali da non lasciar spazio per se stesse, per i figli,
per la famiglia. Se consideriamo le loro necessità di conciliazione tra vita lavorativa e personale no-
tiamo come le norme in materia siano piuttosto carenti: non esistono, infatti, permessi per l’allatta-
mento, né congedi parentali nei contratti di assunzione. Come conseguenza la maternità porta auto-
maticamente al licenziamento o alle dimissioni volontarie della lavoratrice. In realtà la diffusione
del fenomeno del lavoro sommerso in questo ambito è tale che il contratto incide solo in parte sulla
qualità del rapporto di lavoro.
Le donne immigrate hanno avuto un notevole peso nell’aumento della natalità in Italia, pari al
16,5% delle nascite totali (Caritas/Migrantes, 2010): di queste il 3,4% coinvolge un partner italiano
e il 13% uno straniero. Le straniere sono più spesso madri e lo sono in più giovane età rispetto a
quelle italiane (l’età media del parto è di 28,7 anni, rispetto ai 31,7 delle italiane).
Eppure, nonostante i dati attuali mostrino un contributo molto forte delle immigrate alle nascite nel
nostro paese, attenuando in questo modo il progressivo invecchiamento della nostra popolazione,
l’opinione prevalente degli studiosi (Toulemon, 2004) è che si tratti di una fase transitoria, poiché il
comportamento riproduttivo delle donne straniere tenderebbe a convergere su livelli di fecondità
molto più bassi, come quelli delle italiane.
Questa previsione è basata su quanto accaduto in altri paesi di più lontana immigrazione quali la
Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Svezia.
La famiglia è comunque il punto focale intorno al quale ruota l’esperienza migratoria: la decisione
di venire in Italia per lavorare viene maturata dalle donne insieme al proprio nucleo familiare e al
fine di sostenerlo economicamente. La condizione di «madri a distanza » è piuttosto diffusa tra le
lavoratrici impiegate nel settore domestico: «le donne più deglinuomini tradizionalmente si sentono
legate alla famiglia e sono educate a esserlo, e anche la decisione di partire esprime legami affettivi
e obbligazioni morali persistenti: le migrazioni femminili sono più dipendenti da ragioni familiari di
quelle maschili».
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2. Come si entra in ITALIA
Per entrare in Italia i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione Europea e allo Spazio Economi-
co Europeo devono esibire alla frontiera il passaporto e, ove previsto, anche il visto di ingresso rila-
sciato dagli Uffici consolari italiani. La domanda per ottenere il visto va presentata al consolato o
all’ambasciata del paese di residenza, allegando una documentazione di base (dati personali, estremi
del passaporto o di altro documento valido, ragione del viaggio, mezzi di trasporto che si intende
utilizzare, risorse economiche per le spese di viaggio e soggiorno, luogo dove si alloggerà) e una
specifica con riferimento al tipo di visto richiesto. Il visto una volta ottenuto, dà diritto a entrare in
Italia, ma non a soggiornare in forma prolungata: se il soggiorno supera gli 8 giorni sussiste l’obbli-
go di richiedere un apposito permesso di soggiorno alla questura. I Visti Schegen Uniformi sono
concessi secondo criteri stabiliti a livello europeo e quindi sono comuni a tutti i paesi Schengen;
hanno una persa durata a seconda dei tipi. I visti possono essere: per adozione, per affari, per la-
voro autonomo, per missione, per motivi religiosi, di reingresso, per residenza elettiva, per studio,
per trasporto, per turismo, per vacanze lavoro, per motivi di lavoro. Sono i visti per affari e per turi-
smo a dare più spesso luogo a traffici illeciti. Il visto per turismo consente l’ingresso e un breve sog-
giorno, in Italia e negli altri paesi dello spazio Schengen al cittadino straniero che intenda viaggiare
per motivi turistici e che soddisfi questi requisiti:
- adeguati mezzi finanziari di sostentamento (o dichiarazione d’invito da parte di una persona re-
sidente in Italia che, se sprovvista di mezzi autonomi di sussistenza, dovrà esibire una ricevuta ban-
caria del versamento effettuato a favore della persona che deve venire);
- titolo di viaggio di andata e ritorno (o relativa prenotazione) o disponibilità di autonomi mezzi
di viaggio;
- disponibilità di un alloggio (albergo, dichiarazione di ospitalità, ecc.)

3. Il termine “badante”
E’ spesso, dagli addetti ai lavori, considerato inappropriato e poco adeguato a designare il lavoro di
cura. Si ricorda che il termine “badare” veniva usato nell’ottocento per designare l’attività di sorve-
glianza di animali ( pecore, oche, porci). La sociologa Paola Piva propone il termine “assistente fa-
migliare”; usa il termine badante solo per designare le donne che lavorano nella cura degli anziani
presso istituzioni ospedaliere. ( cfr. P. PIVA, Anziani accuditi da donne straniere, dattiloscritto pres-
so Comune di Venezia, Assessorato alle Politiche Sociali, Venezia 2003). La Caritas propone l’uso
del termine “aiutante domiciliare” ( cfr. CARITAS, Immigrazione Dossier Statistico 2002, Roma,
2002, p. 299). Secondo il dizionario Zingarelli del 2001 la parola badante designa il “sorvegliante
dei degenti ricoverati in ospedali o case di cura”; con questa accezione la parola era già in uso sin
dagli anni 60. Oggi però il termine badante ha assunto un significato molto più ampio , è entrato a
far parte del vocabolario quotidiano e la maggior parte delle volte fa riferimento alla persona che la-
vora all’interno di case private.

4. Le categorie per definire i giovani migranti (LE SECONDE GENERAZIONI)

Il concetto di “generazione” è utilizzato in sociologia e in demografia con accezioni perse. Può ri-
ferirsi alla discendenza, alle classi di età, alle coorti demografiche, ai periodi storici.
Spesso quando nelle ricerche si parla di seconde generazioni, intendendo i figli di immigrati di re-
cente insediamento, si sovrappone una categoria storico-temporale con una demografica e penta
palese l’impropria sostituibilità dei termini immigrato e straniero, due termini senza sovrapposizio-
ne di area semantica, abitualmente usati come sinonimi anche in documenti giuridici.
Dossier sulle donne migranti e il Mercato del Lavoro
a cura della prof.ssa Francesca Lazzari (02 febbraio 2021)


Le seconde generazioni possono essere costituite da stranieri senza essere immigrati e non vanno
confuse tout court con i minori immigrati in quanto la sostanziale equivalenza delle due definizioni
è destinata a scomparire, all’affacciarsi all’età adulta.
L'universo degli adolescenti stranieri è rappresentato, soprattutto in Italia, da giovani con situazioni
molto perse . Il denominatore è costituito dall'esperienza della migrazione, intesa non solo come
spostamento da un luogo ad un altro, bensì come cambiamento radicale, che mette in crisi i legami di
appartenenza e affiliazione culturale.
Si delinea, in questo senso, un insieme di fattori di vulnerabilità e rischio sociale con cui i minori stra-
nieri sono costretti in un modo o nell'altro, a confrontarsi durante il necessario processo di ridefini-
zione della propria identità nel nuovo contesto di residenza.
L’integrazione e la socializzazione delle seconde generazioni di migranti sono state solo recentemen-
te analizzate. Nel nostro paese, con ottica emergenziale, si è focalizzato soprattutto il contesto delle
migrazioni di prima generazione e dei minori non accompagnati.
Nella realtà italiana le statistiche non solo ci dimostrano che il numero dei minori stranieri nati in
Italia sta crescendo, ma anche che l'indice di natalità degli immigrati supera quello degli autoctoni,
lasciandoci intravedere, nell'arco di qualche anno, l'esistenza di una società segnatamente multietni-
ca e culturalmente differenziata, di cui i figli degli stranieri costituiranno una parte essenziale.
Le seconde generazioni sono equilibrate per genere all’interno delle singole comunità, gli squilibri
di genere appaiono più nelle rappresentazioni del fenomeno, che non nella realtà: gli italiani pensa-
no ai giovani migranti normalmente come adolescenti maschi.
Le seconde generazioni in senso stretto, nati in Italia da genitori stranieri, aumentano a un ritmo
molto sostenuto, con progressione pressocché costante: dal 2001 ad oggi, sono cresciute di circa il
20%. I passaggi alla maggiore età penteranno un fenomeno quantitativamente rilevante. La loro
quota sulla popolazione giovanile è destinata a crescere molto rapidamente.
Nelle principali città italiane i nati con madre straniera sono oggi circa il 20% del totale. Nel Nord –
Est tale dato è intorno al 23%.
La condizione dei minori stranieri presenti nel territorio italiano è disciplinata da una varietà di nor-
mative, sia di diritto italiano, sia di diritto europeo comunitario e internazionale.
Tali normative hanno in comune alcuni principi essenziali, finalizzati alla tutela e alla valorizzazio-
ne della personalità del bambino e dell'adolescente, i quali trovano precisa e universale enunciazio-
ne, in particolare, nella Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989. Tali principi ri-
guardano i minori di 18 anni indipendentemente dalla loro nazionalità.
In linea di principio, la condizione del minore d'età straniero non comunitario o apolide segue quella
dei suoi genitori o delle altre persone esercenti la potestà genitoriale che lo accompagnano
all'ingresso in Italia o alle quali ottiene successivamente di ricongiungersi.
Il minore di 14 anni è infatti direttamente registrato nel permesso di soggiorno, o nella carta di sog-
giorno, del genitore o dell'affidatario cittadino straniero. Se ha più di 14 anni gli viene rilasciato un
permesso per motivi familiari. Tale diritto prevale sul principio che vieta l'espulsione del minore di
18 anni. Se è il genitore ad essere espulso, il figlio ha il diritto di seguirlo.
L’unità del nucleo familiare giustifica, da parte del tribunale per i minorenni, quando ricorrano gra-
vi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del
minore che si trova nei territorio italiano, l'autorizzazione all'ingresso e alla permanenza in Italia di
uno straniero che non avrebbe titoli per l'accesso.
Il pieto di espulsione del minore di 18 anni si collega al pieto di ingresso in Italia del minore pri-
vo di un visto valido (per studio, ricongiungimento familiare, cure sanitarie, turismo o per adozione)
che non sia accompagnato da un genitore o da un parente entro il quarto grado (genitore, nonno, fra-
tello, zio, cugino). I minori stranieri non accompagnati presenti in Italia sono, altresì, clandestini.
Dossier sulle donne migranti e il Mercato del Lavoro
a cura della prof.ssa Francesca Lazzari (02 febbraio 2021)


La condizione che meglio tutela il minore nei contesti della migrazione è quella che lo vede accom-
pagnato dalla propria famiglia .
Nelle esperienze straniere dei paesi di vecchia immigrazione le ricerche evidenziano come sia con
le seconde generazioni che si manifesti la transizione irreversibile nel percorso di adattamento tra
immigrati e società ricevente.
Ciò determina che la formazione di una nuova generazione scaturita dall’immigrazione rappresenta
non solo un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e un
fattore di trasformazione delle società riceventi .
E’ una moltitudine variegata, che racchiude storie e percorsi migratori differenti la cui importanza
nel processo di adattamento e di integrazione nel nuovo contesto sociale viene spesso sottovalutata
e che nella scuola non sempre trova lo spazio di intermediazione e accompagnamento verso la so-
cietà più larga.
Tra gli studiosi c’è un dibattito nazionale e internazionale per definire i giovani migranti di secon-
da generazione. Non esiste una accezione univoca sul termine seconda generazione. Prevalente-
mente è inteso in senso ampio e comprende sia i figli di immigrati nati nel paese di origine e ricon-
giunti in seguito, giunti in età pre-scolare o giunti in Italia dopo aver iniziato il percorso scolare nel
paese di nascita, minori giunti soli e presi in carico da progetti educativi realizzati in Italia, minori
rifugiati, minori arrivati per adozione internazionale, figli di coppie miste, figli nati nel paese rice-
vente, migranti senza aver sperimentato la migrazione, verso i quali le legislazioni nazionali non
hanno un atteggiamento univoco, in alcuni paesi sono considerati cittadini, in altri sono ritenuti stra-
nieri e in altri ancora, fra cui il nostro, possono acquistare la cittadinanza facendone richiesta rag-
giunta la maggiore età: la legge italiana riconosce l’accesso alla cittadinanza italiana alla persona
nata in Italia da genitori stranieri e vissuta continuativamente sul nostro territorio, che ne faccia ri-
chiesta tra il 18° e il 19° anno di età.
I figli d’immigrati nati in Italia sono figli di persone immigrate già da molti anni, i cui legami con il
paese d’origine sono labili e relativi soprattutto a periodi di vacanza. Essendo nati e cresciuti in Ita-
lia parlano perfettamente l’italiano e sono in genere ben inseriti nell’ambiente scolastico e urbano
(in qualche studio si introduce il termine terze generazioni o generazione 3 per indicare i nati nel
paese ricevente, ma la letteratura prevalente li considera all’interno della seconda generazione ).
Questa situazione caratterizza anche i minori giunti in Italia al di sotto dei tre o quattro anni, quasi
del tutto privi di ricordi relativi al paese d’origine.
Ci sono definizioni più ristrette, che limitano la seconda generazione ai figli di due genitori entram-
bi stranieri, altre che includono anche i figli di madre straniera, giacché la figura materna è ritenuta
la più importante per l’apprendimento linguistico e la prima socializzazione, o di padre straniero,
convenzionalmente considerato più rilevante per lo status sociale; infine, le definizioni più com-
prensive comprendono i figli di almeno un genitore nato all’estero.
Un nodo problematico è rappresentato dall’età al momento dell’arrivo, considerata discriminante
per la definizione di seconda generazione. Si riscontrano obiezioni per ragazzi e ragazze immigrati
tra i 15 e i 18 anni, specialmente se non accompagnati, che emigrano soli, spesso in relazione a stra-
tegie familiari e che rappresentano oggi una realtà in forte crescita, data la fase di stabilizzazione
dei processi migratori.
In seguito alla migrazione di uno dei due genitori o di entrambi, dopo aver passato l’infanzia al pae-
se d’origine, spesso con i nonni, anche i figli vengono chiamati in Italia per raggiungere i genitori
dopo che questi hanno trovato una posizione di lavoro stabile e un alloggio. L’età di arrivo è la più
persa e alcuni studiosi suggeriscono di distinguere all’interno di questa categoria tra:
-    i ragazzi arrivati in età prescolare
-    quelli arrivati dopo aver iniziato la scolarizzazione nel paese d’origine
Dossier sulle donne migranti e il Mercato del Lavoro
a cura della prof.ssa Francesca Lazzari (02 febbraio 2021)


-    i giovani arrivati dopo il 13-14 anno, la cui situazione è molto vicina a quella dei genitori
primo-migranti.
In quest’ ultimo caso i ragazzi vivono una fase di adattamento scolastico e sociale più difficile e
sono più esposti a situazioni di disagio e disadattamento. In Italia molti adolescenti e giovani-adulti
di origine straniera appartengono ancora a questa fascia, visto che i nati in Italia sono per il momen-
to molto più numerosi tra gli studenti delle elementari e delle medie.
Rumbaut ( 2004) per superare queste difficoltà di definizione, ha introdotto, una classificazione de-
cimale della seconda generazione. Ha proposto il concetto di generazione 1,5 aggiungendo la gene-
razione 1,25 e quella 1,75: la generazione 1,5 è quella che ha cominciato il processo di socializza-
zione e la scuola primaria nel paese d’origine, ma ha completato l’educazione scolastica all’estero;
la generazione 1,25 è quella che emigra tra i 13 e i 17 anni; la generazione 1,75 si trasferisce
all’estero nell’età prescolare (0-5 anni).
Da quanto detto, risulta chiara la difficoltà di definizione di soggetti coinvolti sia nel processo di so-
cializzazione e di transizione all’età adulta, sia nel progetto/processo migratorio dei loro genitori ( la
stessa dizione minori immigrati non è corretta nella misura in cui include soggetti nati in Italia, per
non parlare del paradosso, del considerarli migranti a tutti gli effetti come i loro genitori).
Il sociologo Ilvo Diamanti ( La Repubblica, 2005) definisce le seconde generazioni come extra-ita-
liani. Extra, perché la loro personalità accoglie competenze ed esperienze attinte oltre confine e
perché cumula più elementi culturali, più conoscenze sociali e comunicative (parlano, quasi sempre,
più lingue); extra – italiani perché proiettano la loro visione oltre i limiti del nostro mondo. “Ex-
traitaliani: italiani oltre e di più … possono aggiungere un po’ di colore. Giovinezza e caparbietà.
Voglia di arrivare. Capacità di comunicare con il mondo. A noi italiani-indigeni. Demograficamen-
te in declino. Grigi. Invecchiati e per questo più impauriti. Culturalmente pingui. Lenti. Ci conviene
farci raffigurare insieme a loro. Il ritratto degli italiani che ne esce è sicuramente migliore. Esteti-
camente. Ma non solo.”
Il Consiglio d’Europa (Raccomandazione, L’appartenence de l’étranger à plusiers cultures et les
tensions qui en résultent, Strasbourg, 1983) considera migranti della seconda generazione i bambini
che sono nati nel paese d’accoglienza da genitori stranieri immigrati, che vi sono giunti con la fa-
miglia oppure che sono arrivati nel paese di accoglienza a titolo di ricongiungimento familiare e che
vi hanno compiuto una parte della loro scolarizzazione o della loro formazione professionale.
Nelle ricerche di mercato legate agli stili di vita delle seconde generazioni è utilizzato spesso il
modello che introduce le graduazioni esistenti all’interno della categoria G2 ( G 1,25 i minori mi-
grati in Italia tra i 13 e i 17 anni, G 1,5 i minori che hanno frequentato la scuola primaria nel paese
di origine e G 1,75 i minori che sono migrati in Italia prima dei 5 anni di età) e riconduce in essa an-
che le terze generazioni o G 3 ( i nati in Italia) che comunque vivono molto delle problematiche
identitarie delle G 2. La categoria G 1 rappresenta la prima generazione.

In realtà definire il significato di seconda generazione pone un problema non solo classificatorio.
Ciò appare particolarmente rilevante per i minori nati in Italia da genitori immigrati i quali si trova-
no a dover affrontare il dramma di percepirsi italiani, ma di non essere riconosciuti come tali, né dai
propri genitori né dalla società in cui sono inseriti.

Parlare di immigrati di seconda generazione è un non-senso: nel verbo migrare è implicita l’idea di
spostamento in seguito ad un progetto intenzionale che non è quello dei figli, bensì dei loro genitori.
Il risultato del tentativo di omogeneizzare degli inpidui sulla base dell’ appartenenza familiare,
nega la loro soggettività e la peculiarità delle esperienze dei figli rispetto a quelle dei genitori che
si sostanziano nel passaggio all’età adulta.
Dossier sulle donne migranti e il Mercato del Lavoro
a cura della prof.ssa Francesca Lazzari (02 febbraio 2021)


Di seguito si riporta la definizione con cui i giovani migranti italiani preferiscono autodefinirsi (Chi
siamo in www.secondegenerazioni.it)
“G2 - Generazioni Seconde è il nome che alcuni figli e figlie di immigrati, nati in Italia o arrivati
da minorenni, hanno scelto per definirsi. Si tratta di un network di cittadini del mondo, originari di
Asia, Africa, Europa e Latinoamerica, che hanno deciso di lavorare insieme su due punti fondamen-
tali: i diritti negati alle seconde generazioni senza passaporto italiano e la loro identità, incontro di
più culture.

(G2 nasce a Roma nel 2005, la maggior parte dei suoi membri è cresciuta nella capitale, ma mantie-
ne un dialogo costante con seconde generazioni di Milano, Torino, Napoli, Mantova, Bologna, Reg-
gio Emilia, Prato, Genova. Nascono il BLOG G2 e il Video G2, due strumenti collettivi di comuni-
cazione per discutere di diritti, identità, amarezze e curiosità di una nuova generazione).