Differenza di genere_articolo

Differenze di genere, reciprocità e responsabilità dei legami di cura

Differences of gender, reciprocity and responsability of taking- care

di Francesca Lazzari


Parole-chiave: genere, reciprocità, responsabilità, cura
Key words: gender, reciprocity, responsibility, care

Abstract
L’articolo si contestualizza all’interno del dibattito e dei percorsi euristici che hanno affrontato e affrontano
la tematica delle differenze di genere sviluppando una prospettiva culturale che va inpiduata nel legame
genere-reciprocità. Si tratta di un percorso evolutivo e trasformativo che ridefinisce il senso e il significato
della cura rispetto al genere. La cultura della mediazione-negoziazione integra l’ottica delle differenze con la
capacità di empowerment espressa dall’etica della responsabilità. Si delinea una possibilità soggettiva di
rispondere in modo originale ai modelli identitari, socialmente disegnati.

The article is contextualised within the debate and the heuristic paths that have and continue to deal with the
topic of gender differences, developing a cultural perspective to be identified within the link of gender-
reciprocity. It's an evolutionary and transforming path that redefines the sense and the meaning of care-
taking for the female gender. The culture of mediation-negotiation integrates the perspective of the
differences with the capacity of empowerment expressed by the ethic of responsibility. A subjective
possibility to respond in an original way to socially designed identity models is outlined.


La dimensione del genere si propone, nella complessità della realtà contemporanea, quale area
semantica in cui singoli e singole si percepiscono e si rapportano “disegnando” i percorsi delle
proprie soggettività. La re-visione dello status ontologico della maschilità e della femminilità, dei
modi in cui i sessi si percepiscono e si rapportano, dei mezzi con cui le persone si relazionano con il
genere, modifica la dialettica maschile e femminile emancipandola dalle polarizzazioni sessuali. Si
intravede la possibilità di conquistare la dimensione della pluralità e della differenza.
L’identità di genere non è statica, ma performativa: richiede negoziazione, riconoscimento,
impegno. Si tratta di recuperare l’attenzione ai modi di designarla discorsivamente, utilizzando
strumenti che non separino le forme del discorso dalle forme dell’azione.
Le differenze di genere sono state costruite sulle differenze di sesso, ed il sesso, a sua volta, non è
un dato "oggettivo", neutro, senza storia (Laqueur, 1990). Guardare alla dimensione di genere come
aspetto plurale significa fare spazio, ad esempio, alla sessualità e alle sue perse espressioni, fare
spazio all'analisi del costituirsi delle differenze, ai processi complessi - di ordine storico, sociale,
giuridico - che ne sono alla base, e alle loro forme di espressione concreta.
Ridurre la complessità delle costruzioni identitarie inibisce il fluire dell’alterità, funzionale proprio
alla rappresentazione dell’identità medesima. E si torna alla valorizzazione della soggettività. La


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differenza di genere richiede reciprocità piuttosto che ambigue forme di tolleranza , che più o meno
consapevolmente tendono all'assimilazione (tollerare dal latino: portare, supportare, stare sotto e
sostenere il peso, l'avversità... la persità di qualcosa ).
La tolleranza viaggia solo in una direzione: e' relazione asimmetrica, è categoria utilizzata per
interpretare il rapporto con l'altro/a come perso/a senza la pretesa di renderlo/a simile,
lasciandolo/a essere ciò che vuole e riconoscendo la legittimità della sua differenza. La tolleranza e'
anche forma passiva, inerte nel rapporto con l'altro/a, permette di "coabitare", non di comunicare, se
l'altro/a è tollerato/a, molto di ciò che rappresenta viene dimenticato, perduto. Quindi contiene in sè
un profondo limite: solo chi è può tollerare, solo chi ha una norma in sè, può tollerare l'anormalità,
la differenza. Solo una soggettività forte in una relazione non simmetrica è capace di tollerare.
L'altro/a e' solo il lato passivo del valore, mai soggetto, ma solo oggetto di tolleranza. Pensare nella
forma della tolleranza il rapporto con l'altro/a significa rimuovere la sua differenza, farne un
problema suo, che si risolve nel lasciarlo/a, essere perso/a.
La differenza di genere nella forma della tolleranza esclude la reciprocità in quanto "pensa la
differenza nella forma dell'indifferenza".
Solo la reciprocità del riconoscimento dà significato ai sentimenti, alle intenzioni e alle azioni del
Sé e permette di verificare l'efficacia del proprio agire e della propria creatività. Si richiede la
presenza e la relazione con un altro/a, riconosciuto/a      come pienamente significante. Nella
tolleranza la relazione è unilaterale, univoca: da A verso B che è nel bisogno. Nella reciprocità la
relazione è bidirezionale: dal soggetto A, che è nel bisogno, al soggetto B, che è nel bisogno, ma il
rapporto è tale per cui anche la relazione risponde a bisogni differenti. La reciprocità, tende ad
unire.
Alla base dei rapporti tra persone non neutre, ma con connotazione di genere coabitano concetti
come tempo e reciprocità. Dare e ricevere, scambiare, non solo mediante il sistema economico del
mercato, ma animati dallo spirito della reciprocità e della relazione.       Relazioni reciproche
introducono il problema della concezione che si ha del tempo reale, quello vissuto con gli altri,
quello che si concentra nel presente in quanto punto di partenza della memoria. Nella reciprocità il
pensiero cerca di ri-memorizzare il fatto vissuto con l'altro/a: l'immagine, l'immaginazione, il
simbolico emergono nella relazione che vive il tempo come legame e non come misura, come
tempo soggettivo, emotivo, come ritmo personale e comunitario, come tempo di scelta e
conpisione. L'introduzione della categoria del genere produce una ridefinizione dell'impianto
analitico riferito all'organizzazione del tempo sia a livello inpiduale, sia come costruzione sociale,
subordinata ieri ai ritmi della fabbrica fordista, oggi ai lavori postfordisti, disseminati, con strutture
orarie flessibili. Guardate dal punto di vista del tempo, acquistano maggiore e più articolata


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evidenza le asimmetrie di genere nella scuola (maggiore successo, minore dispersione, segregazione
formativa in certi settori delle ragazze, ecc.) e nel lavoro (carriere discontinue, prevalente attività
nel terziario, segregazione occupazionale, salario differenziato delle donne, ecc.). Se non viene
considerata la presenza femminile con la lente della specificità di genere, che tanto condiziona la
percezione e l’uso del tempo, la valorizzazione della differenza rimane formale, enunciata,
appiattita sulla retorica della vocazione al materno e alla cura.
D’altronde l’identificazione della donna con la cura è uno dei topoi del pensiero occidentale fin
dalle sue origini e trova fondamento essenzialmente proprio nel materno. Questa identificazione si
fonda anche sulla teorizzazione di due strutture emotive differenti nei due sessi e sull’esistenza di
un approccio relazionale altrettanto differente. Nel femminismo classico si cercava di costruire
l'identità femminile partendo da un soggetto centrale, il maschio, ed elaborando differenze rispetto a
questo: in tal modo, il femminile manteneva significati di marginalità e risultava essere polo
contrapposto e non paritetico rispetto la dominanza del maschile, interpretato come soggetto
universale neutro. L'universale infatti, non potendo prevedere in sé che un unico canone, si è ridotto
al maschile e ha prodotto un duplice effetto di negazione. Si nega la donna come soggetto, perché
l’universale omologa a sé la soggettività, occupandosi di questioni astratte e tralasciando le persone
concrete e, nel contempo, si nega il simbolico femminile, perché il prevalere del modello maschile,
basato sulla razionalità, subordina i valori del femminile e in primo luogo il materno.
Il materno è dunque ciò che conferisce alla donna la sua peculiare specificità e dignità di soggetto di
cura: un soggetto relazionale, empatico, costitutivamente aperto all’alterità. Tuttavia, questo
riconoscimento delle peculiarità positive e nobili della differenza femminile presenta delle
implicazioni sacrificali, connotando l’affettività in senso puramente altruistico e ablativo, che si
traduce spesso nella negazione del diritto al pathos e all’eros. In secondo luogo, la cura viene
identificata con la sfera intima e privata e bandita dalla sfera sociale e pubblica che è l’ambito
dell’interesse e delle passioni acquisitive, della competizione e della rivalità dei soggetti maschili.
Da un lato, si configurano dunque le passioni egoistiche (maschili) che sfociano, in età
postmoderna, nella crisi del legame sociale e nella perdita di comunità; dall’altro, i sentimenti
altruistici (femminili) che tendono alla relazione e alla connessione, alla communitas, ma a costo
del sacrificio di sé. Nell'economia binaria dell'ordine simbolico patriarcale, quale gabbia
determinata dall’incapacità maschile di pensare a sé senza decidere una rappresentazione del sesso
femminile a questo sé funzionale, il pensiero rimane impigliato nelle ben note dicotomie
positivo/negativo,   cultura/natura, mente/corpo, pubblico/privato e, chiaramente, maschile
/femminile (Cavarero, 2002). Tale realtà assume una posizione all'interno di un panorama variegato,
di cui si ricostruiscono rilievi e contorni, con un'attenzione tanto preziosa quanto insolita al


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radicamento della riflessione filosofica in luoghi precisi. Nel recente dibattito femminista non si
tratta solo di varie correnti, e perciò di persi stili di linguaggio e di pensiero che si incrociano, ma
anche di una persa espansione e clonazione di tali incroci secondo aree geografiche e, perciò
linguistiche, distinte.
Il problema consiste allora nel chiedersi se sia possibile superare questa opposizione
egoismo/altruismo, che si raddoppia in quella maschile/ femminile, pubblico/privato. Il pensiero
della differenza sessuale risulta decisivo per pensare questo carattere espositivo e relazionale
dell'identità che lavora per una riedificazione radicale dell'etica e della politica.
A questo proposito appare interessante il tentativo di riassumere e valorizzare il modello della cura,
sottraendolo però alle sue matrici sacrificali.    Nel modello definito dell’ “etica della cura”
(Gilligan,1987) la tendenza femminile alla connessione e alla relazione viene integrata attraverso il
momento dell’autonomia e dei diritti inpiduali: si passa dalla categoria della cura, quale
dimensione e modalità puramente privata, alla categoria della responsabilità che piene nuova
modalità di relazione e paradigma universale esteso alla sfera pubblica e sociale.
Il concetto di responsabilità consente, infatti, di tenere uniti, in modo ambivalente, i due aspetti
irrinunciabili della inpidualità e dell’apertura all’alterità. La responsabilità rimanda da un lato alla
unicità, alla insostituibilità dell’inpiduo (nessuno può sostituirmi nel mio agire responsabile; io
sono chiamato alla responsabilità e nessuno può essere responsabile al mio posto e, dall’altro, alla
sua capacità di rapportarsi all’altro inteso non più solo come mezzo, ma come fine, come oggetto di
una tensione relazionale.
Non si tratta evidentemente di negare l’importanza di una fondazione ontologica o deontologica
dell’etica della responsabilità, ma di suggerire che forse la prima operazione da fare è quella di
sondare la possibile esistenza di radici antropologiche della responsabilità. Si potrebbe certo ovviare
a quest’ultimo aspetto, proponendo una riassunzione simbolica (e non biologica o destinale) del
materno; si potrebbe cioè assumere il materno solo come uno dei possibili fondamenti di un
inpiduo che è capace di conservare il senso dell’altro. Ma anche in questo caso la cura e la
responsabilità sarebbero limitate a ciò che è più fragile e vulnerabile. In questa prospettiva, si
muove infatti anche Hans Jonas quando indica nel modello parentale l’archetipo della responsabilità
necessaria alla nostra epoca: una responsabilità non reciproca verso ciò o verso chi non è in grado di
autoproteggersi (figli, natura, generazioni future), vale a dire verso coloro che non hanno a loro
volta la possibilità di pentare soggetti di responsabilità (Jonas, 2002). Ma il rischio è, appunto,
quello di riproporre una forma essenzialmente unilaterale e oblativa di responsabilità che non spiega
le ragioni profonde e autonome del soggetto né è in grado di prefigurare una persa forma di
legame e di relazionalità.


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Solo il carattere di reciprocità sottrae la responsabilità ad una visione meramente altruistica senza
ridisegnarla con la lente della simmetria, dell’ equivalenza e dello scambio paritetico (come avviene
nel modello contrattuale).
Questo altruismo dell’unicità non è sacrificio: si differenzia da mortificazione, benevolenza,
rinuncia. Rappresenta ,piuttosto, lo statuto ontologico del chi, sempre relazionale e contestuale, cui
è necessario l’altro (Cavarero, 2005). E’ evidente che il paradigma di questa politica ed etica
dell’unicità si moduli, nel rapporto del tu con l’io che informa la pratica del racconto e il linguaggio
del femminismo della differenza sessuale.
In questo senso si può pensare alla responsabilità come dono che ci consente di elaborare una forma
persa – né egoista, né altruista – di legame sociale, di relazione tra l’Io e l’altro.
Il dono consente infatti, nella sua rilettura maussiana, di coniugare entrambi gli aspetti,
apparentemente opposti e contrastanti, di gratuità e di libertà del sè, di reciprocità e autonomia, di
generosità e interesse. Si dona non per puro altruismo né per ricevere qualcosa in cambio, ma per
ristabilire un legame e si riconosce nell’altro una parte costitutiva della propria identità. Si dona
dunque non per un atto di pura generosità verso l’altro debole e svantaggiato, ma perché si
riconosce la propria stessa vulnerabiltà, dipendenza, mancanza. Così facendo si crea e si ricrea
costantemente un tessuto di reciprocità che può essere del tutto asimmetrico. Si instaura un circuito
di reciprocità in un ciclo interminabile e sempre aperto. Reciprocità come espressione di una scelta
autonoma che scaturisce da un autentico desiderio (o passione) dell’io; vale a dire da una fedeltà a
se stessi che si manifesta nel riconoscimento della propria dipendenza ineludibile dall’altro, nel
bisogno di appartenenza e di legame. La simbolica del dono, riletta con la lente della differenza,
perde dunque la connotazione sacrificale per emergere come evento capace di coniugare in sé
autonomia e consapevolezza della dipendenza, autenticità e ospitalità, autorealizzazione e
reciprocità. In questa chiave, la cura presenta inedite potenzialità sia per la configurazione
dell’identità femminile, sia per la costruzione o rifondazione del legame sociale. La relazione di
cura viene reinterpretata come strumento attivo di ridefinizione di sé in quanto soggetto con
competenza relazionale e ospitale. Tale competenza va valorizzata in ogni ambito, privato e
pubblico. Il privato e il pubblico delle donne si intreccia nella loro capacità di multipresenza nella
relazione e nel sociale. Esse possono rovesciare la loro posizione di soggette al dono, depositata
nella tradizione occidentale, riconoscendosi attivamente e consapevolmente come soggetti di cura
nella reciproca responsabilità. Ciò vuol dire che l’essere per l’altro,      depurato da risonanze
sacrificali, penta un saper essere con l’altro: dove l’altro non è l’oggetto di una incondizionata
dedizione che esige la mutilazione della propria identità. La reciprocità letta attraverso la
dimensione della differenza di genere assume il significato di «responsabilità dei legami».      Si


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evidenziano l’etica del fare, la contestualità dell’agire che spesso il pensiero femminile ha
efficacemente opposto all’astrattezza degli imperativi etici.
L'esplorazione della nozione di differenza di genere (Gramigna, 2005) ci aiuta a definire da un
punto di vista teoretico una semantica della relazione consentendoci di cogliere "la struttura che
connette" la molteplicità all'unità e che le costituisce reciprocamente,    di inquadrare i nodi
fondamentali del nostro tempo e di coglierne le implicazioni progettuali in senso formativo e in
senso analitico perché ci aiuta a cogliere il cambiamento incessante che sottende ogni processo
formativo, ogni movimento della vita,: "Galleggiamo (…) In un mondo che non consiste se non nel
cambiamento, anche se parliamo come se nel mondo ci fosse un elemento statico"(Bateson, 1984).
Il mutamento infatti muove i suoi passi dalla differenza, sia in senso quantitativo che qualitativo,
spaziale e temporale, produce differenza ma, al tempo stesso, essa stessa ne rappresenta il
presupposto essenziale solo sulle basi di identità soggettive e sociali multiple e consapevoli della
loro complessa, incessante, interagente coevoluzione delle culture, delle forme di vita e degli habitat
mantiene intatta la persità biologica del pianeta : “Diversità culturale e persità biologica si
tengono". (Vandana Shiva, 2001). La responsabilità dei legami non deriva né dalla coazione in
base all’appartenenza al genere femminile, né da un imperativo morale, ma dalla capacità di aderire
attivamente e liberamente ad una spinta emotiva che indica nel riconoscimento dell’altro/a la
condizione ineludibile per la costruzione dell’identità e della convivenza sociale. Sempre più la
complessità ci suggerisce che si dovranno formalizzare e connettere differenze, esperienze,
linguaggi, tradizioni, approcci, punti di vista,al fine di includere le proprie molteplici identità con
quelle, perse, che si incontreranno.




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