Diritto antidiscriminatorio

Corso di diritto   Materiali per
antidiscriminatorio  la formazione
Corso di diritto
antidiscriminatorio
Materiali per la formazione




               Rare sono le persone
               che usano la mente.
               Poche coloro che usano
               il Cuore e uniche coloro
               che usano entrambi.

               Rita Levi-Montalcini
Coordinatrice Scientifica
Avv.ta Maria (Milli) Virgilio

Progetto Grafico e Impaginazione
Davide Camisa
Federica Grilli

Stampa
Centro Stampa Regione Emilia-Romagna

Febbraio 2021
Indice




Presentazione di Sonia Alvisi e Antonella Rimondi. Postilla di   pag 7  3
Franca Maltoni

Saluti di Maria Masi, Franca Bagni Cipriani, Roberta Mori,     pag 13
Giovanni Berti Arnoaldi Veli

Il Corso di Alta formazione. Locandina, calendario e programma   pag 21


Contributi
 Stefania Scarponi – I pieti di discriminazione fra diritto   pag 29
 europeo e nazionale

 Andrea Lassandari – Il licenziamento discriminatorio       pag 41

 Patrizia Tullini – Il licenziamento discriminatorio e ritorsivo  pag 51
 (Scheda)

 Sara Passante – Le azioni in giudizio: profili sostanziali e   pag 57
 processuali. I casi di discriminazioni di genere tra direttive
 europee e ordinamento nazionale
  Carlo Sorgi – Istruzioni per il buon uso della giurisdizione     pag 71
  contro le discriminazioni

  Chiara Rigosi – Le discriminazioni sul lavoro e conseguenze     pag 79
  risarcitorie. La tutela processuale e i precedenti
  giurisprudenziali

  Mario Turco – Le discriminazioni sul posto di lavoro e il      pag 99
  risarcimento del danno. Prassi giudiziali

  Valeria Moscardino – Le discriminazioni sul lavoro: la vigilanza   pag 107
  e il sistema sanzionatorio

  Laura Calafà – La discriminazione per maternità e dintorni      pag 115

  Marta Tricarico – Maternità in avvocatura: contrasto alle      pag 123
  discriminazioni

  Antonella Gavaudan – Discriminazioni di genere e per età       pag 133

  Anna Salfi – Cultura, norme, prassi e azioni negoziali contro le   pag 141
  discriminazioni di genere
4
  Cathy La Torre – Il contrasto alla discriminazione legata alla    pag 145
  identità di genere e all’orientamento sessuale

  Francesca Rescigno – Uguali senza distinzione di religione      pag 151

  Diletta Tega – Le politiche xenofobe in Italia continuano a     pag 179
  essere incostituzionali

  Alberto Piccinini – Discriminazioni per ragioni politiche e     pag 185
  sindacali

  Nazzarena Zorzella – Discriminazioni basate sulla nazionalità e   pag 191
  sulla condizione personale

  Paolo Addis e Maria Giulia Bernardini – Le discriminazioni      pag 195
  fondate sulla disabilità: aspetti teorici e casi pratici

  Sara Passante – La discriminazione per disabilità. Analisi di casi  pag 247
  concreti

  Maria (Milli) Virgilio – Profili di diritto penale nel diritto    pag 255
  antidiscriminatorio
    Antonella Rimondi – Molestie sessuali e sicurezza sul lavoro:    pag 271
    obblighi e responsabilità del datore di lavoro

    Sonia Alvisi - Le istituzioni italiane di parità          pag 289

    Serenella Molendini – Il Patto di Alleanza tra Consigliera     pag 297
    Regionale di Parità e Ordine Forense


Strumenti e materiali
  Come contattare la/il consigliere di parità nazionale, regionale o   pag 303
  locale in Emilia-Romagna

  Accordi e protocolli

       Protocollo di intesa 22 giugno 2017 CNP – CNF         pag 307

       Accordo quadro europeo 8 novembre 2007            pag 315

        Accordo Regionale RER 17 maggio 2018 CONFAPI – CGIL,     pag 323
       CISL e UIL

  Le fonti normative del diritto antidiscriminatorio. Elenco dei titoli  pag 331  5
  di legge

  Bibliografia. Riferimenti essenziali                  pag 342

Casistica
  Un caso di discriminazione per maternità davanti alla Consigliera
  di parità di Rimini e poi al Giudice del Lavoro di Rimini

        Scheda di Carmelina Fierro                   pag 343

        Sentenza Tribunale lavoro Rimini n. 216/2016          pag 345

  Un caso di discriminazione per maternità davanti alla Consigliera
  di parità di Modena nell’atto di intervento ad adiuvandum        pag 349
  dell'avv. Mirella Guicciardi
Presentazione

Sonia Alvisi* e Antonella Rimondi**



Questa pubblicazione intende valorizzare l’esperienza del “Corso di Alta Formazione
in materia antidiscriminatoria” svoltosi a Bologna dal 30 novembre 2018 all’8 marzo
2019, per 28 ore distribuite su 8 incontri (vedi Programma).

Il progetto del Corso ha trovato le sue ragioni ben oltre quelle di uno dei momenti di
formazione continua previsti per l’Avvocatura al fine di realizzare il principio di com-
petenza a vantaggio dell’interesse pubblico – e quindi dei cittadini – alla corretta
prestazione professionale e alla migliore amministrazione della giustizia.

Qui si è inteso porre la competenza dell’Avvocatura al servizio delle funzioni isti-
tuzionali delle Consigliere di Parità: è questa l’idea forte del Protocollo di intesa
tra Consigliera Nazionale di Parità e Consiglio Nazionale Forense siglato nel giugno     7
2017 (vedi testo del Protocollo).

Un progetto volto “a favorire il giusto accesso alla giustizia per le vittime di discri-
minazioni e promuovere una strategia integrata di prevenzione e contrasto delle
discriminazioni, nonché favorire l’emersione del fenomeno della discriminazione
attraverso un monitoraggio dei procedimenti per i persi fattori di discriminazione”.

Gli ambiti di intervento sono davvero vasti, potendo riguardare ogni procedimento
giudiziale e/o stragiudiziale, in materia civile o penale, in cui le Consigliere di Parità
sono chiamate a svolgere attività di assistenza o a promuovere azioni inpiduali o
collettive, anche in via d’urgenza, a tutela delle vittime di comportamenti discrimi-
natori.

È stata una felice intuizione - quella del protocollo - che, promuovendo un virtuoso
rapporto di collaborazione, rafforza l’azione delle Consigliere di Parità nella tutela
delle vittime e, al tempo stesso, offre all’Avvocatura nuove opportunità di sviluppo
dell’attività professionale attraverso percorsi formativi specializzanti.

È stata proprio la comune volontà di dare concreta attuazione a questi obiettivi a fa-

*Consigliera di Parità Regione Emilia Romagna
** Presidente del CPO Bologna in carica pro tempore e attuale Consigliera del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Bologna
  vorire nella Regione Emilia-Romagna l’incontro tra la Consigliera Regionale di Parità
  e i Comitati Pari Opportunità degli Ordini Forensi – nel frattempo costituitisi in Rete
  regionale – dell’Emilia-Romagna e la realizzazione del Corso di alta formazione, da
  cui è nata la presente pubblicazione.

  Il Corso, rivolto a avvocate e avvocati del distretto della Corte d'Appello di Bologna,
  è stato aperto alla partecipazione anche delle Consigliere Provinciali di Parità dell’E-
  milia-Romagna, nonché dei/delle consulenti del lavoro. Oltre all’obiettivo formati-
  vo, il Corso è stato volto anche alla realizzazione di una short-list su base regionale di
  legali specializzati in diritto del lavoro e diritto antidiscriminatorio a supporto delle
  Consigliere di Parità dell’Emilia-Romagna.

  Il Corso ha visto la partecipazione in veste di relatori di molte/i tra i più autorevo-
  li esperti in materia antidiscriminatoria a livello nazionale, sia dell’Accademia che
  dell’Avvocatura, oltre che della Magistratura e delle Istituzioni e degli Uffici del la-
  voro. Preziosi sono stati i contributi offerti dalle relatrici di estrazione sindacale e
  datoriale, che hanno indicato e messo in luce qualche pratica e/o esempio virtuoso.

  È stata così costruita un’importante occasione di riflessione sullo stato dell’arte in
  materia e sui risultati raggiunti, ma anche di stimolo per future iniziative. Certo mol-
  to resta da fare sul piano della effettività e del cambiamento. Anche per questo la
  collaborazione tra Consigliere di Parità e Avvocatura può rivelarsi preziosa
8
  Il patrimonio di competenze ed esperienze raccolto negli 8 incontri – unanimemen-
  te, a detta di docenti e discenti – non poteva andare disperso, ma meritava di la-
  sciare memoria e testimonianza, anche per future analoghe esperienze formative.
  Fin d’ora infatti si sta lavorando a promuovere nuovi corsi e nuove sensibilizzazioni.

  La finalità di questa pubblicazione è certamente quella di favorire e diffondere la
  conoscenza della normativa nazionale ed europea in materia antidiscriminatoria e
  degli strumenti giudiziali e stragiudiziali di contrasto del fenomeno e di tutela delle
  vittime, ma anche – ed anzi, in primo luogo – di affinare la capacità di riconoscere
  un comportamento discriminatorio.

  Per quanto strano possa sembrare, infatti, molto spesso la discriminazione non è
  percepita come tale neppure dalla stessa vittima o, al contrario, è percepito come
  discriminatorio un comportamento che tale non è. Il problema piene poi ancora
  più complesso nei casi di discriminazione multipla.

  Sapere riconoscere le discriminazioni costituisce pertanto l’indispensabile presup-
  posto per prevenirle/contrastarle.

  Proprio a questo fine il Corso, pur soffermandosi in particolare sulle discriminazioni
  di genere in ambito lavorativo, che costituiscono lo specifico ambito di competenza
  delle Consigliere di Parità, ha analizzato le discriminazioni ad ampio raggio, così da
  offrire una visuale quanto più completa possibile di un fenomeno complesso.
Particolare attenzione è stata poi dedicata al fenomeno delle molestie e, in parti-
colare, delle molestie sessuali sul luogo di lavoro: un problema antico, che resta
tuttora sommerso.

Se frequente è, infatti, il ricorso alle Consigliere di Parità con riferimento ad altre for-
me di discriminazione in ambito lavorativo, legate in particolare alla maternità, sulle
molestie sessuali il silenzio è assordante, nonostante il protocollo sottoscritto tra
la Regione Emilia-Romagna e le parti sindacali CGIL, CISL e UIL (vedi in Appendice).

Al termine del Corso, dopo otto incontri e più di ventotto ore di lezione, avremmo
ascoltato e discusso ancora perché molto ancora resta da dire e discutere, ma so-
prattutto da fare. Per questa ragione il Corso avrà certamente una seconda edizione
ed è già in programma una iniziativa formativa promossa direttamente dal Comitato
tecnico costituito al fine di dare attuazione al Protocollo e alla conseguente realizza-
zione della short-list nazionale.

Anche sotto il profilo dei numeri il bilancio dell’esperienza ci sembra positivo. Le
iscrizioni raccolte sono state circa 250 e 200 le attestazioni di frequenza e supera-
mento della prova finale rilasciate al termine.

Successivamente la Regione Emilia-Romagna ha adottato la deliberazione 4 novem-
bre 2019, n. 733, recante “Adozione di un Avviso pubblico per la formazione di un
«Elenco di avvocate esperte e avvocati esperti in diritto del lavoro e in diritto antidi-   9
scriminatorio»”. Sono state presentate n. 82 domande.

Con determina 13 febbraio 2020, n. 90 si è proceduto alla “Costituzione e nomina
della commissione per l’approvazione e pubblicazione finale della short list degli av-
vocati esperti in materia antidiscriminatoria”: l’elenco pubblicato nel maggio 2020
comprendeva n. 57 nominativi.

In conclusione, desideriamo porgere un sentito ringraziamento a tutte e tutti coloro
che hanno reso possibile questa iniziativa: innanzitutto, in sede nazionale, alla Con-
sigliera Nazionale di Parità, Dott.ssa Franca Bagni Cipriani, e al Consiglio Nazionale
Forense in persona dell’allora Presidente Avv. Andrea Mascherin che ne hanno cre-
ato i presupposti.

Ringraziamo l’Avvocata Maria Masi già Coordinatrice della Commissione Nazionale
Pari Opportunità e oggi Presidente Nazionale pro-tempore; l’Avvocata Milli Virgilio,
curatrice scientifica del Corso e di questo volume, l’Avvocata Marta Tricarico, che
ne ha curato gli aspetti organizzativi. Il ringraziamento va a tutti i relatori che hanno
riempito di contenuti i nostri incontri, il cui lungo elenco è indicato nel Programma;
va alle Presidenti e alle Delegate alle Pari Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emi-
lia Romagna, che hanno creduto nel progetto e nell’importanza di fare “Rete”; alle
Consigliere Provinciali di Parità Carla Castellucci, Carmelina Fierro, Maria Mondelli
che, con i loro interventi, hanno reso vivo il dibattito portando la loro esperienza
   quotidiana; tutte le Consigliere Provinciali di Parità della Regione Emilia-Romagna e
   alla Regione Emilia-Romagna, che ci ha ospitati e che ha reso possibile questa pub-
   blicazione e, in ultimo ma non da ultimo, a chi ha frequentato e partecipato, perché
   il loro apprezzamento ci ha convinte che eravamo (e siamo) sulla strada giusta.




10
Postilla

Franca Maltoni*



Quando nel 2018 è stato organizzato il Corso di Alta Formazione in materia antidi-
scriminatoria, a cui è dedicata questa pubblicazione, i Comitati per le Pari Opportu-
nità, laddove già costituiti, e le/i Delegate/i alle Pari Opportunità presso i Consigli
Forensi della Regione Emilia Romagna avevano gettato le basi per creare una vera e
propria Rete, che, in attuazione del Protocollo di intesa tra Consigliera Nazionale di
Parità e Consiglio Nazionale Forense siglato nel giugno 2017, si poneva l’obiettivo,
fra i tanti, di curare il coordinamento delle perse idee ed esperienze, in modo da
offrire, in collaborazione e sinergia, la migliore assistenza legale, adeguate specia-
lizzazione e competenza per contrastare qualsiasi forma di discriminazione e un’im-
portante opportunità di lavoro all’Avvocatura.

Il corso realizzato, anche e soprattutto grazie alla stretta collaborazione con la Consi-  11
gliera Regionale di Parità, alla supervisione del CNF e al prezioso apporto di relatori
competenti in ogni aspetto del diritto antidiscriminatorio e del mondo del lavoro, ha
permesso di creare una short list di avvocate/i debitamente formate/i, a disposizio-
ne delle Consigliera Regionale di Parità e delle Consigliere Provinciali di Parità per un
rapido ed efficace contrasto alle discriminazioni nel mondo del lavoro.

Il 27 novembre 2019 è stata finalmente costituita la Rete dei Comitati Pari Oppor-
tunità presso gli Ordini Forensi della Regione Emilia-Romagna, con lo scopo di as-
sicurare una maggiore efficacia degli interventi nel settore delle pari opportunità
nell’Avvocatura e nel rispetto della funzione sociale della stessa, oltreché per pro-
muovere la cultura e le politiche di pari opportunità e di parità di genere in ogni
ambito, anche istituzionale.

Visto il successo del primo Corso di Alta Formazione in materia antidiscriminatoria,
la Rete Regione Emilia-Romagna dei CPO ha accolto con estremo piacere la propo-
sta della Consigliera Regionale di Parità di organizzare un nuovo corso, che potrà
oggi contare sull’esperienza maturata e sulla maggior forza di una rete finalmente
costituita.


* Avvocata. Presidente pro tempore della Rete dei Comitati Pari Opportunità presso gli Or-
dini Forensi della Regione Emilia Romagna, CPO RER
   Pertanto, oltre a ringraziare la Consigliera di Parità Regionale per l’importante op-
   portunità offertaci a beneficio di tante/i, esprimo, a nome della Rete CPO Emilia-Ro-
   magna, grande apprezzamento per il lavoro fatto e un augurio di buon lavoro a tutti
   i soggetti, collaboranti e coesi, coinvolti nel nuovo progetto, che sarà sicuramente
   ancora più ricco, approfondito e qualificante a vantaggio delle vittime di discrimina-
   zione.




12
Saluti

Maria Masi*



Il contrasto alle discriminazioni, quale strumento di inveramento del principio di
uguaglianza e pari opportunità, declina senza alcun dubbio il ruolo che l’avvocato
deve svolgere nell’attività di affermazione e di sviluppo dei diritti fondamentali. La
professione forense, quindi, si sostanzia nell’utilizzo strumentale del diritto positivo
rispetto alla difesa in giudizio dei diritti fondamentali.

L’inviolabilità del diritto di difesa unitamente al diritto di accesso alla Giustizia ed
alla rimozione degli ostacoli per il pari trattamento rende ancora più visibile l’in-
sostituibile attività giurisdizionale e anche per questo è necessaria una adeguata
preparazione e un’adeguata e specifica competenza da parte di tutti gli operatori e
operatrici coinvolte/i.
                                              13
Il Consiglio Nazionale Forense da sempre è attento e sensibile verso tale tematica e
coltiva appositi progetti finalizzati a questo scopo. Nel corso della scorsa consiliatura
Il Consiglio aveva promosso e fortemente sostenuto l’approvazione della legge sul
legittimo impedimento per le avvocate in stato di gravidanza, battaglia di civiltà e di
effettiva realizzazione delle garanzie difensive.

L’attività continua e sempre aggiornata della Commissione pari opportunità del Con-
siglio sin dalla sua costituzione nel 2003 e oggi arricchita del costante e profuso
impegno dei Comitati pari opportunità, costituiti presso gli Ordini Forensi su tutto il
territorio nazionale (alcuni dei quali già strutturati, come in Emilia Romagna, anche
in Rete regionale), ha promosso tantissime iniziative e tanti progetti, molti dei quali
sono stati resi funzionali e operativi con la sottoscrizione di protocolli d’intesa.

Il Protocollo siglato il 22 giugno 2017 dal CNF con la Consigliera Nazionale di Parità
e - precedentemente - l’Accordo di collaborazione interistituzionale 30 dicembre
2014, sottoscritto con il Dipartimento delle pari opportunità presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri e con l’UNAR, Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razzista,
nascono dalla consapevolezza della necessità di azioni sinergiche e complementari.
Il fatto che non si tratti di sterili enunciazioni di articoli e paragrafi è testimoniato
dalle bellissime e proficue esperienze che ne sono seguite, come questa realizzata

* Presidente del Consiglio Nazionale Forense e già presidente della Commissione Pari Op-
portunità del CNF.
   su iniziativa del CPO dell’Ordine di Bologna, in collaborazione con la rete dei CPO
   regionali e con la partecipazione della Consigliera regionale di parità Emilia-Roma-
   gna. L’obiettivo è anche quello di contribuire a creare un modello di corso che possa
   essere adottato e diffuso altrove.

   La scelta oculata e mirata degli argomenti e delle relatrici e relatori testimonia non
   solo l’approfondita conoscenza della materia, ma anche la consapevolezza dello sta-
   to dell’arte e degli interventi che invece urgono, alla luce dell’arretramento cultura-
   le (e non solo) in cui versa il nostro Paese soprattutto con riferimento alla “tutela di
   genere”; si impone una rinnovata necessità di azioni di contrasto finalizzate anche
   a far emergere il sommerso impalpabile e le contraddizioni di un sistema che irre-
   sponsabilmente disconosce ruoli, funzioni e identità.

   Paura di agire, paura di contare, aspettare che siano gli altri a riconoscere il ruolo a
   cui potremmo aspirare con determinazione e senza riserve. Difficoltà a superare il
   tabù del danaro e del giusto ed equo compenso perché ancora costrette a negoziare
   conciliazione e flessibilità di tempi. L’emozione primaria che le donne hanno in me-
   rito ai soldi non è quella del potere o dell’indipendenza, ma quella della solitudine e
   della vergogna. Solitudine e vergogna: gli stessi sentimenti provati ogni volta che si
   è vittime di molestie, soprattutto se sul luogo di lavoro.

   Sentimenti che rivelano la paura, e non solo delle donne, ma di tutti coloro che sono
14  vittime di discriminazione. Conoscere i fattori che contribuiscono ad alimentare la
   paura e a indebolire le aspettative serve a poter meglio inpiduare e condurre le
   azioni, quelle giuste. Quelle giuste sono e saranno sempre quelle non finalizzate a
   conciliare gli opposti, ma a costruire i diritti ancor prima di tutelarli. Orientare l’ap-
   proccio fattuale tra norma scritta e norma in azione è sicuramente uno degli obiet-
   tivi a cui la formazione specializzata deve ambire e certamente è uno degli obiettivi
   che questo corso ha inseguito e – ne sono certa – verrà conseguito.

   Il mio personale ed affettuoso riconoscimento va alle amiche e colleghe del CPO per
   il loro appassionato e prezioso contributo e impegno di questi anni.
Francesca Bagni Cipriani*



Il d.lgs. 151/2015, modificando il Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. 198/06) nelle
parti relative alla disciplina delle consigliere di parità, ha stabilito che gli enti che le
designano assegnano loro il personale, la strumentazione e le attrezzature neces-
sarie allo svolgimento dei loro compiti di pubblici ufficiali, nell’ambito delle risorse
esistenti e ad invarianza della spesa.

In applicazione di più generali misure di contenimento della spesa pubblica, dun-
que, la nuova normativa ha posto a carico degli enti territoriali gli oneri relativi alle
funzioni delle consigliere di parità, sopprimendo il fondo nazionale che ne aveva
fino ad allora alimentato le attività garantendo livelli essenziali di protezione su tut-
to il territorio nazionale.
                                                15
Le ripercussioni sono state da subito evidenti, soprattutto nello svolgimento dell’at-
tività antidiscriminatoria. Se da un lato, infatti, il Codice delle Pari Opportunità
continua ad attribuire alle consigliere la legittimazione ad agire in giudizio per la
dichiarazione delle discriminazioni di genere sul lavoro, dall’altro la loro effettiva
possibilità di ricorrere innanzi ai tribunali competenti, su delega della persona che
vi ha interesse, dipende dalle risorse messe a disposizione dall’ente di riferimento
che necessariamente differiscono da territorio a territorio.

In questa situazione si inserisce il protocollo d’intesa che la Consigliera Nazionale di
Parità ha firmato il 22 giugno del 2017 con il Consiglio Nazionale Forense, al fine di
collaborare alla definizione di un progetto che potesse favorire l’accesso alla giusti-
zia per tutte le vittime di discriminazioni, ovunque situate sul territorio nazionale.

In particolare l’accordo prevedeva l’impegno a realizzare una short list di avvocate/i
specializzate/i in diritto del lavoro e diritto antidiscriminatorio a supporto delle con-
sigliere di parità, nonché l’accesso al gratuito patrocinio per le vittime di discrimina-
zione di genere sul lavoro.

Replicando il corso di alta formazione in diritto antidiscriminatorio per avvocate/i
realizzato nel marzo del 2017 in Puglia dalla consigliera regionale di parità (ora con-


* Consigliera Nazionale di Parità
   sigliera nazionale supplente) in collaborazione con i Comitati Pari Opportunità e i
   Consigli dell’Ordine degli avvocati pugliesi ed il patrocinio del CNF, le consigliere
   di parità territoriali hanno attivato e, in moltissimi casi, completato la formazione
   specialistica degli/delle avvocati/e.

   Ed è in questo contesto che si inserisce il presente volume, che riassume il lavoro
   svolto in Emilia-Romagna dalla consigliera regionale di parità, Sonia Alvisi, insieme
   con i CPO di Bologna, Forlì, Modena, Parma, Ravenna e Reggio Emilia e le delegate
   alle pari opportunità degli Ordini di Ferrara, Piacenza e Rimini; e con la Rete Regio-
   nale CPO Emilia-Romagna.

   Un lavoro prezioso, volto a formare avvocate e avvocati sui temi della tutela della
   maternità, molestie sui luoghi di lavoro e, in generale, in materia anti-discriminato-
   ria, sostanziale e processuale, anche ai fini della creazione di una short list alla quale
   le consigliere potranno attingere, per l’affidamento di incarichi professionali nello
   svolgimento dei loro compiti.

   Un lavoro fondamentale per il quale ringrazio tutti i soggetti coinvolti.




16
Roberta Mori*



Questo importante Corso di alta formazione rappresenta plasticamente il cammino
necessario di rafforzamento dei principi ispiratori della disciplina antidiscriminatoria
per operatori e operatrici del diritto.
Ringrazio per l’invito la Consigliera regionale di Parità Sonia Alvisi e la Presidente
del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bologna Antonella Ri-
mondi per aver creduto in questo filone d’impegno civico e professionale, che per
la Regione Emilia-Romagna ha assunto nel tempo una rilevanza sostanziale anche
nell’articolazione legislativa delle politiche antidiscriminatorie.
Ho l’occasione, dunque, da eletta, di portare un contributo di riflessione a questa
prima giornata inaugurale in rappresentanza dell’Assemblea Legislativa e della Com-
missione che presiedo; da Avvocata iscritta all’Ordine forense di Reggio Emilia, di
esprimere l’auspicio che l’avvocatura assuma sempre maggior rilievo nella tutela       17
delle garanzie costituzionali, mettendo le proprie competenze al servizio della cul-
tura e della “causa” antidiscriminatoria per traguardare l’orizzonte di una società più
giusta e compiutamente democratica.
Sono convinta che la formazione su branche innovative del diritto ci consenta di
strutturare un linguaggio universale dei diritti umani che tenga insieme uguaglian-
za e differenza. In questo senso il Protocollo sottoscritto tra il Consiglio nazionale
Forense e la Consigliera nazionale di Parità costituisce un piano fecondo di avan-
zamento concreto della civiltà giuridica a servizio della dimensione sistemica delle
discriminazioni e dell’intersezionalità dell’approccio necessario per contrastarle.
Le discriminazioni di genere, in particolare, rappresentano una ferita profonda in-
flitta da un sistema patriarcale che innerva ancora i gangli della convivenza e che
impedisce di fatto l’espressione di tutte le potenzialità della soggettività femminile.
La domanda di giustizia in questi ambiti è diffusa anche se non sempre sorretta dalla
consapevolezza della complessità degli effetti sulla società tutta. Tant’è che l’Agenda
2030 dell’ONU ha posto tra gli obiettivi prioritari per lo sviluppo sostenibile del Pia-
neta proprio l’uguaglianza di genere, coinvolgendo quasi duecento Paesi aderenti,
affinché la rilevanza delle istituzioni rafforzi gli strumenti di prevenzione e contrasto
alle discriminazioni e quindi alla violenza maschile contro le donne.


* Presidente della Commissione Parità e Diritti delle Persone, Assemblea Legislativa della
Regione Emilia-Romagna X Legislatura. Avvocata.
   Mi riferisco alla rimozione di tutti gli ostacoli che si frappongono alla primazia del di-
   ritto e della legalità quali baluardi del principio di eguaglianza sostanziale promosso
   dalla nostra Costituzione, ma soprattutto all’effettiva esigibilità dei diritti legati alla
   compiuta realizzazione di una democrazia paritaria con l’attuazione della Conven-
   zione di Istanbul.
   La Regione Emilia-Romagna ha raccolto questa forte domanda di equità e giusti-
   zia nei limiti delle proprie competenze, valorizzando la cultura antidiscriminatoria
   e la propria tradizione di inclusione sociale e sviluppo sostenibile che tanto deve
   all’apporto delle donne. Lo ha fatto e lo sta facendo in molti modi, prima di tutto
   promuovendo gli strumenti e istituti di garanzia, quali la Consigliera di Parità, previ-
   sti dall’ordinamento. E poi esercitando senza reticenze culturali i poteri legislativi e
   di governo per promuovere e sostenere percorsi partecipativi come quello sfociato
   nell’approvazione della Legge quadro per la parità e contro le discriminazioni di
   genere, L.R. 27 giugno 2014 n.6, ad oggi la più completa ed avanzata normativa
   regionale mainstreaming che applica la Convenzione del Consiglio d'Europa per il
   contrasto della violenza domestica sulle donne (Istanbul 2011) così come ratificata
   e recepita all’unanimità dal Parlamento italiano.
   Costruire un pezzo alla volta e un passo dopo l’altro una società a misura di donne e
   uomini, cittadine e cittadini che conpidono le stesse responsabilità e uguali libertà:
   ecco l’obiettivo strategico che la Regione ha assunto e persegue attraverso politiche
   trasversali e strutturali volte a colmare i tanti gap di genere che frenano i protagoni-
   smi inpiduali e collettivi. Parliamo di democrazia, che è paritaria o non è. Un obiet-
18
   tivo che unisce l’Europa come la vogliamo e concepiamo, sul quale far convergere
   giorno dopo giorno l’azione di associazioni, parti sociali, categorie produttive e or-
   dini professionali, enti territoriali e istituzioni educative. Senza un’azione congiunta
   la sfida culturale intrapresa non sarà mai vinta. Da qui l’importanza delle alleanze
   e collaborazioni tra competenze perse e autonome che conpidono una visione.
   Iniziative qualificate, qual è il Corso per avvocate e avvocati che inaugurate oggi,
   rappresentano la generosità e la responsabilità di cui abbiamo bisogno per costru-
   ire nuove professionalità ed emanciparci una volta per tutte da visioni antiquate,
   ristrette e retrive che vorrebbero riportare la cittadinanza e l’esercizio dei suoi diritti
   ad una dimensione patriarcale quanto semplificata. I tentativi di mandare indietro
   le lancette della storia sono davanti ai nostri occhi ma per vederli e scongiurarli oc-
   corre alimentare, in particolare tra le giovani generazioni, la consapevolezza delle
   conquiste compiute e del loro reale valore.
   Ripongo perciò, già da questo primo incontro, dalla partecipazione ed entusiasmo
   che il programma formativo ha riscontrato, la grande speranza di un rafforzamento
   significativo del fronte di motivazione, consapevolezza, responsabilità dell’Avvoca-
   tura nel sostenere la battaglia per i diritti e contro le discriminazioni sul lavoro e in
   ogni ambito della società. Una società dove le ragazze e i ragazzi siano consapevoli
   della propria soggettività nel rispetto delle differenze e dove nessuno sia lasciato
   solo, o con tutele legali inappropriate, di fronte agli abusi.
   Ancora grazie al Foro di Bologna e alla rete delle Consigliere di Parità. Buon lavoro
   a tutte e tutti!
Giovanni Berti Arnoaldi Veli*



Mi fa molto piacere portare oggi i saluti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bologna e della Fondazione Forense Bolognese a questo bell’incontro. So che si era-
no iscritti una settantina di avvocati e per fortuna che non sono venuti tutti… perché
non avremmo saputo dove metterli! Ma si sono iscritti in tanti perché è possibile
l’iscrizione anche per moduli separati e dunque non è che abbiano “fatto fughino”,
come si dice a Bologna.

Non sto a ripetere tutti i ringraziamenti sia perché sono già stati fatti sia perché non
voglio correre il rischio di dimenticare qualcuno. Come dicono gli avvocati, mi asso-
cio ai ringraziamenti che mi hanno preceduto e che faccio anche miei.

Però due parole le voglio spendere. Un ringraziamento in particolare voglio rivolger-
                                               19
lo all’attività del Comitato Pari Opportunità del nostro Ordine, composto da colleghe
e colleghi in parte presenti, perché svolge una attività molto preziosa ed efficace.

La prossima settimana faremo un importante incontro al Teatro Duse con la Cassa
Forense per la presentazione di un progetto bellissimo studiato proprio dal nostro
CPO, che ha vinto un concorso su base nazionale di idee e per una “app” dedicata
alle sostituzioni d’udienza, per dare - appunto - pari opportunità agli avvocati di
poter svolgere il lavoro con l’aiuto di altri colleghi.

L’altro motivo per il quale desidero esprimere un ringraziamento a tutti in questo
simposio in cui vedo riunito il gotha dei CPO a livello nazionale, regionale e locale è
perché vedo realizzato un bellissimo gioco di squadra. È una cosa che a me preme
molto e chi mi conosce un po’ sa che io ho questa fissazione del gioco di squadra,
soprattutto di quello che serve a creare solidarietà.

Quando parliamo di discriminazione, sappiamo che l’aiuto e la solidarietà sono gli
antidoti più efficaci. Occuparsi di discriminazione e combatterla risponde poi alla
natura, al significato ed al senso più profondo della professione di avvocato. Cosa
fanno gli avvocati? Cercano di evitare la discriminazione e le disuguaglianze, cerca-
no l’affermazione dei diritti di coloro che, pur avendo un diritto sulla carta, non ne

* Presidente pro tempore del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna e della Fonda-
zione Forense Bolognese
   trovano la realizzazione.

   Cerco di non banalizzare il concetto perché non merita di essere banalizzato, ma che
   cosa è la discriminazione? È il fatto che, a parità di condizione, a parità di diritti che
   sono riconosciuti sulla carta, venga preferito irragionevolmente qualcuno rispetto
   a qualcun altro che ha pari diritto. Questa è la discriminazione: quindi è comunque
   qualcosa che ha che fare con un panorama di diritti riconosciuti ma inattuati o, peg-
   gio, ignorati colpevolmente, a volte anche appositamente.

   L’avvocato serve a questo: a condurre la persona che è discriminata, ma portatrice
   e titolare di un diritto, al traguardo della affermazione del proprio diritto, in ugua-
   glianza con gli altri.

   Questa è la solidarietà che serve anche a tutti noi quali cittadini, ancora prima che
   avvocati. Come cittadini abbiamo tutti anche la responsabilità di non discriminare
   ed il diritto di non farci discriminare, nella solidarietà e uguaglianza che è il collante
   della nostra società.

   Di questo vi ringrazio particolarmente, perché su queste tematiche voi avete costru-
   ito questo corso, questa iniziativa rispetto alla quale siamo secondi in Italia: peccato,
   in Emilia-Romagna non siamo abituati ad arrivare secondi... Però non è certo un
   cattivo risultato, comunque, e ci fa molto piacere.
20
   Come Presidente della Fondazione Forense mi fa molto piacere che abbiamo orga-
   nizzato questo corso. Noi organizziamo tantissimi corsi: questo ci mancava e… non
   volevamo discriminare.

   Ringrazio ancora tutte le componenti ed i componenti del nostro CPO, tutti i colle-
   ghi, i Consiglieri di Pari Opportunità di qualsiasi livello e tutti di voi che credete in
   questo corso, che vi siete iscritti e vi partecipate.

   Grazie, buon lavoro.
Corso di Alta Formazione in materia
anti-discriminatoria



In attuazione del Protocollo sottoscritto tra il CNF e la Consigliera Nazionale di Parità

                  PROMOSSO DA

• Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi;

• CPO di Bologna, Forlì, Modena, Parma, Ravenna e Reggio Emilia e dalle Delegate
  alle Pari Opportunità degli Ordini di Ferrara, Piacenza e Rimini;

• Rete Regionale CPO Emilia-Romagna.

In attuazione del Protocollo sottoscritto tra il CNF e la Consigliera Nazionale di Pa-
rità, il corso -organizzato dalla Rete Regionale dei Comitati Pari Opportunità e delle    21
Delegate alle Pari Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna, di concerto
con la Consigliera Regionale di Parità - è volto a formare Avvocate e Avvocati sui temi
della tutela della maternità, molestie sui luoghi di lavoro e, in generale, in materia
anti-discriminatoria, sostanziale e processuale, anche ai fini della creazione di una
SHORT LIST alla quale potranno attingere, per l’affidamento di incarichi professio-
nali nello svolgimento dei loro compiti, la Consigliera Nazionale di Parità nonché le
Consigliere regionali, provinciali, delle città metropolitane e degli enti di area vasta.

                  REGOLAMENTO

È possibile l’iscrizione all’intero corso o alle singole giornate. A partire dal 11/11/2018
sarà possibile iscriversi alle singole lezioni nel limite della capienza residua dell’aula
presentando la domanda di iscrizione via fax, via email o direttamente presso la se-
greteria della Fondazione Forense Bolognese. Il numero dei partecipanti non potrà
essere superiore a n. 120.

Gli Avvocati interessati alla iscrizione alla SHORT LIST dovranno sostenere una prova
finale, che si svolgerà il giorno 8 marzo 2019 al termine dell’ultimo incontro.

Alla prova finale saranno ammessi i soli Avvocati iscritti che avranno partecipato
ad almeno 7 degli 8 incontri previsti. Al superamento della prova verrà rilasciato il
relativo attestato.
                         SEDE

   Il corso si volgerà presso l’Aula Auditorium, sita a Bologna, Via Aldo Moro n. 18,
   messa gratuitamente a disposizione dalla Consigliera Regionale di Parità. Solo la
   lezione del 30 novembre si terrà presso la Sala Kelsen del CIRSFID a Bologna in Via
   Galliera, 3 (2° piano).

                  FORMAZIONE CONTINUA

   Il corso attribuisce n. 20 crediti formativi, di cui n. 2 in materia deontologica, agli
   Avvocati che abbiano partecipato ad almeno 7 degli 8 incontri previsti.

   La partecipazione ad ogni incontro attribuisce n. 2 crediti formativi.

   In ragione degli argomenti trattati, la partecipazione all’incontro del giorno 1° feb-
   braio 2019 attribuisce n.2 crediti formativi in materia deontologica.

                        COSTI

   Al fine di favorire la partecipazione, il costo per l’iscrizione all’intero corso è pari a €
   200,00 I.V.A. inclusa. Il costo per la partecipazione ad ogni singolo incontro, nei limiti
   della capienza prevista, è pari a € 40,00 I.V.A. inclusa.

22
                 CALENDARIO/PROGRAMMA

   1° incontro venerdì 30 Novembre 2018, ore 14.30/18.30

   Saluti. Sonia Alvisi, Maria Masi, Giovanni Berti Arnoaldi Veli, Roberta Mori, Tiziana
   Nanni, Giovanna Ollà
   Lettura introduttiva di “Le instabili”: Susanna Favini e Antonella Tassinari
   Introduzione. Riconoscere le discriminazioni. Il quadro generale:
   • nel lavoro
   • di genere
   • per età
   • per disabilità
   • per orientamento sessuale e identità di genere
   • per motivi razziali, etnici, nazionali
   • per ragioni politiche e sindacali
   • per religione e convinzioni personali
   • una riflessione sulle discriminazioni nella avvocatura
Le discriminazioni multiple
Il diritto antidiscriminatorio nel sistema multilivello degli ordinamenti
Lettura conclusiva

Relatori: Stefania Scarponi, Fausta Guarriello, Andrea Lassandari, Bruno Micolano.


2° incontro venerdì 14 Dicembre 2018, ore 15.00/18.30

Rimedi e azioni: dentro e fuori la giurisdizione.
Il ruolo della Consigliera di parità
Aspetti processuali
L’azione inpiduale e quella collettiva.
Onere della prova.
Analisi di casi concreti

Relatori: Franca Maltoni, Sara Passante, Carlo Sorgi, Mirella Guicciardi, Serenella
Molendini.


3° incontro venerdì 18 Gennaio 2019, ore 15.00/18.30

Le discriminazioni sul lavoro
                                               23
Il risarcimento del danno
Analisi di casi concreti

Relatori: Patrizia Tullini, Mario Turco, Antonella Rimondi, Valeria Moscardino, Rita
Finzi, Chiara Rigosi, Monica Gatti, Mirella Paglierani.


4° incontro venerdì 25 gennaio 2019, ore 15.00/18.30

Le molestie sessuali
Analisi di casi concreti

Relatori: Marzia Gatti - Cisl, Anna Salfi - Cgil, Giuseppina Morolli - UIL, Milli Virgilio.


5° incontro venerdì 1° febbraio 2019, ore 15.00/18.30

La discriminazione di genere e per età
La maternità.
Focus sull’avvocatura e le altre libere professioni
Analisi di casi concreti

Relatori: Laura Calafà, Antonella Gavaudan, Stefania Scarponi, Marta Tricarico.
   6° incontro venerdì 8 Febbraio 2019, ore 15.00/18.30

   Le discriminazioni:
   • per orientamento sessuale e identità di genere
   • per motivi razziali, etnici, nazionali
   • per ragioni politiche e sindacali

   • per religione e convinzioni personali

   Analisi di casi concreti

   Relatori: Franca Bagni Cipriani, Cathy La Torre, Alberto Piccinini, Francesca Rescigno,
   Diletta Tega, Nazzarena Zorzella.


   7° incontro venerdì 22 Febbraio 2019, ore 15.00/18.30

   La discriminazione per disabilità
   Analisi di casi concreti
   Relatori: Paolo Addis, Maria Giulia Bernardini, Sara Passante, Francesca Vitulo.


24  8° [e ultimo] incontro venerdì 8 Marzo 2019, ore 15.00/18.30

   Profili di diritto penale nel diritto antidiscriminatorio
   La violenza contro le donne basata sul genere come forma di discriminazione
   Conclusioni
   Test di verifica

   Relatori: Antonella Rimondi, Lucia Russo, Valentina Tecilla, Marta Tricarico, Milli Vir-
   gilio.
                                 Rete Regionale CPO e Delegate
                                  alle Pari Opportunità Ordini
                                   Forensi Emilia-Romagna




              Corso di alta formazione
            in materia antidiscriminatoria
             in attuazione del protocollo sottoscritto tra
             il CNF e la Consigliera Nazionale di Parità

In attuazione del Protocollo sottoscritto tra il CNF e la Consigliera Nazionale di Parità, il corso - organizzato
dalla Rete Regionale dei Comitati Pari Opportunità e delle Delegate alle Pari Opportunità degli Ordini
Forensi dell'Emilia-Romagna, di concerto con la Consigliera Regionale di Parità - è volto a formare
Avvocate e Avvocati sui temi della tutela della maternità, delle molestie sui luoghi di lavoro e, in generale, in
materia antidiscriminatoria, sostanziale e processuale, anche ai fini della creazione di una SHORT-LIST alla
quale potranno attingere, per l’affidamento di incarichi professionali nello svolgimento dei loro compiti, la
Consigliera Nazionale di Parità nonché le Consigliere di Parità regionali, delle città metropolitane e degli
enti di area vasta.
                         REGOLAMENTO

È possibile l’iscrizione all’intero corso o alle singole giornate. A partire dal 15/11/2018 sarà possibile
iscriversi alle singole lezioni nel limite della capienza residua dell’aula presentando la domanda di iscrizione
via fax, via email o direttamente presso la segreteria della Fondazione Forense Bolognese. Il numero dei
partecipanti non potrà essere superiore a n. 120.                                   25
Gli Avvocati interessati alla iscrizione alla SHORT-LIST dovranno sostenere una prova finale, che si
svolgerà il giorno 8 marzo 2019, al termine dell'ultimo incontro.
Alla prova finale saranno ammessi i soli Avvocati iscritti che avranno partecipato ad almeno 7 degli 8
incontri previsti.
Al superamento della prova verrà rilasciato il relativo attestato.

                            SEDE
Il corso si svolgerà presso l'Aula Auditorium, sita a Bologna, Via Aldo Moro n. 18, messa gratuitamente a
disposizione dalla Consigliera Regionale di Parità. Solo la lezione del 30 novembre si terrà presso la Sala
Kelsen del CIRSFID a Bologna in Via Galliera, 3 (2° piano).

                      FORMAZIONE CONTINUA
Il corso attribuisce n. 20 crediti formativi, di cui n. 2 in materia deontologica, agli Avvocati che abbiano
partecipato ad almeno 7 degli 8 incontri previsti.
La partecipazione ad ogni incontro attribuisce n. 2 crediti formativi.
In ragione degli argomenti trattati, la partecipazione all'incontro del giorno 1 febbraio 2019 attribuisce n. 2
crediti formativi in materia deontologica.
                           COSTI

Al fine di favorire la partecipazione, il costo per l'iscrizione all'intero corso è pari a € 200,00 I.V.A. inclusa.
Il costo per la partecipazione ad ogni singolo incontro, nei limiti della capienza prevista, è pari a € 40,00
I.V.A. inclusa.

                       Fondazione Forense Bolognese
                       Fondazione Forense Bolognese
                      Direttore Avv. Stefano Dalla Verità
                         Direttore Avv. Stefano Dalla Verità
   Segreteria Organizzativa: Via Marsili, 8 - Via D’azeglio, 33 Bologna Tel.: 051-6446147 /Fax.: 051-3391800
     Segreteria Organizzativa: Palazzo Bevilacqua, 40124 Bologna Tel.: 051-6446147 Fax: 051-3391800
             fondazioneforensebo@libero.it www.fondazioneforensebolognese.it
        E-mail: fondazioneforensebo@libero.it         www.fondazioneforensebolognese.it
                                  Rete Regionale CPO e
                                   Delegate alle Pari
                                   Opportunità Ordini
                                  Forensi Emilia-Romagna




                 1° incontro: NUOVA DATA venerdì 30 Novembre 2018, ore 14.30/18.30

   Presiede    Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
   Modera     una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
          Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
   Saluti

   Lettura introduttiva di “Le instabili”: Susanna Favini e Antonella Tassinari
   Temi      ▪ Introduzione. Riconoscere le discriminazioni. Il quadro generale:
                - nel lavoro
                - di genere
                - per età
                - per disabilità
                - per orientamento sessuale e identità di genere
                - per motivi razziali, etnici, nazionali
                - per ragioni politiche e sindacali
                - per religione e convinzioni personali
26               - una riflessione sulle discriminazioni nella avvocatura e nelle altre libere professioni
           ▪ Le discriminazioni multiple
           ▪ Il diritto antidiscriminatorio nel sistema multilivello degli ordinamenti

   Lettura conclusiva di “Le instabili”: Susanna Favini e Antonella Tassinari

   Relatori    Fausta Guarriello - Bruno Micolano - Stefania Scarponi



                          2° incontro venerdì 14 Dicembre 2019, ore 15.00/18.30
   Presiede    Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
   Modera     una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
           Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
   Temi      ▪ Il ruolo della Consigliera di Parità
           ▪ Rimedi e azioni: dentro e fuori la giurisdizione
           ▪ Aspetti processuali
           ▪ L’azione inpiduale e quella collettiva
           ▪ Onere della prova
   Analisi di casi concreti
   Relatori    Mirella Guicciardi - Franca Maltoni - Sara Passante - Carlo Sorgi
                                Rete Regionale CPO e
                                 Delegate alle Pari
                                Opportunità Ordini
                               Forensi Emilia-Romagna




                         3° incontro venerdì 18 Gennaio 2019, ore 15.00/18.30
Presiede    Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
Modera     una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
        Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
Temi      ▪ Le discriminazioni sul lavoro
        ▪ Il risarcimento del danno
Analisi di casi concreti

Relatori    Valeria Moscardino dell’Ispettorato del lavoro Parma - Chiara Rigosi – Antonella Rimondi -
        Patrizia Tullini – Mario Turco - rappresentanti del mondo sindacale e datoriale



                         4° incontro venerdì 25 gennaio 2019, ore 15.00/18.30
Presiede    Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
Modera     una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari     27
        Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
Temi      ▪ Le molestie sessuali
Analisi di casi concreti
Relatori    Cinzia Fraschieri Cisl - Giuseppina Morolli UIL - Anna Salfi Cgil - Milli Virgilio -
        rappresentante INAIL, un esponente del mondo datoriale



                          5° incontro venerdì 1 Febbraio 2019, ore 15.00/18.30
Presiede    Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi

Modera     una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
        Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna

Temi      ▪ La discriminazione di genere e per età
        ▪ La maternità
        ▪ Focus sull’avvocatura e le altre libere professioni

Analisi di casi concreti

Relatori:   Laura Calafà - Antonella Gavaudan - Stefania Scarponi - Marta Tricarico
                                   Rete Regionale CPO e
                                    Delegate alle Pari
                                    Opportunità Ordini
                                   Forensi Emilia-Romagna




                             6° incontro venerdì 8 Febbraio 2019, ore 15.00/18.30
   Presiede     Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
   Modera       una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
            Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
   Temi       ▪ Le discriminazioni:
            - per orientamento sessuale e identità di genere
            - per motivi razziali, etnici, nazionali
            - per ragioni politiche e sindacali
            - per religione e convinzioni personali
   Analisi di casi concreti

   Relatori  Caty La Torre - Alberto Piccinini – Francesca Rescigno - Diletta Tega - Nazzarena Zorzella



                            7° incontro venerdì 22 Febbraio 2019, ore 15.00/18.30
28
   Presiede     Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi
   Modera       una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
            Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna
   Temi       La discriminazione per disabilità
   Analisi di casi concreti

   Relatori     Paolo Addis - Maria Giulia Bernardini - Avvocata/o ANMIC


                              8° incontro venerdì 8 marzo 2019, ore 15.00/18.00
   Presiede     Consigliera Regionale di Parità, Dott.ssa Sonia Alvisi

   Modera      una/un rappresentante della Rete Regionale dei CPO e delle/dei Delegate/i alle Pari
            Opportunità degli Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna

   Temi       ▪ Profili di diritto penale nel diritto antidiscriminatorio
            ▪ La violenza contro le donne basata sul genere come forma di discriminazione

   Conclusioni

   Relatori  Antonella Rimondi - Marta Tricarico - Milli Virgilio - magistrato inquirente - magistrato
        giudicante

   Seguirà test di verifica
I pieti di discriminazione fra diritto europeo
e nazionale
Stefania Scarponi*



1. L’articolazione delle fonti in materia di pieti di discriminazione
Il quadro delle fonti che attiene ai pieti di discriminazione si articola sul piano so-
vranazionale, nazionale e regionale, da cui deriva la caratteristica “multilevel” della
disciplina in materia e, di conseguenza, la necessità di tener conto che un medesimo
istituto può essere oggetto di una pluralità di disposizioni da coordinare tra loro. Pe-
raltro, l’incidenza del diritto euro-unitario acquisisce sempre maggiore importanza
alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia sul primato delle
norme contenute nella Carta dei diritti fondamentali allegata ai Trattati di Lisbona
che, proprio con riferimento all’art. 21 in materia di pieti di discriminazione, im-
pone sia l’interpretazione “adeguatrice” delle normative nazionali sia, ove ciò non
sia possibile, la loro disapplicazione pervenendo in sostanza all’efficacia diretta oriz-
zontale delle direttive in materia1. Hanno rilievo, altresì, le fonti internazionali in           29
materia di diritti fondamentali, in particolare la CEDU (Convenzione europea dei
diritti fondamentali) a cui aderisce l’Unione europea.

Nell’ordinamento europeo, il principio di eguaglianza e il pieto di discriminazione
costituiscono obiettivi dell’Unione ai sensi dell’art. 2, e art. 3, par. 3 sec. cpv., del
TUE; inoltre, il TFUE ribadisce solennemente che l’Unione mira ad eliminare le dise-
guaglianze nonché a promuovere la parità u/d – art.8 – e a combattere le discrimi-
nazioni nelle politiche dell’Unione – art.10 –. Un’applicazione specifica del pieto di
discriminazione si trova, altresì, nelle norme riguardanti la libera circolazione delle
persone, dei servizi e dei capitali, che stabiliscono il pieto di discriminazione tra la-
voratori nei paesi dell’Unione europea che abbiano esercitato la libertà di circolazio-
ne. L’elaborazione in materia da parte della Corte di Giustizia, è iniziata proprio con
riferimento a tali disposizioni e al principio di parità retributiva u/d sancito attual-
mente dall’art.157 TFUE. Infine, come si è anticipato, il pieto di discriminazione è
oggetto dell’art.21 della Carta dei diritti fondamentali che, inoltre, all’art. 23 afferma


1 Da ultimo CGUE 17.4.2018 C-414/16 Egenberger e CGUE ECJ 22/1/ 2019 C-193/2017 Cresco. In tema
anche per più ampia bibliografia S. Scarponi, La Corte di Giustizia si pronuncia per la prima volta sul
rapporto di lavoro con enti ecclesiastici: un’occasione per ribadire la portata del pieto di discrimina-
zione basata sulla religione e sulle opinioni personali alla luce della Carta dei diritti fondamentali, in
www.europeanrights.eu 2019/73 v. Articoli. Si rinvia altresì nel campo lavoristico a O. Bonardi (a cura
di) Eguaglianza e non discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse 2017.

* Ordinaria di Diritto del lavoro, già Università di Trento.
   la legittimità in particolare delle azioni positive volte a correggere le diseguaglianze
   u/d in tutti i campi, sulla scorta del primo atto internazionale in tal senso, la Cedaw
   (Convenzione ONU per l’eliminazione di tutte le discriminazioni contro le donne,
   ratificata nel 1985). Il quadro delle fonti a livello europeo è infine completato dalle
   direttive c.d. di seconda generazione che, in seguito al Trattato di Amsterdam e alla
   modifica dell’art. 13, riguardano altri fattori oltre a quello originario relativo alla pa-
   rità u/d nel lavoro: la dir. 2000/43, c.d. Direttiva “razza”, la Dir. 2000/78 c.d. Direttiva
   – quadro in materia di occupazione. L’ambito relativo alla parità u/d è stato oggetto
   di ulteriore evoluzione con la Dir. 2004/113 e Dir. 2006/54 (la prima relativa all’ac-
   cesso ai beni e alla loro fornitura, la seconda è la rifusione delle precedenti relative
   al lavoro). Infine, occorre ricordare che una peculiare applicazione del pieto di
   discriminazione riguarda altresì i contratti di lavoro c.d.” atipici”, quale il contratto a
   tempo determinato in base alla Direttiva 1999/70 Ce e il contratto a tempo parziale
   in base alla Direttiva 1997/81 CE. In questi casi il pieto riguarda il diritto a non su-
   bire trattamenti meno favorevoli in relazione al trattamento riservato al lavoratore
   “comparabile”, ovvero assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato o ad
   orario pieno.

   In questa sede, ci concentreremo sulle direttive “di seconda generazione” e sulle
   norme nazionali di trasposizione, ovvero il d.lgs. 215/2003 per la dir. 2000/43, il
   d.lgs. 216/2003 per la dir. 2000/1978, infine il d.lgs. 198/2006, c.d. Codice delle Pari
   Opportunità, per la dir. 2006/54 e il d.lgs. 196/2007 per la dir. 2004/113. Natural-
   mente, in ambito lavoristico non si può trascurare lo Statuto dei Lavoratori, art. 15 e
30  16, e altra legislazione, tra cui va menzionato in particolare il T.U. sull’immigrazione,
   d.lgs. 286/1998.

   La mia relazione si concentrerà su alcuni profili generali della disciplina, con appro-
   fondimento della nozione di discriminazione mediante l’analisi della giurisprudenza
   in materia, tenuto conto del rilevante apporto della CGUE e della non più così scarsa
   giurisprudenza nazionale. In tema, va osservato che il contenuto della disciplina
   posta dalle direttive è molto simile nella struttura e nei contenuti. Ciò riguarda: la
   definizione della discriminazione diretta e indiretta, la considerazione di una serie
   di comportamenti a stregua di discriminazione – quali le molestie e le molestie ses-
   suali, nonché le ritorsioni verso chi abbia agito per denunciare una discriminazione,
   e altresì l’ordine di discriminare – la ristretta ammissibilità di deroghe ai pieti, e
   sul piano processuale, la parziale inversione dell’onere della prova, la legittimazione
   ad agire inpiduale, collettiva e in alcuni casi istituzionale, il principio secondo cui
   le sanzioni debbono essere effettivamente dissuasive, infine il riconoscimento della
   legittimità delle azioni positive.

   2. La nozione oggettiva di discriminazione e l’abbandono della rilevan-
     za dell’elemento intenzionale
   Preliminarmente occorre affrontare un interrogativo postosi fin dai primi commenti
   in materia circa la tassatività o meno dei fattori discriminatori vietati, che si è ri-
   proposto in relazione alla persità di nozioni accolte rispettivamente dalle direttive
   e dalla Carta dei diritti fondamentali all’art.21. Quest’ultima è più ampia rispetto
ai fattori considerati dalle direttive (razza, origine etnica, sesso e genere, religio-
ne e opinioni personali, età, disabilità, orientamento sessuale) stabilendo che: “È
vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza,
il colore della pelle o l›origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua,
la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura,
l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità,
l'età o l'orientamento sessuale”. Non solo la presenza di fattori nuovi ma la formula-
zione che fa leva sull’inciso “in particolare” hanno indotto a prospettare la tesi della
natura meramente esemplificativa dei fattori vietati2 che tuttavia per ora non ha
trovato riscontri giurisprudenziali. Anzi non mancano sentenze della Corte di Giusti-
zia che affermano la natura tassativa dei fattori elencati dalle direttive, lasciando di
conseguenza tuttora aperta la questione.

Per ciò che riguarda la definizione di discriminazione, va sottolineato che, mentre
per lungo tempo la giurisprudenza nazionale considerava prevalente la nozione sog-
gettiva, è stata finalmente conpisa e si è consolidata la nozione oggettiva di discri-
minazione accolta dalle direttive, mediante l’importante sentenza della Cassazione,
Sez. Lav. n. 6576 del 2016. Si è posto fine così al perso orientamento che invece
richiedeva la prova dell’intento discriminatorio in capo all’autore e rendeva molto
più complessa l’azione in giudizio a contrasto delle discriminazioni vietate3.

Uniformandosi alla giurisprudenza di fonte comunitaria, la citata sentenza del 2016
ha affermato che l’elemento intenzionale non è necessario per integrare la fatti-
specie di discriminazione sia diretta che indiretta, puntualizzando definitivamente             31
che la discriminazione è fattispecie persa da quella civilistica viziata dal motivo
illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cod. civ., che aveva lungamente prevalso
soprattutto in caso di licenziamento. Chiarendo la necessità di tener distinte le due
fattispecie, la citata sentenza della Cassazione afferma: “La discriminazione, per-
samente dal motivo illecito, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo
del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenen-
za alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavo-
ro”. Naturalmente possono ben esistere situazioni discriminatorie in cui l’elemento
intenzionale è presente, ma ciò che rileva, ed è sufficiente provare in giudizio, è l’e-
lemento costituito dalla differenza di trattamento, in caso di discriminazione diret-
ta, oppure il particolare svantaggio derivante da un trattamento pur formalmente
neutro, in caso di discriminazione indiretta, e la correlazione con il fattore vietato.

La questione merita un breve approfondimento, dato che la configurazione come
discriminazione di un atto viziato da motivo illecito determinante è stata a lungo
sostenuta ed accolta dalla giurisprudenza in relazione alla esigenza di contrastare le
ritorsioni a fronte di legittime pretese avanzate da parte dei lavoratori.



2 A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro, Cedam 2010.
3 Mi permetto di rinviare a Scarponi, Licenziamento discriminatorio e licenziamento per motivo illecito
determinante: una svolta della Cassazione in materia di procreazione medicalmente assistita, Riv. Giur.
Lav. 2016, II, Il Caso; nonché R. Sanlorenzo, Il licenziamento discriminatorio e l’evoluzione della giuri-
sprudenza, in O. Bonardi, op.cit. p.35.
   Il quadro normativo in merito è complesso. Occorre distinguere il caso in cui la ri-
   torsione si rivolge contro chi abbia reagito a comportamenti o trattamenti discrimi-
   natori, che viene assimilata a una vera e propria discriminazione in base alla tecnica
   estensiva sopra ricordata propria della disciplina legislativa in materia. Diverso il
   caso in cui la ritorsione si verifica a fronte di una pretesa avanzata da parte del
   lavoratore riguardante un altro diritto, al di fuori dell’ambito delle discriminazioni,
   per es. per mancato pagamento della retribuzione. In quest’ultimo caso, ove per
   es. il lavoratore subisca il licenziamento, la ritorsione rientra nel campo dell’atto
   viziato da motivo illecito determinante, rispetto al quale occorrerà provare anche
   per presunzioni che la ritorsione è l’unico motivo dell’atto. In proposito la disciplina
   in materia di licenziamento aveva infatti distinto le due fattispecie – licenziamento
   discriminatorio e licenziamento per motivo illecito determinate – mantenendo la
   medesima tutela “forte” consistente nella reintegrazione. Qualche problema inter-
   pretativo è sorto a fronte della modifica introdotta per il contratto a tutele crescenti
   in seguito all’emanazione del Jobs Act mediante l’art. 2, d.lgs. n. 23/2015. Tale di-
   sposizione, come è noto, ha escluso dall’ambito della tutela “forte” i licenziamenti
   la cui nullità deriva dall’art. 1345 cod. civ., ammettendo solo quelli per i quali sia
   espressamente prevista dalla legge la nullità, e creando così il rischio di sottrarre
   questo tipo di licenziamento alla tutela reale con risarcimento del danno. In merito,
   oltre alla critica per l’infelice formulazione legislativa, è conpisibile la tesi rico-
   struttiva che, in primo luogo, configura il licenziamento di ritorsione come sorretto
   comunque da causa illecita ai sensi dell’art. 1343 codici. da cui deriva in ogni caso la
   nullità dell’atto4; in secondo luogo, l’ipotesi interpretativa che, valorizzando l’inter-
32  pretazione sistematica, svaluta il termine “espressamente” ed estende il regime di
   tutela “forte” ad ogni possibile forma di licenziamento nullo sinora ammessa dall’or-
   dinamento secondo i principi generali di diritto civile5.

   3. Ambiti di comparazione, nozione di “particolare svantaggio” in caso
     di d. indiretta
   La prevalenza della nozione “oggettiva” è saldamente ancorata alla definizione di
   discriminazione adottata dalle direttive, e conpisa dai decreti attuativi, sia in caso
   di discriminazione diretta che in caso di discriminazione indiretta.

   A) Ai sensi dell’art.2, c.1 lett. a) dei d.lgs. 215 e 216, la d. diretta si realizza quando:
   “per la razza o l’origine etnica, per religione, per convinzioni personali, per handi-
   cap, per età o per orientamento sessuale, una persona viene trattata in modo più
   sfavorevole di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”.

   La tecnica utilizzata pone in risalto, pertanto, la differenza di trattamento emergente

   4 Carinci M.T. Licenziamento discriminatorio alla luce della disciplina nazionale: nozioni e distinzione,
   RIDL n.3, II, Focus sul licenziamento discriminatorio, 720; C. Zoli Il licenziamento per giustificato motivo
   oggettivo dalla legge n. 604/66 al d.lgs. n. 23 del 2015, in Ferraro G. (a cura di), I licenziamenti, in QADL
   n.4/2015, 93.
   5 A. Perulli A. (2015), Il contratto a tutele crescenti e la Naspi. Un mutamento di paradigma per il diritto
   del lavoro, in A. Perulli, L. Fiorillo (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4
   marzo 2015 n. 22 e 23, Giappichelli, Torino.
da una comparazione che può avvenire non soltanto fra due posizioni simultanee
ma anche con situazioni passate o ipotetiche. Si tratta di una tecnica finalizzata a far
emergere più che le discriminazioni palesi, più rare, quelle occulte e quelle che at-
tengono a comportamenti omissivi, molto più frequenti ma più difficili da inpidua-
re. La comparazione con situazioni passate permette di confrontare il trattamento
in discussione, per es. una mancata promozione, con il comportamento tenuto in
passato verso un dipendente del medesimo datore di lavoro a cui viceversa era stata
attribuita avendo le medesime competenze professionali di colui cui è stata negata
e, guarda caso, appartiene ad una delle categorie cui si applica il pieto di discrimi-
nazione. La comparazione ipotetica permette di rispondere al ragionamento “se non
fosse – allora”, ovvero: “se non fosse una donna, sarebbe stata promossa”, “se non
fosse disabile sarebbe stato assunto”. Questo modo di procedere è stato utilizzato,
fra l’altro, in Germania per porre in luce le diseguaglianze retributive subite del per-
sonale straniero di un’impresa rispetto ai lavoratori di nazionalità tedesca (se non
fossero stranieri, la retribuzione sarebbe stata identica), ma in generale permette
di effettuare la comparazione anche in situazioni che apparentemente non lo con-
sentirebbero. La nozione di discriminazione mantiene una natura eminentemente
relazionale, e la comparazione ipotetica permette di affrontare anche le fattispecie
che nel quadro normativo apparentemente sono esenti dall’esigenza di effettuare
la comparazione, come nel caso delle molestie, e delle molestie sessuali. Si tratta
di situazioni che, peraltro, non sempre coincidono con discriminazioni dirette o in-
dirette, ma sono solo considerate come tali dall’ordinamento al fine di assicurare la
medesima protezione alle vittime dei comportamenti molesti, sotto il profilo dell’al-
leggerimento dell’onere della prova, delle azioni in giudizio e dei rimedi e sanzioni.             33

Proseguendo nell’analisi, va ricordato che la definizione di discriminazione diretta è
leggermente persa nel campo delle discriminazioni di genere, ai sensi dell’art.25
Codice Pari Opportunità6, ma non rimette in discussione quanto detto finora sul
piano generale, e fermo restando la specifica estensione della nozione di discrimi-
nazione alle violazioni dei diritti concernenti la maternità e la paternità.

B) La nozione di discriminazione indiretta7, di derivazione anglo-americana, è basata
sull’impatto sfavorevole derivante da trattamenti che pure sono apparentemente
neutri, e dunque emerge dagli effetti negativi che produce sui soggetti protetti dai
pieti di discriminazione. Essa ha subito un’evoluzione nel tempo, transitando da
una fase in cui l’impatto era definito come “sproporzionato” e quindi imponeva di
considerare quanti fossero coloro che subivano l’impatto negativo dal trattamento
in questione rispetto a quelli che ne fossero esenti, alla nozione attuale che si limita
a far riferimento al “particolare svantaggio” subito dalle persone rientranti nelle
categorie portatrici dei fattori considerati dalla disciplina in materia, a seguito di un
atto, comportamento, trattamento, prassi etc. In merito, una recente sentenza della

6 Art. 25 “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, crite-
rio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché’ l’ordine di porre in essere un atto o un comporta-
mento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del
loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un
altro lavoratore in situazione analoga
7 Art. 2, c.2 lett. b) DHLs 215 e 216.
   CGUE8 ha affermato che il “particolare svantaggio” non implica necessariamente
   che esso deve essere grave, ma soltanto “apprezzabile”. Di conseguenza, anche in
   questo caso è rimesso al giudice l’accertamento dello svantaggio a seconda delle
   caratteristiche proprie delle situazioni in gioco, che spesso si può inpiduare solo
   ex-post in base ai soggetti coinvolti.

   In passato il pieto di discriminazione indiretta è stato applicato in materia di parità
   u/d nel lavoro a fronte di bandi di concorso che richiedevano il possesso di requisiti
   di tipo fisico o professionale, posseduti in via maggioritaria dagli uomini rispetto alle
   donne come requisiti di altezza, forza fisica, o di particolari titoli di studio, ritenuti
   prima facie discriminatori. Di conseguenza, se ne era valutata la necessità effettiva
   rispetto alla attività lavorativa e la loro illegittimità oppure sostituibilità con requi-
   siti a minor impatto negativo. Quest’ultimo caso si è verificato con riferimento alla
   parità u/d nel lavoro e al requisito dell’altezza che attualmente è limitato a specifici
   casi definiti legislativamente ma deve essere in ogni caso stabilito tenendo conto
   dell’altezza media che caratterizza uomini e donne.

   4. Deroghe alle discriminazioni dirette e indirette in base alla giuri-
     sprudenza europea e interna
   La nozione di discriminazione va considerata anche tenendo conto delle deroghe
   consentite all’applicazione del pieto, che permettono in certi casi di adottare com-
   portamenti altrimenti illegittimi. La disciplina sul punto è differenziata a seconda
34  che si tratti di d. dirette oppure indirette, e occorre considerare, altresì, ulteriori
   limiti specifici al campo di applicazione dei pieti.

   Secondo il principio stabilito dalle direttive, le deroghe possono riguardare solo casi
   strettamente limitati, e sono sottoposte comunque alla condizione del rispetto di
   una finalità legittima e di essere proporzionate rispetto al fine da raggiungere. In
   tal modo obiettivi legittimi di necessità imprenditoriale, oppure di politica sociale,
   possono trovare accoglimento ma solo entro gli stretti limiti sanciti dalla disciplina
   in materia, nel senso che non sarà sufficiente invocare una generica “razionalità”
   organizzativa oppure il perseguimento di obiettivi di politica sociale concepiti senza
   tener conto dei possibili effetti discriminatori9.

   Quanto alla discriminazione diretta, il filtro imposto dalla normativa europea e na-
   zionale ammette la deroga solo nei casi in cui il requisito sia “essenziale e deter-
   minante” per lo svolgimento dell’attività lavorativa, avendo una effettiva e stretta


   8 CGUE 16 luglio 2015 C-8314 Cetz, commentata da A. Guariso, La tutela giurisdizionale contro le
   discriminazioni nel dialogo tra le Alte Corti, in O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e pieti di discrimi-
   nazione cit. p.417.
   9 Emblematica da tale punto di vista la sentenza CGUE 22.11.2005 C-144/04 Mangold che ha ritenuto
   illegittimo per contrasto con il pieto di discriminazione per età nei confronti dei lavoratori una legge
   tedesca che incentivava l’assunzione con contratto a tempo determinato, pertanto meno tutelante di
   quello a t. indeterminato, di persone che avessero superato i 60 anni senza considerare né le condizio-
   ni del mercato del lavoro né le qualificazioni professionali di tali lavoratori.
correlazione con le mansioni da svolgere10. Un’occasione di approfondimento in
merito è stata fornita di recente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in al-
cune sentenze in materia di licenziamento e di diniego di assunzione11. In una delle
sentenze relative al licenziamento, si trattava di una discriminazione per motivi reli-
giosi attinente al porto del velo (Hijab che copre capelli e collo) che una lavoratrice
musulmana si era vista imporre di togliere unicamente per compiacere la richiesta
di un cliente dell’impresa presso il quale la dipendente, ingegnere elettronica, si era
recata per svolgere le mansioni di assistenza ai computers. In quel caso la discrimi-
nazione viene considerata come discriminazione diretta, essendo rivolta solo a lei
e dunque contro una specifica religione, potendosi escludere inoltre che il porto
del velo abbia alcuna attinenza con le mansioni affidatele. Inoltre, assecondare la
richiesta del cliente avrebbe significato permettere a quest’ultimo di manifestare
la propria intolleranza religiosa, in aperto contrasto con lo scopo della Direttiva. In
tal caso, pertanto, l’obiezione del datore di lavoro non aver avuto alcuna intenzione
di discriminare la lavoratrice e di temere la perdita del cliente non possono essere
accolte.

L’altro caso relativo alla medesima questione di rifiuto di togliere il velo su richiesta
del datore di lavoro12 è stato invece inquadrato come discriminazione indiretta, ri-
spetto alla quale le deroghe sono concesse in misura più ampia, ovvero qualora il
requisito richiesto sia rispondente ad un obiettivo legittimo e le sue modalità attua-
tive siano necessarie e proporzionate al fine da raggiungere13. In questo caso a far
pendere la bilancia verso la richiesta del datore di lavoro sta il fatto che si trattava di           35
un imprenditore operante nel campo dell’accoglienza che aveva adottato una stra-
tegia volta esplicitamente a perseguire un’ “immagine di neutralità” dell’azienda,
a seguito della quale vigeva da tempo una regola non scritta per cui agli addetti a
mansioni di front-desk era vietato esibire alcun simbolo né di appartenenza religio-
sa né di altre opinioni personali14.


10 Ai sensi dell’art. 3, c. 3 d.lgs. 215 e 216 la formula è la seguente: qualora, per la natura dell‘ attività
lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.
11 CGUE 14.3.2017 Bagnaoui C-188/15.
12 CGUE14.3. 2017 Achbita C- 157/15.
13 Art. 3, c.4 d.lgs. n. 215 e 216: “Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’ar-
ticolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giu-
stificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”. Ai
sensi dell’art. 25, c.2 Codice PO: “ Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando
una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente
neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di parti-
colare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali
allo svolgimento dell’ attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo
conseguimento siano appropriati e necessari”.
14 La stessa lavoratrice, peraltro, aveva rispettato tale regola fino a quando, rientrando al lavoro dopo
un’assenza, aveva preteso di portare il velo asserendo che non vi era alcuna regola scritta che lo vie-
tasse. Il datore di lavoro con l’assenso del comitato dei rappresentanti del personale aveva allora intro-
dotto per iscritto tale pieto esteso a tutte le forme di manifestazione di adesione a credo religioso o
a convinzioni o appartenenze di altro tipo.
   Va sottolineato che la sentenza della CGUE impone al giudice nazionale preventiva-
   mente di verificare se realmente tale regola non scritta era stata applicata in modo
   imparziale a tutto il personale e per un periodo consistente, e solo se tale rigoroso
   accertamento avesse dato esito positivo si poteva considerare che la regola avesse
   effettivamente carattere generale, e dunque potesse ricadere nella fattispecie di
   discriminazione indiretta in quanto appunto trattamento apparentemente neutro,
   e rivolto alle opinioni non soltanto religiose ma di tutti gli altri tipi.

   La sentenza è interessante sotto il profilo più generale della distinzione tra d. dirette
   e d. indirette. L’inquadramento come discriminazione indiretta è stato affermato
   dalla sentenza basandosi sul fatto che ricorrevano gli elementi tipici della fattispe-
   cie, ovvero il trattamento neutro e l’esistenza di un impatto differenziato tale da
   mettere in una situazione di particolare svantaggio coloro la cui religione imponga
   di esibire il simbolo di appartenenza, a differenza di coloro che ne siano esenti. In ef-
   fetti questo approccio appare conpisibile, nonostante una parte dei commentatori
   abbia sostenuto la tesi contraria15.

   Occorre sottolineare un altro elemento importante del ragionamento complessivo.
   Venendo in gioco l’esercizio di un diritto fondamentale legato alla manifestazione
   della libertà religiosa in forum externo, nonché delle altre opinioni, ove il pieto
   fosse stato assoluto e imposto a tutti i dipendenti dell’impresa non avrebbe comun-
   que potuto essere considerato legittimo. Infatti sul punto la sentenza precisa che la
   condotta del datore di lavoro nell’affermare l’esigenza di fornire una immagine di
36
   neutralità dell’impresa è legittima, in quanto espressione della libertà economica
   riconosciuta come diritto fondamentale, solo in quanto ne siano immediatamente
   coinvolti esclusivamente i lavoratori addetti al contatto costante con i clienti nell’at-
   tività di front-desk. In realtà il dibattito è molto aperto in quanto parte della dot-
   trina non conpide l’idea che un’impresa privata possa assumere liberamente la
   decisione di adottare una politica di neutralità aziendale, e altresì ci si chiede se
   tale politica non potrebbe essere realizzata mediante una “neutralità positiva” che
   consenta a tutti di manifestare senza restrizioni la propria appartenenza religiosa o
   di altro tipo, in senso inclusivo piuttosto che esclusivo16.

   La soluzione adottata dalla sentenza approfondisce anche un altro aspetto di rilie-
   vo, incentrato sul giudizio di proporzionalità della misura sanzionatoria adottata.
   Sotto tale profilo afferma che il licenziamento risulta troppo grave e, in chiave di
   equo bilanciamento tra diritti fondamentali, impone al datore di lavoro di ricercare
   soluzioni alternative che non comportino eccessivi costi per l’impresa, come per es.
   il trasferimento a mansioni che non richiedano il costante contatto con gli utenti;
   oppure altre soluzioni che consentano di conciliare l’esigenza dell’impresa alla po-
   litica di neutralità e quelle religiose delle lavoratrici. In tal modo è stato introdotto
   il principio del licenziamento come extrema ratio e l’obbligo di trovare soluzioni

   15 R. Sanlorenzo, op.cit. supra nota 3.
   16 S. Scarponi, L’appartenenza confessionale delle donne lavoratrici davanti alla Corte di Giustizia
   dell’Unione Europea, in Daimon – Diritto comparato delle religioni, n. speciale 2018, Donne, diritti e
   religioni
ragionevoli, quali il repechage che nel nostro ordinamento è applicabile in caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con onere della prova a carico del
datore di lavoro.

La tematica inerente al pieto di discriminazione per motivi religiosi è stata affron-
tata anche dalla giurisprudenza interna ed è estremamente attuale dato il plurali-
smo religioso che oramai caratterizza la nostra società. La condizione della stretta
correlazione tra il requisito attinente la religione o le opinioni personali e le man-
sioni da svolgere, insieme al vaglio di proporzionalità, costituisce un criterio che si
avvicina molto a quello dell’essenzialità previsto in caso di discriminazioni di genere
nel nostro ordinamento.

Va richiamata in materia una sentenza della C.A. Milano che ha ritenuto discrimina-
torio il diniego di avviare una lavoratrice da parte di un’agenzia di selezione del per-
sonale perché non intendeva togliere il velo islamico che copre i capelli (Hijab) come
richiesto dal cliente (che voleva assumere una hostess con capelli lunghi e vaporosi
per una fiera della calzatura)17. Benché la sentenza in questione abbia posto l’accen-
to sul fatto che neppure il cliente aveva qualificato tale requisito come essenziale,
trattandosi di mansioni di distribuzione di volantini, alla luce della giurisprudenza
della Corte di Giustizia è da ritenere che la correlazione tra requisito e mansioni
debba essere oggettiva e sottoposta al vaglio del giudice, anziché dipendere dalle
valutazioni soggettive del datore di lavoro.
                                                        37
5. Deroghe e regimi specifici
In riferimento a specifici fattori di discriminazione la legislazione stabilisce regimi
particolari che autorizzano delle deroghe al pieto. Senza entrare in una analisi
specifica che verrà approfondita negli incontri tematici del corso, va ricordato che
uno dei più importanti attiene alla discriminazione per età, la cui disciplina delle
deroghe è molto ampia. L’art. 3, c. 4-bis d.lgs. n.216 fa salve disposizioni che pre-
vedano particolari condizioni per l’accesso al lavoro, alla formazione professionale,
ma anche per il licenziamento, finalizzate a promuovere politiche occupazionali di
inserimento professionale di giovani, persone anziane o persone con familiari a ca-
rico, o di assicurare la protezione degli stessi, e fermo restando il requisito della
proporzionalità. In materia ha fatto discutere la giurisprudenza della CGUE che,
mentre nella citata sentenza Mangold aveva ritenuto illegittimo il sistema tedesco di
promozione dei contratti a termine per favorire l’assunzione dei lavoratori anziani,
più di recente, con la sentenza Abercrombie18, ha ritenuto legittimo il licenziamento
di un lavoratore assunto con contratto di lavoro intermittente al compimento di 25
anni, sul presupposto che veniva in tal modo favorito l’avvicendamento con altri
lavoratori giovani.


17 C. A. Milano 29.5. 2016 in RIDL 2016, n.4, II, p. 821, con nota di M. Peruzzi, Il prezzo del velo: ragioni
di mercato, discriminazione religiosa e quantificazione del danno non patrimoniale.
18 CGUE 19.7.2017 C-143/16 Abercrombie Fitch, su cui L. Calafà, Teoria e pratica del diritto antidiscri-
minatorio del lavoro nel caso Abercrombie Fitch, in Bonardi, op.cit.
   Sono fatte salve, inoltre, ai sensi dell’art.3, co. 2, d.lgs. n. 216, le disposizioni che at-
   tengono alla sicurezza e protezione sociale, alla sicurezza pubblica e prevenzione dei
   reati, a questioni di stato civile e di prestazioni che ne derivano, di accesso alle forze
   armate limitatamente ai fattori di età e di handicap. Deroghe sono previste, altresì,
   in materia di discriminazioni di genere nel campo della moda, arte e spettacolo, se
   si tratti di mansioni in cui l’appartenenza a un determinato genere sia essenziale.

   Un ambito in cui trovano limiti i pieti di discriminazione per motivi religiosi o di
   altre opinioni e ideologie concerne le organizzazioni di tendenza, ai sensi dell’art. 5
   d.lgs. n. 216, salva, anche in questo caso, la prova di una stretta correlazione tra il
   requisito di appartenenza richiesto dal datore di lavoro e l’attività o il contesto lavo-
   rativo, rispetto al quale il requisito deve essere essenziale e determinante.

   Tale principio è stato riaffermato in caso di discriminazioni a carattere religioso e
   organizzazioni di tendenza da recenti importanti sentenze della CGUE. Si trattava in
   un caso della mancata assunzione di una candidata in quanto non appartenente ad
   una delle chiese cristiane menzionate in un bando di concorso di una chiesa evan-
   gelica19, in altro caso del licenziamento di un dirigente medico del reparto di cardio-
   logia di un ospedale gestito da un ente religioso accusato di aver violato il codice
   di comportamento per essersi risposato civilmente dopo il porzio20. In entrambi i
   casi, tali provvedimenti datoriali sono stati considerati illegittimi per la ragione de-
   scritta, affermando la Corte il rispetto del vaglio giudiziario in tutti i casi in cui non sia
   in gioco l’attività della chiesa di elaborazione e di propaganda e comunicazione della
38
   dottrina religiosa, principio applicabile anche alle altre organizzazioni di tendenza.

   Anche la giurisprudenza interna ha affrontato la questione della correlazione tra
   requisiti e mansioni affidate al dipendente sotto il profilo della possibile discrimina-
   zione in impresa di tendenza. Il caso riguardava il mancato rinnovo di un contratto
   di incarico temporaneo di insegnamento nei confronti di una lavoratrice da parte di
   un ente religioso che gestiva una scuola privata parificata, dopo aver indagato sul
   suo orientamento omosessuale, di cui è stata affermata la natura discriminatoria21.

   Infine va menzionato l’ambito del pieto di discriminazione per motivi di razza o di
   origine etnica, che ammette deroghe per ciò che riguarda le disposizioni in materia
   di ingresso e soggiorno e accesso all’occupazione dei cittadini dei paesi terzi o apo-
   lidi (art. 3, c. 2, d.lgs n. 215) fermo restando il coordinamento con il T.U. sull’immi-
   grazione che verrà esaminato in altro incontro durante il corso.



   19 CGUE Egenberger 17 aprile 2018 C-414/2016
   20 CGUE I.R. 11 settembre 2018 C-68/17.
   21 C.A. Trento 7/3/2017, n. 14, in RIDL 2017, con nota di R. S. Rugiu “Il caso della docente di una
   scuola religiosa: la discriminazione per orientamento sessuale nelle organizzazioni di tendenza”, 790.
   In merito Cass. 3/10/2016 n. 19695, in Lav. Giur. 2017, 200, ha affermato che: “Ai sensi degli artt. 3 e
   4 della l. 11 maggio 1990, n. 108, il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è nullo, con
   conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro, anche ove il datore
   di lavoro sia una delle cd. organizzazioni di tendenza”.
6. Evoluzione della nozione di discriminazione vietata
Come si è già ricordato, l’influenza dispiegata dalla normativa di fonte sovranaziona-
le ha permesso di approdare alla nozione oggettiva di discriminazione, distinguendo
rispetto alla fattispecie di atto o negozio viziato da motivo illecito determinante, con
rilevanti conseguenze sotto due profili. Il primo riguarda l’alleggerimento dell’onere
probatorio, non dovendo essere più fornita la prova dell’animus nocendi dell’autore
della discriminazione, e il secondo la possibilità di affermare la sussistenza della
discriminazione anche in presenza di altri motivi concorrenti, non ricorrendo più
la necessita che si tratti di un motivo illecito unico e determinante. Ciò permette
di allargare lo spettro delle situazioni che ricadono sotto il regime dei pieti di di-
scriminazione ampliandone la sfera di protezione. Un caso esemplare al riguardo
è stato deciso molti anni fa, in cui 2 lavoratori avevano commesso un’infrazione
disciplinare per la quale soltanto uno, tuttavia, era stato sanzionato con il licenzia-
mento. Il giudice indagò oltre la esistenza della mancanza commessa per stabilire se
il provvedimento fosse comunque discriminatorio. Altri esempi potrebbero riguar-
dare l’esistenza di discriminazioni pur in presenza di ragioni organizzative a sostegno
di determinati provvedimenti assunti dal datore di lavoro.

Un altro aspetto rilevante della nozione di discriminazione attiene alla sua natura
anche solo potenziale. È pacifico che anche il mero annuncio può avere contenuto
discriminatorio, per es. se si tratta di offerte di lavoro che fanno riferimento a re-
quisiti discriminatori vietati, o di altre manifestazioni discriminatorie, come nel caso
di un noto avvocato che aveva espresso la volontà di non voler avere collaboratori     39
gay per timore di perdere la sua clientela. Al riguardo occorre citare una sentenza
importante della Corte di Giustizia attinente al caso di un datore di lavoro che ave-
va pubblicamente dichiarato di non voler assumere lavoratori di colore, qualificata
come discriminazione diretta22. Il criterio opera anche dal lato del lavoratore, se
questi manifesta l’intenzione di fare qualcosa che dà luogo ad un provvedimento
discriminatorio, ove è rilevante il collegamento temporale tra la manifestazione del
lavoratore e il provvedimento negativo nei suoi confronti. In tema si possono citare
i casi di un lavoratore che aveva manifestato al datore di lavoro la volontà di sotto-
porsi ad un’operazione per mutare sesso, onde richiedere giorni di congedo, ed era
stato licenziato pochi giorni dopo23; e quello della lavoratrice che aveva manifestato
al proprio datore di lavoro l’intenzione di sottoporsi alla PMA per informarlo che
avrebbe avuto necessità di assentarsi durante il periodo dell’intervento, ed era stata
licenziata, che formato oggetto della citata sentenza Cass. 6575/2016.

Un’altra interessante evoluzione della nozione di discriminazione, derivante dalla
giurisprudenza della CGUE, riguarda la discriminazione “associata” che protegge la
persona che abbia rapporti diretti con il soggetto coperto dai pieti di discrimina-
zione. Originato dalla materia dei pieti di discriminazione nei confronti del disabile
(CGUE Coleman24) per tutelare i familiari che se ne prendono cura, tale nozione è

22 CGUE 10.7.2008 C-54/07 Feryn e CGUE 25.4.2020 C-507/18 NH. Avvocatura LGBT.
23 CGUE 30.4.1996, P .v. S. e Cornwall County, C-15/94.
24 CGUE 17.6. 2008 Coleman C-303/06.
   stata estesa ad altre situazioni ed è ricca di potenzialità applicative. Particolarmen-
   te interessante la recente sentenza (CGUE Cetz), già citata, riguardante il caso di
   un’etnia rom abitante in un condominio nel quale l’ente gestore della fornitura elet-
   trica aveva deciso di mantenere ad un’altezza molto elevata i contatori per timore
   di manomissioni. Un inquilino abitante nello stesso stabile, benché non apparte-
   nente alla medesima etnia, aveva lamentato di subire un particolare svantaggio per
   la difficoltà ad accedere a servizi elettrici e la sentenza ha accolto tale ricorso, non
   ritenendo pertanto necessario, come già visto, dimostrare un particolare livello di
   gravità dello svantaggio dovuto al fatto di essere in rapporto di vicinanza all’etnia
   tutelata dai pieti di discriminazione. Si tratta dunque di un principio interpretativo
   fecondo di possibili ampie applicazioni.

   Acquisisce sempre maggiore importanza, infine, la caratteristica di intersezionalità
   delle discriminazioni, ovvero di concorso di più fattori che aumentano il rischio e la
   gravità delle discriminazioni, come nel caso di disabilità che si aggiunga all’essere
   di persa etnia, oppure di genere femminile, oppure di perso orientamento ses-
   suale, ma altri esempi possono aggiungersi. In questi casi l’attenzione deve essere
   moltiplicata, data anche la maggiore difficoltà del soggetto discriminato a potersi
   difendere personalmente, che accentua l’importanza del ruolo delle istituzioni sia
   pubbliche che private e degli enti esponenziali nell’azione di tutela. Possono sor-
   gere anche questioni di inpiduazione della norma applicabile, tenuto conto della
   molteplicità delle fonti di regolamentazione. Così per es. nel caso citato della lavo-
40  ratrice musulmana qualificato come discriminazione indiretta è stata segnalata la
   possibilità, ove si verificasse un caso analogo nel nostro paese, di applicare il T.U.
   sull’immigrazione, all’art. 43, c.2 e i relativi criteri concernenti le giustificazioni del
   datore di lavoro che non sono del tutto coincidenti con quelli derivanti dai decreti
   legislativi 215 e 21625.

   In merito va ricordato, per ciò che attiene in particolare gli aspetti lavoristici, il ruo-
   lo delle consigliere e dei consiglieri di parità, che sono dotati di legittimazione ad
   agire in caso di discriminazioni collettive, anche se non ne siano immediatamente
   identificabili le vittime, e pertanto possono ricorrere al giudice in casi come quelli
   ricordati di bandi di concorso o annunci di lavoro contenenti requisiti discriminatori.
   Altri soggetti chiamati ad operare controlli nella fase preassuntiva sono le agenzie di
   selezione del personale o le agenzie di lavoro interinale, tenute altresì al rispetto del
   pieto di indagine affermato dall’art. 8 Statuto del Lavoratori, che impone di pren-
   dere in considerazione esclusivamente gli aspetti che costituiscono requisiti di ido-
   neità all’attività lavorativa che dovrà essere svolta dal lavoratore o dalla lavoratrice.




   25 N. Colajanni Il velo delle donne musulmane tra libertà religiosa e libertà di impresa, https://www.
   questionegiustizia.it/articolo/il-velo-delle-donne-musulmane-tra-liberta-di-religione-e-liberta-d-im-
   presa_21-03-2017.php; nello stesso senso M. Peruzzi, La prova del licenziamento ingiustificato e di-
   scriminatorio, Giappichelli, 2017, p.189.
Il licenziamento discriminatorio
Andrea Lassandari*



La collega Stefania Scarponi, che mi ha preceduto, ha indubbiamente facilitato il mio
compito: perché attraverso una relazione molto completa e puntuale ha descritto gli
elementi fondamentali della fattispecie discriminatoria.

Ci si può in effetti a questo punto chiedere perché dedicare al licenziamento un inter-
vento specifico. Emergono tuttavia varie ragioni che rendono opportuna questa scel-
ta. Intanto l’importanza delle questioni concernenti il licenziamento, istituto centrale
per il rapporto di lavoro subordinato e per l’intero diritto del lavoro.

Noi sappiamo che negli interventi più recenti del legislatore sono state introdotte
nuove disposizioni sul licenziamento, su cui tornerò in modo più puntuale: queste
incidono sull’istituto ma – e qui dico una cosa ovvia che però oggi merita di essere
sottolineata - hanno profondi impatti sull’intero diritto del lavoro. Perché facilitare il  41
licenziamento significa ostacolare o impedire l’accesso all’insieme dei diritti spettanti
al prestatore. Si tratta in effetti di un istituto che svolge un ruolo strategico.

D’altra parte vicende concrete, specifiche norme e soprattutto distinti orientamenti
di carattere interpretativo rendono la vicenda del licenziamento discriminatorio sto-
ricamente separata da quella concernente la discriminazione in generale. Potrei dire
così: quello che Stefania Scarponi ha spiegato molto bene, fino ad un paio di anni fa
tutto sommato poteva dirsi che non valesse per i licenziamenti. Soprattutto in consi-
derazione degli indirizzi dominanti di fronte alla Corte di Cassazione.
Aggiungo che alla luce sempre di questi ultimi orientamenti, l’accesso alla tutela ri-
sultava estremamente complicato per il prestatore; anche se, come vedremo, resta
tutt’altro che semplice pure oggi...

Fino al 2012 tuttavia non se ne era accorto nessuno, potrebbe dirsi. Perché fino alla
c.d. “riforma Fornero” in una impresa di medie o grandi dimensioni – sintetizzo così
– un lavoratore illegittimamente licenziato aveva diritto alla reintegrazione, qualun-
que fosse il vizio del licenziamento. Poteva essere un vizio formale; il licenziamento
poteva essere privo, come di fatto avveniva nella gran parte dei casi, di giustificazione
ovverosia di giusta causa o giustificato motivo; poteva appunto anche emergere una
discriminazione.


* Ordinario di Diritto del lavoro, Università di Bologna, sede di Ravenna.
   Non c’era quindi bisogno, per il lavoratore illegittimamente licenziato, di dare dimo-
   strazione dell’esistenza di una discriminazione al fine di essere reintegrato, come dal
   2012 invece accade. Il lavoratore poteva ottenere il medesimo risultato limitandosi ad
   affermare che il licenziamento fosse privo di giusta causa o giustificato motivo, posto
   che secondo le norme l’onere della prova sulla giustificazione del licenziamento rica-
   deva e tuttora ricade sul datore.

   Anche il giudice d’altra parte era ben lieto di limitare l’accertamento a questo profilo.
   Non c’erano in effetti ragioni per andare oltre e verificare se il licenziamento fosse
   discriminatorio.

   Teoricamente l’interesse a far emergere la discriminazione poteva invece apparire a
   proposito dei licenziamenti nelle piccole imprese, considerato che in tal caso la tutela
   riconosciuta a fronte di licenziamento ingiustificato era (e resta) invece ben inferiore
   rispetto a quella spettante in presenza di licenziamento discriminatorio e cioè ap-
   punto la reintegrazione. Ma nelle piccole imprese il contenzioso non è mai stato così
   rilevante: forse anche perché la prova dei fatti sostenuti di fronte al giudice non di
   rado risulta ancora più complessa per il prestatore.

   Cosicché fino a pochi anni addietro il tema del licenziamento discriminatorio è stato,
   potrebbe essere detto, di “nicchia”. Un tema fondamentalmente dottrinale. Le cause
   non erano molte. La consuetudine con questi strumenti era limitata presso tutti gli
   operatori: avvocati, giudici anche giuristi.
42
   Perché in effetti è stato piuttosto ristretto pure l’ambito di studiosi che si è occupato
   del tema: in grande prevalenza peraltro composto da studiose. Io sono una piccola
   eccezione in questo campo.

   Per tornare però ai concreti episodi cui facevo cenno, di licenziamenti discriminatori
   si comincia a discutere già immediatamente dopo il sorgere della Repubblica.

   Negli anni cinquanta infatti si presenta il caso Santhià, dipendente della Fiat, un in-
   gegnere se non ricordo male, aderente al partito comunista, che svolge attività sin-
   dacale e per questa ragione (credo neanche celata) viene licenziato. In un contesto
   generale che - lo ricordo – consentiva allora al datore di licenziare liberamente.

   Sulla questione sorge un dibattito in dottrina. Ed alcuni studiosi sostengono che il
   licenziamento sia invalido perché emergerebbe un motivo illecito, ai sensi dell’art.
   1345 c.c.: norma ritenuta operante anche per gli atti unilaterali, come il licenziamen-
   to, secondo l’art. 1324 c.c.

   Poi - si badi bene - la discussione nelle riviste giuridiche non è che avesse allora grandi
   impatti concreti. Nella realtà il sig. Santhià non è tornato a lavorare in Fiat. E come
   lui migliaia di persone, negli anni cinquanta e sessanta licenziati per ragioni che oggi
   definiremmo discriminatorie, in connessione ai fattori politico e sindacale. E questo
   è tanto vero che in seguito sono state approvate varie “leggine”, volte a ricostruire la
   posizione previdenziale dei lavoratori licenziati per queste ragioni.
Quindi in Italia la discriminazione si presenta proprio nella forma del licenziamen-
to: ed in connessione a ragioni politiche e sindacali. Infatti la legge n. 604 del 1966,
che introduce il nuovo e rivoluzionario principio della necessaria giustificazione del
licenziamento – senza però che allora ne derivasse l’inefficacia del medesimo, ove
ingiustificato: al prestatore riconoscendosi esclusivamente una indennità risarcitoria
–, precisa come solo in tre casi il licenziamento sia nullo: laddove sia “determinato”
appunto dal credo politico, sindacale e religioso (quest’ultimo riferimento trovando
plausibilmente spiegazione nelle leggi razziali fasciste e nell’olocausto; forse anche
nella possibile connessione con l’elemento politico).

Questi sono dunque i tre fattori originariamente considerati dall’ordinamento a pro-
posito del licenziamento discriminatorio e delle discriminazioni in generale.

Contemporaneamente tuttavia va ricordato come già nel 1963 sia disposta la nullità
dei c.d. licenziamenti per causa di matrimonio. In questo caso reagendosi a prassi dif-
fuse, attraverso le quali il datore “si liberava” di lavoratrici di lì a breve probabilmente
in gravidanza. La normativa infatti è sempre stata letta come introdotta a tutela della
maternità.

Oggi però noi la definiremmo come anti-discriminatoria, anche se la legge continua
tuttora a presentare in modo distinto le due ipotesi: sia pure transitando attraverso
la protezione della maternità, anche la discriminazione sessuale fa così la sua prima
timida comparsa nell’ordinamento.
                                                43
Poi interviene l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, norma di cui già si è parlato. Molto
importante perché qui sono confluiti, grazie alle persificate previsioni seguite nel
tempo, tutti i fattori previsti dall’ordinamento dell’Unione europea come discrimi-
natori. Di nuovo però nel testo originario era alle sole ragioni sindacali, politiche e
religiose che veniva rivolta attenzione.

Solo nel 1977, con la legge n. 903 sulla parità di trattamento tra lavoratrici e lavorato-
ri, si aggiungono nel testo dell’art. 15 riferimenti al sesso, oltre che alla lingua ed alla
razza. E da allora proprio il sesso – anzi il genere, come si preferisce di lì a breve indi-
care – penta il fattore fondamentale di riferimento nel nostro ordinamento, quanto
alle discriminazioni, anche a causa dell’influenza esercitata dalla (allora) Comunità
economica europea.

Infine solo di recente, attraverso i decreti legislativi pure già citati nn. 215 e 216 del
2003, si aggiungono gli ulteriori fattori dell’età, disabilità, orientamento sessuale e
convinzioni personali: nel cui ambito rientrano pure le opinioni politiche e sindacali,
in Italia già ben note.

L’insieme delle ragioni discriminatorie contenute nell’art. 15 tuttavia – prima questio-
ne che si pone – inpidua un elenco esemplificativo o tassativo?
La risposta che negli sessanta e settanta viene data, pur a fronte di un elenco meno
vasto del vigente, in dottrina e soprattutto giurisprudenza è prevalentemente nel se-
gno di un elenco esemplificativo. Perché prevale questo punto di vista? Perché si con-
   solida progressivamente la lettura volta a configurare il licenziamento discriminatorio
   quale ipotesi di motivo illecito: da cui si era appunto partiti nel famoso caso Santhià.

   Conseguentemente si confondono e sovrappongono, anche nel linguaggio, il licen-
   ziamento discriminatorio ed il licenziamento denominato ritorsivo o di rappresaglia
   – che cioè avviene come reazione a legittime iniziative, giudiziali o stragiudiziali, as-
   sunte dal lavoratore, volte a tutelare le proprie ragioni – pure ricondotto al motivo
   illecito.

   Secondo le norme fino ad ora citate il licenziamento discriminatorio è quindi nullo:
   mentre dal 1970, con l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il lavoratore nelle unità pro-
   duttive medie o grandi, in caso di licenziamento discriminatorio (ma, come si diceva,
   anche ingiustificato ed inefficace per ragioni di forma), ha diritto alla reintegrazione
   nel posto di lavoro.

   Solo nel 1990 viene invece stabilito che il lavoratore licenziato per ragioni discrimina-
   torie abbia sempre diritto alla reintegrazione. In qualunque luogo di lavoro pertanto
   operi: e persino nei pochissimi casi residui in cui il datore può licenziare senza giusti-
   ficazione, come ad es. avviene per il lavoro domestico.

   Ebbene in questo nuovo contesto normativo l’elenco dei fattori discriminatori va rite-
   nuto ancora esemplificativo o tassativo? La prima risposta continua ad imporsi perché
   resta sempre ferma la configurazione del licenziamento discriminatorio come ipotesi
44  di motivo illecito.

   L’impostazione è per la verità sempre più chiaramente messa in discussione in dottri-
   na. Perché gli studiosi fanno correttamente riferimento alla nozione presente nell’or-
   dinamento comunitario ed alla giurisprudenza della Corte di giustizia: da lì emergen-
   do un assetto molto perso, già illustrato da Stefania Scarponi.

   In Italia invece la Cassazione in particolare tiene fermo l’approccio consolidato di ri-
   conduzione al motivo illecito.

   Che problema ne deriva? E’ stato già precisato ma brevemente lo ripeto. Seguendo
   questa impostazione il lavoratore licenziato è tenuto a dimostrare due cose: innanzi-
   tutto, trattandosi di una nozione di carattere soggettivo, che il datore di lavoro abbia
   avuto l’intenzione di discriminare. Già questa è una prova molto difficile: quasi dia-
   bolica.

   Poi occorre provare che l’elemento discriminatorio sia esclusivo. Infatti se il datore
   ha un’altra ragione che lo legittima a licenziare, una ragione organizzativa prevalente-
   mente, questa fa venire meno automaticamente il profilo discriminatorio.

   È vero allora che la riconduzione al motivo illecito ha consentito astrattamente di
   apprestare una tutela, a fronte di un elenco di fattori fondamentalmente aperto. Tut-
   tavia questa protezione, transitando necessariamente attraverso i due profili inpi-
   duati, era in concreto difficilissima da acquisire.
Invece è corretto dire che la vicenda del licenziamento discriminatorio debba essere
nettamente separata da quella concernente il motivo illecito. Resta in quest’ultimo
ambito il licenziamento ritorsivo ma il licenziamento discriminatorio è cosa differente.

A ciò si giunge però nella giurisprudenza della Suprema Corte solo con la sentenza
n. 6575/2016, che per la prima volta sovverte il tradizionale punto di vista: anche se
il nuovo indirizzo è ancora evidentemente da assestare. Ciò avvenendo anche grazie
a qualche elemento presente nel sistema normativo: infatti nell’art. 18, comma 1,
della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 (c.d. riforma
Fornero), sono oggi esplicitamente distinte le ipotesi di licenziamento discriminato-
rio e di licenziamento per motivo illecito (nel cui ambito ricondurre appunto il solo
licenziamento ritorsivo).

In un momento in cui, come già dicevo, c’è per la prima volta una grande attenzione
alla problematica: perché solo se il licenziamento è nullo, nel cui ambito assume
rilievo centrale il licenziamento discriminatorio, il lavoratore ha diritto alla reinte-
grazione nel luogo di lavoro.

È così abbastanza frequente che l’avvocato oggi provi a richiedere in via principale
la reintegrazione, nel ricorso, per avere la tutela massima a beneficio del lavoratore
proprio assistito, sul presupposto che il licenziamento sia discriminatorio: in questo
modo la discriminazione guadagnando sovente il centro della scena. Così però in-
dubbiamente emergono anche rischi: innanzitutto quelli legati al fatto che il tema
non sia affrontato con l’attenzione che richiede.                      45

In effetti la nozione, nonostante il superamento della connessione con il motivo il-
lecito, resta comunque di molto complessa ricostruzione. Che cosa occorre dunque
provare da parte del prestatore? Già ne parlava Stefania Scarponi.

Primo. Che ci sia un pregiudizio, un danno per il lavoratore. Questo è un aspetto
relativamente semplice.

Secondo. Che ci sia un collegamento tra quel danno ed un fattore discriminatorio.
Profilo ancora non molto complicato in diritto, anche se può esserlo notevolmente
in fatto. Sono in effetti ammessi dati statistici, elementi indiziari, facilitazioni della
prova, allo scopo di rendere meno gravoso il compito del prestatore, ma può risulta-
re comunque complicato ricondurre il pregiudizio al fattore rilevante.

Poi però c’è un ultimo decisivo profilo: quello del bilanciamento tra ragioni del pre-
statore che subisce il pregiudizio e dell’impresa. Si tratta di aspetto in relazione al
quale l’accertamento giudiziale della discriminazione resta in molti casi incerto ed
imprevedibile: anche perché in tal caso assumono rilievo le sensibilità politiche, cul-
turali, ideologiche del giudice.

Il bilanciamento di cui si parla va comunque evidentemente realizzato nel rispetto
delle norme: emergendo al riguardo una notevole differenza se ci troviamo di fronte
ad una discriminazione diretta o indiretta.
   Se la discriminazione è diretta – mi esprimo ora in termini molto netti e semplificati,
   per ragioni di sintesi – le ragioni dell’imprenditore non prevalgono in effetti quasi
   mai. È – o dovrebbe essere – per lui molto difficile dimostrare che il criterio o la
   regola che hanno prodotto il danno al prestatore siano essenziali per la propria atti-
   vità, come la legge impone.

   Poi c’è anche giurisprudenza che traduce essenzialità con ragionevolezza: e questo è
   molto opinabile. Essenziale è concetto innanzitutto filosofico: significa fondamenta-
   le, ontologico appunto. Un elemento senza la cui presenza l’ente non può sussistere.

   Ebbene se io intendo essenziale con questo rigore l’impresa molto difficilmente può
   far prevalere il suo punto di vista.

   Per le discriminazioni di genere la normativa nazionale presenta ora un elenco tas-
   sativo di c.d. deroghe: si parla di moda, di spettacoli, di mansioni pesanti come in-
   piduate dalla contrattazione collettiva. Al di là di questi casi è in effetti difficile
   immaginare vicende in cui sia essenziale per l’impresa introdurre un criterio che
   penalizzi direttamente qualcuno in connessione al genere.

   Se invece la discriminazione è indiretta, le ragioni dell’impresa assumono indubbia-
   mente rilievo molto maggiore: ed il giudice deve decidere, nel bilanciamento tra
   opposte esigenze di tutela, seguendo un criterio di proporzionalità.

46  Allora è vero che oggi, una volta venuta meno la connessione con il motivo illecito,
   come ci si augura, sono stati superati gli ostacoli di cui si diceva. Restano però an-
   che rispetto alla nozione che speriamo a questo punto si imponga problematiche
   rilevanti: a partire da quella connessa all’esito del bilanciamento. Il quale risulta
   decisivo: perché se il giudice ritiene prevalenti le ragioni dell’impresa, il pregiudizio
   connesso al fattore discriminatorio, pur esistente, non è qualificabile come discrimi-
   nazione e tantomeno come illecito.

   Il giudizio è però appunto prevedibile solo fino ad un certo punto! E questo resta un
   elemento di significativa difficoltà nell’impiego della tecnica di tutela.

   Certo se la discriminazione è diretta i margini di rischio per chi agisce sembrano
   assai meno elevati. Può emergere però in tal caso un’altra questione: non sempre è
   così facile distinguere la discriminazione diretta dalla indiretta.

   Prima abbiamo visto degli esempi. Il criterio neutrale applicato dall’impresa di cui si
   parla nella pronuncia Achbita della Corte di Giustizia (sentenza del 14 marzo 2017,
   nella causa C-157/15) può condurre ad una discriminazione diretta od indiretta,
   quanto al fattore religioso? L’impresa – lo ricordo – in tal caso non accetta alcun se-
   gno distintivo: non vuole il velo islamico, il turbante sikh, la croce cristiana, neanche
   la spilletta con scritto “sono ateo”.

   In tal caso la Corte di Giustizia dice appunto che si tratta di discriminazione indiretta
   quanto alla religione. Poi si può aggiungere che se fosse stata dedicata adeguata
attenzione al criterio delle convinzioni personali l’esito poteva forse essere perso:
perché una ipotetica discriminazione indiretta rispetto al fattore religioso potrebbe
invece essere configurata come diretta, in relazione appunto alle convinzioni perso-
nali.

La connessione con la religione invece pone maggiori incertezze. Si pensi ad un altro
caso, non di licenziamento, in cui una lavoratrice islamica, che porta il velo, non vie-
ne assunta, in una fiera, perché è ora richiesto il requisito del “capello vaporoso”. In
tal caso emerge una discriminazione diretta od indiretta quanto al fattore religioso?
Si potrebbe anche dire indiretta, considerando ad es. che il criterio penalizza pure
una lavoratrice sottoposta a trattamenti sanitari oncologici…

Come che sia il giudice invece in tal caso dice che la discriminazione è diretta (Corte
di appello di Milano, sentenza del 4 maggio 2016). E questa qualificazione inziale
– si ripete – sovente risulta decisiva: perché a partire di lì si giunge ora più prevedi-
bilmente agli esiti. Quantomeno occorre in effetti registrare che quando il giudice
qualifica il pregiudizio come possibile discriminazione diretta, finisce assai più spes-
so con il riconoscere quest’ultima, dando ragione al lavoratore. Quando invece opta
per una considerazione come indiretta, nel caso della Corte di Giustizia analizzato
come in altri, può più frequentemente accadere l’inverso.

Certo anche in quest’ultima ipotesi, se la valutazione di proporzionalità risulta ne-
gativa per l’impresa, può essere riconosciuta la discriminazione. Nel caso da ultimo
indicato forse si sarebbe potuto qualificare il criterio come discriminatorio anche     47
a fronte di una considerazione quale indiretta, alla luce delle mansioni richieste e
del fatto che la fiera presso cui la lavoratrice avrebbe dovuto operare con il “capello
vaporoso” ben in vista era di calzature… e non di acconciature, per così dire.

Allo stesso modo può essere detto per la vicenda di cui si parlava in precedenza:
cioè quella di una lavoratrice esclusa da un concorso per vigili del fuoco per ragioni
di altezza. Dopo peraltro che la medesima aveva svolto per molti anni quelle man-
sioni come volontaria.

Mi pare infatti che il requisito introdotto, quello dell’altezza, assuma rilievo come
possibile discriminazione di genere di tipo indiretto, visto che statisticamente ed in
modo incontestato il criterio svantaggia le lavoratrici. Mentre il giudizio di propor-
zionalità secondo me andrebbe svolto considerando le mansioni richieste: queste
sono tali da rendere anche solo rilevante l’altezza? Parrebbe di no: e comunque si
può aggiungere che così non sia avvenuto nei numerosi anni in cui la lavoratrice
aveva già operato come vigile del fuoco.

Cosicché concluderei per la qualificazione discriminatoria. Aggiungendo che su ipo-
tesi analoghe ci sono pronunce anche risalenti: e che la vicenda mi pare in generale
meno complessa di quanto si possa dire a proposito del velo islamico.

Quindi anche a partire da una ipotesi di discriminazione indiretta non è precluso
giungere ad un esito favorevole alla lavoratrice. Però, nel confronto con la discrimi-
   nazione diretta, è senz’altro più raro che ciò accada: e comunque l’esito risulta assai
   più incerto.

   In definitiva le tensioni e connessioni con il mondo extra-giuridico, politico, cultu-
   rale, filosofico, religioso, ideologico, che le valutazioni sulla eguaglianza e la discri-
   minazione portano con sé si scaricano soprattutto su alcuni profili tecnici, la cui
   gestione genera in conseguenza notevole incertezza: innanzitutto quello della qua-
   lificazione come diretta od indiretta; poi appunto del bilanciamento vero e proprio
   tra ragioni del lavoratore danneggiato e della organizzazione di impresa.

   Allora ricapitolando oggi è molto importante la tutela antidiscriminatoria. Lo è sem-
   pre di più in generale, considerando le tendenze degli ordinamenti. Basti dire che
   negli Stati Uniti, in termini forse un po’ sommari ma non scorretti, il posto del dirit-
   to del lavoro è stato preso dal diritto antidiscriminatorio; che nell’Unione europea
   pressoché solo quanto alla tutela antidiscriminatoria, negli ultimi venti anni, è avan-
   zata la tutela dei lavoratori: sugli altri profili assistendosi invece ad un arretramento.
   Infine che in Italia la tendenza è analoga se, come già osservavo, praticamente solo
   in caso di licenziamento discriminatorio è rimasta la tutela piena del prestatore, che
   conduce alla reintegrazione nel posto di lavoro nonché ad un significativo risarci-
   mento dei danni.

   Quindi si sta affermando universalmente una idea secondo cui, in generale, l’impre-
   sa deve essere lasciata libera di prendere le decisioni che ritiene: mentre il lavorato-
48  re vada tutelato soprattutto o solamente a fronte di comportamenti discriminatori.

   Ma è realistico immaginare che la tutela funzioni in concreto, se si limita a com-
   battere le discriminazioni, senza poter contare su altre disposizioni e principi che
   indirizzino o vincolino l’imprenditore? Io ho molti dubbi. È difficile reagire alle di-
   scriminazioni in un sistema che appresta pure altri strumenti di protezione: figurarsi
   quando ciò non accade.

   D’altra parte l’accesso alla giustizia, in generale e più ancora nei casi di discrimi-
   nazione, risulta complesso. Sappiamo che oggi, a differenza che in precedenza, il
   lavoratore deve affrontare dei costi quando introduce una causa; sappiamo che se
   perde la causa il rischio di essere condannato alle spese è molto più elevato che in
   passato.

   Nel caso delle discriminazioni però si hanno ancora meno certezze di quanto in ge-
   nerale accada sull’esito della causa: e tale imprevedibilità condiziona molto la deci-
   sione di introdurla.

   Considerando poi anche le generali condizioni del mercato del lavoro, specie quan-
   do c’è crisi come adesso: le quali scoraggiano iniziative di tutela dei diritti, che po-
   trebbero generare difficoltà al prestatore quanto al permanere in una impresa od al
   trovare una nuova collocazione.

   Inoltre va ricordata la difficoltà, da sempre rilevata a proposito delle discriminazioni,
di affrontare una causa su iniziativa inpiduale. Ed in verità le cause sulle discri-
minazioni si diffondono quando può assumere l’iniziativa un soggetto collettivo e
quest’ultimo risulta forte ed organizzato.

Per inciso la Rete delle consigliere, quanto al fattore di genere, per le difficoltà an-
che logistiche di cui qui già si parlava, fa spesso fatica ad operare. Direi invece che
il soggetto più forte, determinato ed efficace, a fronte di discriminazioni, appare il
sindacato. Ma anche le cause di discriminazione etnica e per orientamento sessuale
talora mostrano interventi di soggetti collettivi esponenziali piuttosto agguerriti, ca-
paci di ottenere attenzione. Si tratta in effetti a mio avviso di un elemento decisivo
per la concreta fruizione della tutela.

Insomma la tecnica di tutela antidiscriminatoria risulta oggi decisiva, anche perché
rischia di essere una delle poche restanti. Ma questo non significa che sia di facile
impiego.

Infine voglio dedicare un cenno ad un tema già toccato da Stefania Scarponi.

Quanti sono i fattori discriminatori considerati dall’ordinamento? Di sicuro tutti
quelli menzionati dall’art. 15, legge 300/1970, dove trova posto l’insieme dei fattori
pure considerati dall’Unione europea: ad essi esattamente ed esclusivamente rinvia
la disciplina sul licenziamento discriminatorio sia del 2012 che del 2015, nel mo-
mento in cui prevede il diritto alla reintegrazione per il lavoratore.
                                              49
Io credo però che ce ne siano anche altri. Che cioè l’elenco dei fattori discriminatori
sia un elenco chiuso: però secondo me più vasto di quello compreso nel solo art. 15.

Di alcuni per la verità non si è mai occupato pressoché nessuno: cercando ad es. di
approfondirne il significato, anche nelle figure diretta ed indiretta. Così ad es. per il
patrimonio o la ricchezza, che comunque assumono rilievo secondo norme di diritto
internazionale.

Quali potrebbero essere allora gli altri fattori? Ce n’è intanto uno, che assume rilie-
vo centrale nei Trattati dell’UE ma, in conseguenza, non può non averlo anche per i
Paesi componenti. Se io licenzio un lavoratore perché è francese o polacco pongo in
essere una discriminazione? Il fattore della nazionalità di uno dei Paesi dell’Unione
europea non è nell’elenco dell’art. 15 ma posso sostenere che nel caso analizzato
non emerga una discriminazione, a fronte della quale garantire la reintegrazione a
questo lavoratore?

Altri fattori sono considerati in convenzioni dell’Oil, ratificate e quindi pienamente
vigenti nel nostro ordinamento. Potrei elencarli. Tra essi quelli appunto del patrimo-
nio e della ricchezza.

In altri casi l’argomentazione giuridica che potrebbe consentire una considerazione
è invece più complessa ed anche opinabile. A me pare in effetti rilevante sottoline-
are che il primo elenco da menzionare, nella gerarchia delle fonti, quando si parla
   di discriminazioni, è quello dell’art. 3, comma 1, della Costituzione: qui, accanto a
   fattori ben noti, viene rivolta attenzione pure alle “condizioni personali e sociali”,
   peraltro mai approfonditamente considerate nelle riflessioni nazionali.

   Certamente il significato da attribuire alla formula va ricostruito ed anzi delimitato:
   perché altrimenti risulterebbe troppo vasto per essere giuridicamente significativo.
   Ma io credo che, grazie a questo riferimento, sia possibile dare piena cittadinanza
   pure ad ulteriori ragioni discriminatorie: come ad es. quelle menzionate nell’art. 21
   della Carta di Nizza (dove si citano anche le caratteristiche genetiche e l’appartenen-
   za ad una minoranza nazionale).

   Poi certo sul piano politico capisco pure i rilievi critici di chi teme che, estendendo
   l’area dei fattori, si rischi di indebolire quelli storici.

   Occorre però anche comprendere che l’estensione di cui parlo non è solo accade-
   mica ed astratta: al contrario potrebbe portare con sé alcuni vantaggi concreti oggi
   tutt’altro che disprezzabili.

   Infatti in tal modo potrebbe essere assicurata ad un lavoratore la tutela “forte”, me-
   diante reintegrazione, in caso di licenziamento, ove si accolga una interpretazione
   dell’art. 15 costituzionalmente orientata, tale da estendere appunto l’area qui pre-
   figurata.

50  Ma anche nel caso in cui a tale esito non si riuscisse a giungere va osservato che
   l’atto del licenziamento, ove ritenuto discriminatorio, andrebbe in ogni caso qualifi-
   cato come nullo: ciò producendo il risultato oggi tutt’altro che banale dell’inefficacia
   del licenziamento e della permanenza del rapporto di lavoro. Non si avrebbe cioè
   diritto alla reintegrazione ma si otterrebbe comunque un risultato oggi tutt’altro che
   disprezzabile.

   Per cui dico meditiamo sulla questione del numero dei fattori rilevanti nell’ordina-
   mento.

   Una ultima osservazione su di una tendenza, pure presente in Cassazione, che in-
   vece può ostacolare una considerazione adeguata del fenomeno discriminatorio. Si
   sostiene infatti diffusamente, soprattutto a proposito dei licenziamenti per ragioni
   economiche, che in materia di organizzazione del lavoro le prerogative dell’impren-
   ditore non siano sindacabili.

   Ebbene questo può introdurre o rafforzare remore ad effettuare quella valutazione
   sulle scelte dell’imprenditore che il bilanciamento di cui parlavo porta sempre con
   sé: un altro problema per la concreta diffusione delle tecniche di tutela antidiscri-
   minatorie.
Licenziamento discriminatorio e ritorsivo

Scheda a cura di Patrizia Tullini*




La nozione di licenziamento discriminatorio. Le fonti.
1. Fonti nazionali:

• Art. 4, l. n. 604/66;
                                            51
• Art. 15 St. lav. (richiamato dall’art. 2, d.lgs. 23/15);

• Art. 3, l. n. 108/90 (richiamato dall’art. 18 St.lav. mod. ex l. n. 92/12).

2. Principali fonti europee:

• Dir. 54/2006/Cee - «Parità tra uomini e donne in materia di occupazione»;

• Dir. 78/2000/Cee (attuata dal d. lgs. 216/03)- «Parità di trattamento in materia
  di lavoro e condizioni d’impiego»;

• CGUE 22.5.2014, C-356/12: «la parità di trattamento sancita dall’art. 20 Carta
  di Nizza è principio generale dell’UE e il principio di non discriminazione di cui
  all’art. 21, par. 1, ne è una particolare espressione».




* Ordinaria di Diritto del lavoro, Università di Bologna.
   Quali sono i fattori di discriminazione vietati?

   In relazione al licenziamento - art. 4, l. n. 604/66:

   • credo politico;

   • fede religiosa;

   • appartenenza ad un sindacato, partecipazione ad attività sindacali.


   Art. 15 St. lav.:

   • politica;

   • religione;

   • razza;

   • lingua;
52
   • genere;

   • handicap;

   • età;

   • orientamento sessuale (Cfr. CGUe, Grande Sezione, 23 aprile 2020, C-507/18);

   • convinzioni personali (cfr. Cass. lav., 2 gennaio 2020, n. 1).


   In relazione al pieto di licenziamento per causa di matrimonio, Cass. lav. n.
   28926/2018 ha ritenuto legittima l’interpretazione ed applicazione dell’art. 35, d.
   lgs. n. 198/2006, laddove dispone che la nullità del licenziamento sia limitata alla
   sola lavoratrice: rilevando che “la previsione normativa, lungi dall’essere discrimi-
   natoria (perché non contempla il pieto di licenziamento del lavoratore per matri-
   monio, ndr), sia assolutamente legittima, in quanto rispondente ad una persità di
   trattamento giustificata”.
I fattori di discriminazione costituiscono un elenco chiuso o aperto?
Indirizzo giurisprudenziale che afferma una nozione di discriminazione «aperta e
non tassativa»:

• ai sensi dell’art. 3 Cost. (Cass. lav. 8927/2012);

• ai sensi dell’art. 14 CEDU e art. 21 Carta di Nizza (T. Civitavecchia 1.3.2018);

• ammessi fattori discriminatori «atipici»: ad es., il licenziamento in base al crite-
  rio della precedente collocazione in CIG del lavoratore (T. Bologna 17.12.2017).



I fattori di discriminazione “tipici”: è possibile un’interpretazione esten-
siva?
Alcuni casi esemplari e le incertezze della giurisprudenza:

• Il fattore «handicap»: il licenziamento discriminatorio del disabile per assenze
  reiterate a causa di malattia (CGUE 18.1.2018, C-270/16; 9.3.2017, C-406/15;
  18.12.2014 C-354/13; T. Roma, 12.3.2018).
                                             53
• Malattia oncologica: il licenziamento non è discriminatorio perché la malat-
  tia oncologica non è inclusa tra i fattori di discriminazione secondo T. Roma
  9.1.2017.

• Molestie e molestie sessuali: il licenziamento è discriminatorio perché le mole-
  stie sono assimilate per legge alla discriminazione per il fattore di genere.



Le deroghe legittime al trattamento discriminatorio
“Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza NON costituiscono
discriminazione le differenze di trattamento …. qualora per la natura dell’attività
lavorativa o il contesto nel quale viene espletata, costituiscano un requisito essen-
ziale e determinante».

Non costituiscono comunque discriminazione, le differenze di trattamento che, pur
risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da fi-
nalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari» (art. 3, co.
3-4, d.lgs. 215/03).
   Licenziamento discriminatorio e deroghe legittime: il caso dell’età
   CGUE, 19.7.2017, Abercrombie: l’art. 21 Carta Nizza e la dir. 78/2000 non ostano alla
   disciplina nazionale che consenta di stipulare un contratto di lavoro intermittente
   con lavoratore < 25 anni e di licenziarlo al superamento del limite d’età, perché
   «persegue una finalità legittima di politica del lavoro e gli strumenti legislativi sono
   appropriati e necessari”.

   Cass. lav. 21.2.2018, n. 4223, Abercrombie: «la deroga alla parità di trattamento nel
   lavoro (in entrata e in uscita) è giustificata dalla finalità di natura sociale».



   Ancora sul licenziamento discriminatorio per raggiunti limiti d’età e le
   sue deroghe
   • CGUE 7.2.2018 (ord.) e Cass. 15.5.2018 n. 12108: la cessazione automatica del
    rapporto di lavoro per raggiunti limiti d’età differenti per le donne (ballerine)
    integra una discriminazione diretta in base al genere, «alla quale non possono
    opporsi legittime deroghe per finalità d’interesse pubblico»;

54  • Cass. 30.5.2018, n. 13678: ha sollevato questione pregiudiziale avanti la CGUE
    per violazione del principio di non discriminazione per età nel caso di cessazio-
    ne automatica del rapporto di lavoro di pilota aereo ad un’età (60 anni secondo
    disciplina speciale) differente da altri piloti.



   Un leading case giurisprudenziale
   Il Datore di lavoro licenzia una lavoratrice più volte assente per sottoporsi a insemi-
   nazione artificiale: «non è un licenziamento discriminatorio, in quanto giustificato
   da motivo oggettivo di tipo organizzativo. Se vuole impugnare, la lavoratrice dovrà
   dimostrare l’esistenza di un motivo illecito unico e determinante».

   Il Giudice: «La discriminazione, a differenza del motivo illecito, opera obiettivamen-
   te, a prescindere dalla volontà illecita del datore».

   «Il licenziamento discriminatorio è nullo indipendentemente dalla motivazione ad-
   dotta e il fattore discriminatorio determina di per sé la nullità del licenziamento»
   (Cass. lav. n. 6575 del 2016).
Licenziamento discriminatorio vs. ritorsivo
Licenziamento discriminatorio è nullo:

• «indipendentemente dalla motivazione (formalmente) addotta»: art. 4, l. n.
  604/66; art. 3, l. 108/90; art. 2, co. 1, d. lgs. 23/2015.

Il licenziamento illecito o ritorsivo è nullo:

• solo se fondato su un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.
  (art. 18, co. 1, St. lav., mod. ex l. 92/2012);

• il motivo illecito è escluso in presenza di una concorrente e valida giustificazione
  del licenziamento (GC o GM) addotta dal Datore (Cass. lav. 14456/2017).



La prova del licenziamento discriminatorio
1. La prova a carico del lavoratore (art. 28, co. 4, d.lgs. 150/11):

• allegare il fattore di discriminazione e il nesso causale con il licenziamento (an-
  che se non appartiene alla categoria protetta ma ha una relazione con il ‘porta-      55
  tore’ del fattore di protezione: c.d. discriminazione associata);

• indicare il termine di comparazione (reale o potenziale);

• fornire elementi di fatto («precisi e concordanti») della presunzione di licenzia-
  mento discriminatorio;

• fornire eventuali dati statistici (ad es., relativi ai licenziamenti nell’azienda) inte-
  si in senso a-tecnico come «regolarità causali» che determinano una ragionevo-
  le probabilità di accadimento.

2. La prova contraria del Datore di lavoro circa la «insussistenza della discrimina-
  zione» (art. 28, co. 4, d.lgs. 150/11):

• in caso di discriminazione diretta: la prova della ragione non discriminatoria del
  licenziamento con un rilievo causale esclusivo; oppure allegare una deroga le-
  gittima prevista per legge;

• in caso di discriminazione indiretta: la prova dell’inesistenza della discrimina-
  zione perché esiste una causa giustificativa del licenziamento, perseguita con
  mezzi appropriati e necessari.

Il difetto o insufficienza della prova contraria resta a carico del Datore.
   Casi simili, ma soluzioni perse
   La discriminazione diretta rileva in modo oggettivo: il caso del licenziamento della
   lavoratrice per lingua e nazionalità (Trib. Milano, 19.12.2017).

   La discriminazione indiretta, ma sorretta da finalità legittime: il caso del licenzia-
   mento della lavoratrice mussulmana che rifiuta di togliere il velo (hijab) nonostante
   il regolamento aziendale di non ostentare simboli religiosi (CGUE, marzo 2017).

   Il licenziamento della lavoratrice affetta da handicap è legittimo se il datore di lavoro
   prova la sussistenza del giustificato motivo oggettivo: va esclusa la configurabilità
   della discriminazione in caso di licenziamento di una lavoratrice con handicap in
   forza della necessità di riduzione del personale di un’unità lavorativa e del pieto
   di recesso nei confronti dell’unica altra dipendente ex art. 54, comma 9, d.lgs. n.
   151/2001 (Cass. lav. n. 23338/2018).

   Cass. lav. 10 luglio 2020, n. 14790 ha sancito il seguente principio di diritto: “Non co-
   stituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso
   riservato alle categorie di lavoratori ex art. 8 della I. n. 68 del 1999, del requisito
   della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione,
   trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato
56
   legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, il disabile disoccupa-
   to rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla
   categoria dei disoccupati”.
Le azioni in giudizio: profili sostanziali e processuali
I casi di discriminazione di genere tra direttive europee e
ordinamento nazionale

Antonia Sara Passante*



La nostra Costituzione sancisce, all’art. 3 comma 1, che tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza,
di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Il pie-
to di diseguaglianze irragionevoli impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli
che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, che impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla
organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Tale norma fondamentale consacra il principio della uguaglianza formale e sostan-
ziale allo scopo di garantire la pari dignità degli inpidui non solo attraverso la pre-   57
visione del pieto di trattamenti differenziati sulla base di uno dei fattori espressa-
mente – ma non in via esaustiva – indicati nel primo comma, ma anche attraverso
l’adozione di “azioni positive” volte a rimuovere gli ostacoli che impediscano la rea-
lizzazione di un trattamento non discriminatorio.
Nel nostro Paese, parte dell’Unione Europea e del Consiglio di Europa, i principi e i
diritti fondamentali in materia di diritto antidiscriminatorio si rinvengono non solo
nella Costituzione, ma anche in fonti sovranazionali e internazionali, ed in particola-
re nel diritto dell’Unione europea e nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
(CEDU), fonti la cui interpretazione è riservata, rispettivamente, alla Corte di Giusti-
zia dell’Unione europea e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’Italia ha aderito al nucleo di valori fondamentali previsti dal Trattato sull’Unione
Europea, che all’art. 2 prevede: “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità
umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del
rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze.
Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal plura-
lismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e
dalla parità tra donne e uomini”, ed all’art. 3 punto 3 sancisce: “L’Unione combatte
l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione socia-
li, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti
del minore”.

* Avvocata giuslavorista del Foro di Bologna.
   Anche l’art. 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea contiene analo-
   ga disposizione, prevedendo che il Consiglio può adottare provvedimenti opportuni
   per combattere le discriminazioni, tra cui quelle fondate sul sesso.
   La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, entrata in vigore il 1° dicem-
   bre 2009, ha espressamente codificato, agli artt. 21 e 23, il principio di non discri-
   minazione fondata sul sesso nonché la parità tra donne e uomini che “deve essere
   assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retri-
   buzione”.
   A livello comunitario numerose direttive riguardano l’attuazione del principio del-
   le pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di
   occupazione e impiego (dal 2000 le direttive non si sono limitate infatti a vietare le
   discriminazioni, ma anche a garantire la pari opportunità in persi settori).
   In particolare, la Direttiva 2006/54/CE (recepita in Italia con il d.lgs. n. 5 del 2010),
   riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trat-
   tamento fra uomini e donne in materia di lavoro e impiego, ha accorpato le di-
   sposizioni preesistenti in materia di diritto antidiscriminatorio di genere in parte
   modificandole (tra queste, la storica Direttiva 75/117/CEE “per il ravvicinamento
   delle legislazioni degli Stati Membri relative all’applicazione del principio della pari-
   tà delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile” e la
   Direttiva 97/80/CE che, con riferimento ai casi di discriminazione di genere, ha indi-
58  viduato per la prima volta un regime agevolato dell’onere probatorio), imponendo
   agli stati membri di mantenere o adottare misure volte ad assicurare nella pratica
   la piena parità tra gli uomini e le donne nella vita lavorativa. La Direttiva include
   nell’ambito delle discriminazioni anche le molestie e le molestie sessuali e prevede
   l’adozione di strumenti di tutela in favore di chi lamenta discriminazioni al fine di
   evitare “atti di rappresaglia”.
   Si richiamano altresì la Direttiva 2010/41/UE, sull’applicazione del principio di parità
   di trattamento fra uomini e donne che esercitano un’attività di lavoro autonomo e la
   Direttiva 2000/78/CE (attuata nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 216 del 2003),
   che ha introdotto un quadro generale in materia di pieto di discriminazioni nel
   mondo del lavoro, tutelando “la parità di trattamento fra le persone indipendente-
   mente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’o-
   rientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro,
   disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discrimina-
   zione, in un’ottica che tenga conto anche del perso impatto che le stesse forme di
   discriminazione possono avere su donne e uomini” (art. 1, d.lgs. cit.).
   Poiché il diritto antidiscriminatorio ha una composizione variegata, ed è il risultato
   dell’intersecarsi di norme di diritto nazionale, di norme di recepimento di direttive
   comunitarie, di norme primarie UE (la Carta dei diritti fondamentali della UE) è fon-
   damentale sollecitare l’interpretazione conforme del diritto nazionale rispetto alla
   Costituzione e alle norme UE e/o CEDU rilevanti.
Il Giudice nazionale è infatti tenuto ad interpretare la normativa nazionale confor-
memente al testo e agli obiettivi delle direttive e ove non sia possibile pervenire
ad una soluzione ermeneutica conforme alle direttive il giudice potrà ricorrere allo
strumento della disapplicazione o del rinvio alla Corte Costituzionale1.
A livello nazionale la materia delle Pari Opportunità è stata riorganizzata con il d.lgs.
11 aprile 2006, n.198 (Codice delle Pari Opportunità), che ha raccolto in un unico
testo le perse disposizioni in materia. A seguito della approvazione della Direttiva
di riordino 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio vi è stato, con il
d.lgs. n. 5/2010, l’aggiornamento ed adeguamento della normativa nazionale ed in
particolare del Codice delle Pari Opportunità.
Il Codice delle pari opportunità, come novellato dal d.lgs. 5/2010, stabilisce, all’art.
25 comma 1, che costituisce discriminazione diretta, qualsiasi disposizione, criterio,
prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un
comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici
o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole
rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione ana-
loga. Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce che si ha discriminazione
indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di
un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori
dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività
lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo consegui-         59
mento siano appropriati e necessari.
L’art. 25, comma 2 bis del Codice delle Pari Opportunità offre una tutela rafforzata
collegata agli “status parentali”, stabilendo che costituisce discriminazione ogni trat-
tamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità
o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei re-
lativi diritti.
L’art. 26 comma 1 del Codice delle Pari Opportunità qualifica come discriminazio-
ni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavo-
ratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umi-
liante o offensivo; vengono qualificate altresì come discriminazioni (art. 26, comma
2) le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione
sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimida-
torio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Costituiscono inoltre discriminazioni, ai sensi dell’art 26, commi 2 bis e 3 Codice
delle Pari Opportunità, anche le ritorsioni conseguenti al rifiuto di comportamenti
costituenti discriminazione in base al sesso o molestia/molestia sessuale o per aver
rifiutato la sottomissione ed i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro.

1 Elisabetta Tarquini, “Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale”, Giuffrè Editore 2015.
   Per effetto dell’art. 1 comma 218 l. 205/207 (Legge Bilancio 2018) è stato aggiunto
   all’art. 26 del d.lgs. 198/2006 il comma 3-bis, secondo il quale “La lavoratrice o il
   lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per mo-
   lestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei pieti di cui al presente
   capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto
   ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condi-
   zioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamento ritorsivo o di-
   scriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di
   mansioni ai sensi dell’art. 2013 c.c., nonché qualsiasi misura ritorsiva o discrimina-
   toria adottata nei confronti del denunciante. Le tutele di cui al presente comma non
   sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la
   responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero
   la infondatezza della denuncia”.
   Le tutele contro le discriminazioni in ambito lavorativo riguardano sia l’accesso al
   lavoro (è il caso della mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per
   l’assunzione di determinate persone), sia lo svolgimento del rapporto di lavoro, e
   concernono, come evidenziato, anche il pieto di ogni forma di molestia e ritorsio-
   ne. La speciale azione di cui all’art. 38 CPO, di cui si dirà, è applicata in generale “alle
   condizioni di lavoro compresa la retribuzione” e dunque concerne anche i licenzia-
   menti per ragioni di genere. In tal senso si richiama l’art. 14 lett. c) della Direttiva
   2006/54.
60  Occorre a questo punto soffermarsi sulla normativa processuale partendo dalla con-
   siderazione che l’evoluzione normativa in materia processuale è correlata alla scelta
   del legislatore di affiancare alle nuove tutele di carattere sostanziale, introdotte nel
   nostro ordinamento per effetto del recepimento delle Direttive europee, adeguate
   e specifiche disposizioni processuali.
   Con la introduzione del d.lgs. n.150 del 2011 vi è stato il riordino e la razionalizza-
   zione delle molteplici fonti che regolavano i procedimenti in materia di discrimina-
   zione.
   L’art. 28 del citato d.lgs. prevede ora che tutte le controversie in materia di discrimi-
   nazioni debbano essere trattate con il rito sommario di cognizione.
   In particolare, il primo comma dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 riconduce a tale rito le
   controversie in materia di discriminazioni per motivi razziali, etnici, linguistici, na-
   zionali, di provenienza geografica o religiosi ex art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998 n.
   286; le controversie di cui all’art. 4 d.lgs. 215/2003 (discriminazione diretta o indi-
   retta a causa della razza o dell’origine etnica, in attuazione della Direttiva 200/43),
   di cui all’art. 4 del d.lgs. 216/2003 (discriminazione diretta o indiretta a causa della
   religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento
   sessuale in attuazione della Direttiva 2000/78), di cui all’art. 3 della l. 67/2003 (di-
   scriminazioni in danno delle persone con disabilità), di cui all’art. 55 quinques del
   d.lgs. 198/2006 (discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nell’accesso ai
   beni e servizi e loro fornitura).
Restano escluse, dunque, le controversie di cui agli artt. 36-41 del d.lgs. 198/2006
(Codice delle Pari Opportunità), relative alle discriminazioni di genere previste e
sanzionate dagli artt. 27 – 35 del d.lgs. 198/2006. Il processo per le discriminazioni
di genere è dunque disciplinato tuttora dal Codice P.O., che prevede sia una azione
a cognizione piena (inpiduale o collettiva) sia una azione speciale che ricalca lo
schema dell’art. 28 l. n. 300/1970.
L’art. 36 del d.lgs. 198/2006 prevede che “Chi intende agire in giudizio per la dichia-
razione delle discriminazioni poste in essere in violazione dei pieti di cui al capo
II del presente titolo, o di qualunque discriminazione nell’accesso al lavoro, nella
promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa
la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collet-
tive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, e non ritiene di avvalersi
delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il
tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, ri-
spettivamente, dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche
tramite la Consigliera o il Consigliere di Parità della Città metropolitana e dell’ente
di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente com-
petente.
Mentre il successivo art. 38 prevede che “qualora vengano poste in essere discrimi-
nazioni in violazione dei pieti di cui al capo II del presente titolo o di cui all’articolo
11 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, o comunque discriminazioni nell’ac-
cesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni      61
di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche
complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, su
ricorso del lavoratore o, per sua delega, delle organizzazioni sindacali, delle associa-
zioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della
Consigliera o del Consigliere di Parità della Città metropolitana e dell’ente di area
vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente competente,
il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comporta-
mento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie
informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere,
se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova
fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed
immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimo-
zione degli effetti”.
Trattasi di norma ad hoc per la tutela delle discriminazioni di genere, che, a diffe-
renza dell’art. 700 c.p.c., prescinde dal periculum in mora in quanto la valutazione
dell'urgenza è già stata fatta dal legislatore.
Quanto alla competenza per territorio, l’art. 28 comma 2 del d.lgs. 150/2011, all’evi-
dente scopo di agevolare la posizione del soggetto che lamenta la sussistenza della
discriminazione, prevede la competenza “del luogo in cui il ricorrente ha il domici-
lio”, facendo riferimento al soggetto, sia inpiduale che collettivo, che lamenta il
trattamento discriminatorio.
   L’art. 38 del d.lgs. 198/2006 attribuisce invece la competenza territoriale per l'azio-
   ne urgente inpiduale al Tribunale del luogo in cui si è verificato il comportamento
   discriminatorio denunciato (in termini analoghi alla disposizione di cui all’art. 28
   Statuto Lavoratori).
   Il comma 3 dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 introduce una speciale disposizione in tema
   di onere probatorio secondo la quale: “Quando il ricorrente fornisce elementi di
   fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esi-
   stenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di
   provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono
   essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle
   mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamen-
   ti dell’azienda interessata”.
   Analogamente, l’art. 40 del Codice delle Pari Opportunità prevede un meccanismo
   di distribuzione dell’onere probatorio “alleggerito” a favore della parte che denun-
   cia la discriminazione, stabilendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fat-
   to, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retri-
   butivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione
   in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la
   presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione
   del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discrimi-
   nazione”.
62
   La disposizione in esame non richiede il requisito della “gravità” degli elementi di
   fatto da addurre, ma solo la “precisione” e la “concordanza”.
   Nella interpretazione ed applicazione di tale disposizione non si potrà prescindere
   dalla peculiare normativa comunitaria sul punto: secondo l’art. 19 della Direttiva
   2006/54/CE del 5 luglio 2006 “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari,
   adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’in-
   sussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene
   leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto
   dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente,
   elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione
   diretta o indiretta”.
   La lettura della norma interna, dunque, dovrà tenere conto della esigenza fonda-
   mentale di “garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria”, considerata la “di-
   versità fattuale nella posizione iniziale delle parti interessate2”, poiché chi denuncia
   una discriminazione non ha normalmente “accesso a dati sufficienti per consentirgli
   di identificare le cause di una disparità di trattamento”3.

   2 M. Bonini Baraldi: “L’onere della prova nei casi di discriminazione: elementi per una concettualizzazio-
   ne nella prospettiva del diritto privato” in L. Calafà e D. Gottardi (a cura di), “Il diritto antidiscriminatorio
   tra teoria e prassi applicativa”).
   3 Sempre M. Bonini Baraldi: “L’onere della prova nei casi di discriminazione: elementi per una concet-
   tualizzazione nella prospettiva del diritto privato” in L. Calafà e D. Gottardi (a cura di), “Il diritto antidi-
La Suprema Corte ha così affermato che: “In tema di comportamenti datoriali discri-
minatori, l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 - nel fissare un principio applicabi-
le sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria,
promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un’inversio-
ne dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario,
prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art.
19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio
2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione,
ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti
anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamen-
tati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà
storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella
dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di
atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” (Cass. Sez. L, Senten-
za n. 14206 del 5 giugno 2013).
L’onere della prova del soggetto che allega di aver subito atti e/o comportamenti
discriminatori consiste dunque nella prova di fatti, comportamenti e circostanze in
termini precisi e coerenti tra loro, tali da rendere probabile e plausibile la sussisten-
za di una discriminazione vietata.
La parte che agisce in giudizio assumendo di aver subito una discriminazione dovrà
allegare e dimostrare “l’esistenza di un trattamento differenziato” in riferimento “al
tertium comparationis, rappresentato da un soggetto ritenuto comparabile, rispetto           63
al quale non si dia il fattore di protezione che si afferma leso”, con la precisazione
che il paragone potrà avvenire tra due situazioni attuali o potenziali tra loro analo-
ghe (ricorre infatti una discriminazione diretta quando, a causa del fattore protetto,
“una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata
trattata un’altra in una situazione”) e tenuto conto che “con le direttive di seconda
generazione il giudizio di relazione in cui consiste in generale l’accertamento della
discriminazione si dia, nelle discriminazioni dirette, in termini di confronto tra due
soggetti non necessariamente reali, il lavoratore comparabile… potendo essere un
soggetto ipotetico o non più esistente al momento del giudizio di comparazione4”.
Deve evidenziarsi che lo stato di gravidanza o il congedo per maternità non richie-
dono un “termine di paragone”, come più volte chiarito dalla Corte di Giustizia (CG
sentenza 8 novembre 1990 C-177/88, CG sentenza 14 luglio 1990, causa C-32/93) e
come previsto dall’art. 2 della Direttiva 2006/54, secondo il quale “ai fini della Diret-
tiva la discriminazione comprende… qualsiasi trattamento meno favorevole riserva-
to ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai
sensi della Direttiva 92/85/CEE”.
L’allegazione e la prova di elementi di fatto con le caratteristiche di precisione e con-
cordanza determina l’inversione dell’onere della prova.


scriminatorio tra teoria e prassi applicativa”).
4 Elisabetta Tarquini: “Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale”, Giuffrè Editore, 2015.
   Spetterà pertanto al convenuto, nei casi di discriminazione diretta, provare la ine-
   sistenza della discriminazione, allegando e dimostrando fatti specifici e oggettiva-
   mente verificabili dai quali si possa desumere l’esistenza di una causa di esclusione
   del pieto o una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, avuto ri-
   guardo a fatti obiettivi e verificabili sì da escludere la fittizietà delle ragioni addotte.
   Nei casi di discriminazione indiretta, nei quali la discriminazione non è nel tratta-
   mento (che è uguale) ma negli effetti, che possono essere “sproporzionatamente”
   pregiudizievoli nei confronti di un soggetto o di un gruppo di persone in correlazione
   con uno specifico fattore protetto, spetterà invece al datore di lavoro provare la ine-
   sistenza di una discriminazione o la esistenza di specifiche “cause di giustificazione”.
   Le fonti sovranazionali e le norme interne di recepimento attribuiscono un rilievo
   specifico, ai fini della prova, anche ai dati di carattere statistico “assunti come utili
   ad evidenziare, a fronte della apparente neutralità dei fatti o comportamenti censu-
   rati, lo svantaggio specifico derivato ai lavoratori interessati rispetto ad un gruppo di
   riferimento per il quale il fattore di protezione non si dia”5.
   I dati statistici rivestono un ruolo importante in particolare nelle controversie aventi
   ad oggetto ipotesi di discriminazione indiretta (ove assume rilievo, come evidenzia-
   to, l’effetto che una misura o pratica ha su determinati gruppi). In perse pronunce
   relative alla rimozione di discriminazioni di genere in ambito lavorativo si è fatto
   ricorso alla prova statistica: già con la sentenza della Pretura di Milano del 16 agosto
64  1991 si censurava la natura discriminatoria del criterio relativo al requisito minimo
   di altezza per l’ammissione al concorso di vigile urbano; e la Corte Costituzionale,
   con sentenza n. 163 del 15 aprile 1993, si pronunciava negli anni ’90 sempre in
   merito all’introduzione del requisito della statura minima indifferenziata per donne
   e uomini ai fini dell’accesso al ruolo tecnico del servizio anti-incendi (il limite posto
   all’altezza risultava discriminatorio nei confronti delle donne in quanto proporzio-
   nalmente più svantaggiate degli uomini a causa della loro statura media più bassa,
   mentre la statura non pregiudicava necessariamente la buona performance nelle
   mansioni attribuite al ruolo).
   Rientrando nella nozione di discriminazione anche le molestie, le molestie sessuali
   ed i trattamenti sfavorevoli che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una
   azione volta ad ottenere il rispetto delle disposizioni in materia di pieto di discrimi-
   nazioni, lo speciale regime della prova innanzi descritto troverà applicazione anche
   in tali ipotesi, dovendo perciò il datore di lavoro fornire una ricostruzione dei fatti
   necessariamente alternativa.
   Si richiama, in tal senso, Cass. Sez. Lavoro 15 novembre 2016 n. 23286, nella qua-
   le si sottolinea “l’equiparazione tra discriminazione di genere e molestie sessuali”,
   rinvenibile “oltre che nell’art. 26 comma 2 del d.lgs. 198/2006, anche nella nozione
   di molestie sessuali contenuta nell’art. 2 comma 1, lett. d), che a sua volta riprende
   ed estende il concetto di molestia come discriminazione già contenuto nell’art. 2


   5 Elisabetta Tarquini, “Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale”, Giuffrè Editore, 2015.
comma 3 della Direttiva 2000/78”.
Nella citata pronuncia la Suprema Corte rileva come correttamente i giudici di me-
rito abbiano ravvisato la “prova presuntiva delle molestie sessuali ai danni delle
due lavoratrici sulla base di plurime deposizioni che hanno riferito di molestie in
loro danno, poste in essere dal datore di lavoro subito dopo l’assunzione di giovani
lavoratrici”; tali deposizioni, peraltro, risultano “corroborate dalla prova statistica
fornita dall’Ufficio delle Consigliere di Parità della Regione, costituita da un serrato
turn over tra le giovani dipendenti assunte dal datore di lavoro, che dopo un breve
periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione”. Tale quadro è stato rite-
nuto idoneo a far “scattare” la inversione dell’onere della prova a carico del datore
di lavoro o comunque l’attenuazione dell’onere della prova gravante sulle lavoratrici
ex art. 40 del d.lgs. 198/2006.
La Suprema Corte sottolinea la “doverosità dell’applicazione anche al caso di specie
(ndr molestie sessuali) della regola probatoria di cui all’art. 40 cit.”, richiamando, ad
ulteriore conferma del proprio ragionamento, la sentenza della CG 17 luglio 2008,
C-303/06 (Coleman), nella quale si statuisce che “poiché le molestie (in generale)
sono una forma di discriminazione già ai sensi dell’art. 2 n. 1 della Direttiva 2000/78,
ad esse sono applicabili le stesse disposizioni in tema di onere della prova, nel senso
che, ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione
diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazio-
ne del pieto di discriminazione, fatto salvo il diritto degli stati membri di prevedere
disposizioni in materia di prova più favorevoli alle parti attrici”. Precisa la Suprema   65
Corte che sebbene la pronuncia “Coleman” riguardi una discriminazione per han-
dicap, “appare tuttavia chiaro quale sia l’orientamento della Corte di Giustizia in
un’altra ipotesi (molestie ai danni di disabile) di tertium comparationis integrato da
un trattamento differenziale meramente negativo (mancanza di analoghe molestie
ai danni dei non disabili)”.
Poiché le Direttive sui pieti di discriminazione impongono agli Stati membri di
introdurre il peculiare regime probatorio di cui si è detto al fine di dare effettiva
applicazione al principio di parità di trattamento, e tenuto conto che alle disposizio-
ni interne deve essere data una interpretazione conforme allo spirito e agli obietti
delle Direttive, consegue che la disciplina dell’onere della prova in materia di atti
e comportamenti discriminatori si applica indipendentemente dal rito prescelto, e
quindi anche quando il lavoratore che si affermi discriminato agisca in giudizio con
strumenti processuali persi da quelli di cui agli artt. 38 e ss del Codice delle Pari
Opportunità e di cui all’art. 28 del d.lgs. 150/2011.
Una volta assolto l’onere della prova in merito alla sussistenza di una discriminazio-
ne, i rimedi previsti dall’ordinamento sono sia ripristinatori che risarcitori.
Sotto il profilo ripristinatorio andranno eliminate le conseguenze delle violazioni.
Sotto il profilo risarcitorio occorre tenere conto che in materia di discriminazione
di genere l’art. 18 della Direttiva 2006/54 impone agli stati membri la introduzione
delle misure necessarie a garantire “un indennizzo o una riparazione reali ed effet-
   tivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionali al danno
   subito”.
   In termini analoghi anche l’art. 18 della Direttiva 2000/78, secondo il quale “le san-
   zioni che possono prevede un risarcimento dei danni devono essere effettive, pro-
   porzionali e dissuasive”.
   La Corte di Giustizia UE si è pronunciata sul tema, affermando nella causa C-81/12
   (Asociaţia Accept c. Consiliul Naţional) sulla applicazione dei principi della Direttiva
   2000/78 che “una sanzione meramente simbolica non può essere considerata com-
   patibile con un’attuazione corretta ed efficace della Direttiva”.
   Attribuendo le Direttive comunitarie al risarcimento del danno, quale strumento
   rimediale, i connotati di “effettività” con riferimento sia alla gravità del danno, sia
   alla funzione dissuasiva (e quindi sanzionatoria) della riparazione, ne consegue che
   ai fini della sua liquidazione dovranno essere considerarsi tutti i suddetti elementi.
   Certamente assumeranno specifico rilievo, sotto il profilo della gravità del danno, la
   durata e la intensità delle condotte discriminatorie, così come il carattere reiterato
   della violazione e la condizione di particolare debolezza e precarietà dei soggetti
   danneggiati, sempre tenendo fermo il principio che la discriminazione è di per sé
   atto lesivo della dignità umana.
   Sulla funzione dissuasiva e non meramente compensativa del danno si osserva che
   l’art 28, comma 6 del d.lgs. 150/2011 prevede che il giudice debba tenere conto,
66
   in fase di liquidazione, del fatto che l’illecito possa aver costituito una ritorsione ad
   una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di
   parità di trattamento. Partendo dal presupposto che il danno provocato da una di-
   scriminazione per ritorsione non sarà di per sé necessariamente maggiore del dan-
   no provocato da condotte attuate per ragioni non ritorsive, si coglie che il perso e
   “maggiore” apprezzamento richiesto al Giudice deriva proprio dal riconoscimento
   di una funzione “sanzionatoria”/”deterrente” del danno.
   La prospettiva anche dissuasiva del risarcimento del danno si coglie, inoltre, nel
   riconoscimento, nel nostro ordinamento, dell’azione collettiva degli organismi por-
   tatori dell’interesse leso dalla discriminazione, cui è attribuita anche la possibilità di
   richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.
   Si richiama in argomento l'orientamento giurisprudenziale più recente, secondo cui
   accanto alla “preponderante e primaria funzione compensativa e riparatoria” del
   risarcimento del danno, si riconosce anche una “natura polifunzionale che si proiet-
   ta verso più aree” tra cui le principali sono quella preventiva e quella sanzionatoria
   punitiva (Cass. Sez. Un. 16601/2017).
   Si osserva, infine, che vi sono perse disposizioni del nostro ordinamento che van-
   no nel senso di riconoscere una funzione anche “deterrente” alla “responsabilità
   civile”: si pensi all’art. 709-ter c.p.c., all’art. 614 bis c.p.c. ed ancora all’art. 96 com-
   ma 3 c.p.c.
Casi discriminazione di genere tra direttive europee e ordinamento na-
zionale
La Corte di Giustizia si è in perse occasioni soffermata sul tema della parità di trat-
tamento dei lavoratori part time sotto il profilo della protezione contro le discrimi-
nazioni indirette di genere.

È il caso della pronuncia C-385/11 del 22 novembre 2012, nella quale si afferma che
la Direttiva 79/7/CEE del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del
principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza
sociale, deve essere interpretato nel senso che “osta, in circostanze come quella og-
getto del procedimento principale, ad una normativa di uno Stato membro che esiga
dai lavoratori a tempo parziale, costituiti in grande maggioranza da donne, rispetto
ai lavoratori a tempo pieno, un periodo contributivo proporzionalmente maggiore
ai fini della concessione della eventuale pensione di vecchiaia di tipo contributivo, il
cui importo è proporzionalmente ridotto in funzione del loro tempo di lavoro”.

Ed è il caso, ancora, della pronuncia della Corte di Giustizia C-98/15 del 9 novembre
2017, relativa alla indennità di disoccupazione per i lavoratori in regime di part time
verticale, e quindi sempre afferente il settore della sicurezza sociale.

In fattispecie relativa a discriminazioni di genere e molestie (rivolte in particolare
ad una giovane lavoratrice, licenziata per asserita giusta causa), si richiama Corte     67
d’Appello di Bologna, sentenza del 25 marzo 2014, secondo la quale “le allegazioni
della lavoratrice, confermate dalle prove testimoniali, dimostrano una condotta del
sig….. legale rappresentante della società datoriale, atta ad integrare le molestie.
La continua vicinanza del predetto alla sig.ra …. durante il lavoro, l’uso di nomignoli
e vezzeggiativi, il rifiuto opposto alle richieste della dipendente di cambiare turno,
le insistenti proposte di frequentazione al di fuori del lavoro e le avances riferite,
anche se de relato, dalle …, rivelano un comportamento che appare indesiderato
dal punto di vista della lavoratrice e oggettivamente lesivo della dignità della stessa.
L’indesideratezza si ricava dalle lamentele della lavoratrice con le colleghe, spesso
accompagnate da crisi di pianto, dalla reazione di quest’ultima nell’episodio del….
e dalla mancata accettazione delle proposte e delle avances, desumibile dalla com-
plessiva condotta delle parti, in assenza, peraltro, di perse allegazioni e prove da
parte datoriale” . Secondo la Corte dall’intero corredo probatorio è emerso il grado
di lesione della dignità della lavoratrice “ostacolata nella possibilità di svolgere sere-
namente il proprio lavoro e di mettere alla prova le proprie capacità e competenze,
tutto ciò per ragioni connesse al sesso, con conseguenze negative anche nei rappor-
ti con i colleghi, inevitabilmente destinatari degli effetti delle condizioni lavorative
stressanti in cui la stessa si trovava ad operare. Gli elementi di prova finora esami-
nati permettono di ritenere ampiamente assolto l’onere gravante sulla lavoratrice di
fornire, ai sensi dell’art. 40 d.lgs. 189/06, elementi di fatto relativi al licenziamento,
idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti
o comportamenti integranti molestie-discriminazioni in ragione del sesso, laddove
   parte datoriale in nessun modo ha assolto al proprio onere probatorio in ordine alla
   insussistenza delle molestie oppure alla riferibilità delle stesse a fattori persi da
   quelli protetti. Anzi, la acclarata assenza di giusta causa del recesso costituisce forte
   elemento presuntivo a sostegno del carattere discriminatorio dello stesso”.

   È a tutti noto che le discriminazioni più ricorrenti sono quelle che maturano in occa-
   sione della maternità, della paternità ed in generale della assunzione di responsabi-
   lità genitoriali. Si segnalano alcuni precedenti sul tema.

   Con sentenza del Tribunale di Ferrara n. 14 del 25 marzo 2019 resa in controversia
   proposta da una lavoratrice destinataria di una duplice protezione normativa sia in
   quanto lavoratrice madre, sia in quanto lavoratrice genitore di un minore disabile,
   ed avente ad oggetto la richiesta di assegnazione di orari di lavoro compatibili con
   le esigenze di cura della minore disabile ed il risarcimento del danno conseguente
   alle condotte discriminatorie subite, si è ritenuto che la “non corretta” gestione dei
   turni di lavoro fosse esemplificativa di una discriminazione indiretta, tenuto conto
   dei fattori protetti dall’ordinamento di cui risultava portatrice la lavoratrice.

   Il Giudice ha evidenziato come nella fattispecie venisse in rilievo da un lato la posi-
   zione di protezione collegata all’art. 37 Costituzione e all’art. 25 comma 2 bis del d.l-
   gs. 11.4.2006 n. 198, secondo il quale “costituisce discriminazione, ai sensi del pre-
   sente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza
   nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità
68
   o dell’esercizio dei relativi diritti”; dall’altro, la tutela offerta ai lavoratori disabili e a
   coloro che se ne prendono cura di cui al d.lgs. 216/2003, volto ad attuare la “parità
   di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni
   personali, dagli handicap”.

   Il Tribunale, richiamata la regola processuale secondo la quale “Quando il ricorrente
   fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si
   può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al
   convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione (comma 4 art.28
   l. 150/2011)”, rileva che l’orario di lavoro imposto alla lavoratrice al rientro dalla
   seconda maternità “costituisce una chiara esemplificazione di comportamento di-
   scriminatorio in ragione dello stato di lavoratrice madre ed in ragione dell’handicap
   della figlia minore”, sottolineando che “trattare in maniera identica agli altri lavo-
   ratori in punto di orari e turni di lavoro una persona in difficoltà e doppiamente
   protetta dall’ordinamento, sia in ragione della maternità sia in ragione dell’inabilità
   del figlio, significa operare una discriminazione indiretta perché una decisione da-
   toriale, apparentemente neutra e che si dice gravare su tutti, pone la lavoratrice in
   una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori a tempo pieno.
   Se viene evidenziata, così come è stata evidenziata ripetutamente, una situazione di
   difficoltà e disagio per la nascita di un neonato con handicap, lasciare immutato l’o-
   rario di lavoro a fronte di una richiesta di ammorbidimento in ragione dell’handicap,
   significa trattare allo stesso modo una situazione profondamente persa e persa
in ragione dell’esistenza di un minore con handicap da accudire. Si ritiene quindi
che il diniego dell’azienda di trovare un accomodamento sull’orario di lavoro sia
l’espressione di una discriminazione indiretta perché un orario, pure accettato dalla
lavoratrice prima dell’evento e quindi un atto apparentemente neutro, mette la ma-
dre di figlio con handicap in una particolare situazione di svantaggio rispetto ad altri
lavoratori, che pur seguendo orari simili, non hanno un figlio minore con handicap.”

Sotto altro profilo, dopo aver evidenziato che “il risarcimento del danno di natura
non patrimoniale evocato dalla parte riguarda il patimento sofferto per non avere
potuto accudire la propria figlia minore a sufficienza, per non averla potuta fre-
quentare e stimolare nei momenti in cui la stessa era libera dagli impegni scolasti-
ci, fatto che può riconoscersi come conseguenza del comportamento datoriale”, il
Giudice determina il danno in euro 20.000,00, come richiesto dalla lavoratrice, “in
considerazione dell’ampiezza del periodo in cui la discriminazione è avvenuta e del-
le continue disattese sollecitazioni ad ammorbidire l’orario, nonché le assegnazioni
al lavoro domenicale quando già era stata manifestata la non disponibilità”.
Con decreto ex art. 38 del d.lgs. 198/2006 emesso dal Tribunale di Bologna in data
18 luglio 2011 in controversia avente ad oggetto la denuncia di comportamenti di-
scriminatori riservati ad una lavoratrice madre al rientro in servizio dopo la mater-
nità e nel periodo di fruizione dell'allattamento il Giudice, dopo aver premesso che
il datore di lavoro aveva posto in essere condotte in violazione dell’art. 25 comma
2-bis d.lgs. n. 198/2006, secondo cui “Costituisce discriminazione, ai sensi del pre-      69
sente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza,
nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e
dell’esercizio dei relativi diritti”, ed in violazione di quanto stabilito dall’art. 56 d.lgs.
n. 151/2001, in forza del quale: “Al termine dei periodi di pieto di lavoro previsti
dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo
che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano
occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comu-
ne, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì
diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti,
nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti
dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare, che sarebbero loro
spettati durante l’assenza”, ha dichiarato la natura discriminatoria delle condotte
datoriali consistite nella dequalificazione professionale, nel pagamento in costan-
te ritardo delle retribuzioni (avvenuto solo nei confronti della lavoratrice madre),
nell’aver proposto solo alla lavoratrice la riduzione dell’orario di lavoro con il man-
tenimento in mansioni dequalificanti o in alternativa il trasferimento ad altra sede
di lavoro quale condizione per mantenere il ruolo professionale; ha quindi ordinato
la cessazione di dette condotte e la restituzione della lavoratrice alle mansioni, al
ruolo e alla posizione professionale ricoperta precedentemente alla sua assenza per
maternità, condannando altresì la società al risarcimento del danno non patrimo-
niale quantificato in euro 22.500,00.
   Il Tribunale ha ritenuto che “nella quantificazione del danno non patrimoniale è ne-
   cessario procedere secondo un criterio equitativo, avendo contezza della gravità del
   danno e del pregiudizio arrecato alla vittima, della intensità dell’elemento psicologi-
   co alla base del comportamento dell’autore della discriminazione, nonché del setto-
   re e del contesto in cui si è verificato il fatto. Nel caso in esame sembrano sussistere
   tutti gli elementi che possono legittimare una liquidazione del danno in termini non
   meramente simbolici. La lavoratrice, infatti, ha subito un demansionamento che si
   è tradotto sia in un danno alla professionalità acquisita, sia un danno alla immagi-
   ne…”; secondo il Giudice assumono specifico rilievo, anche la durata delle condotte
   discriminatorie (oltre un anno) e “l’esistenza di un clima di ostilità e di insofferenza
   verso la lavoratrice rientrata dalla maternità”.

   Sulla fondamentale distinzione tra licenziamento ritorsivo e licenziamento discrimi-
   natorio si richiama la pronuncia della Suprema Corte n. 6575 del 5 aprile 2016, nella
   quale si sottolinea che mentre nel licenziamento ritorsivo il motivo di “rappresaglia”
   deve essere l’unico ad aver determinato il recesso, nel licenziamento discriminato-
   rio la discriminazione opera obiettivamente, in ragione del trattamento deteriore
   riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e
   a prescindere dalla volontà illecita (e del motivo) del datore di lavoro.

   La discriminazione, infatti, discende direttamente dalla violazione di norme interne
   e sovranazionali, così che la eventuale concorrente motivazione del datore di lavoro
70  non esclude di per sé la discriminazione (si legge in particolare nella pronuncia: «la
   normativa nazionale ove interpretata nel senso di consentire una discriminazione
   diretta fondata sul sesso per la concorrenza di un’altra finalità, pur legittima (nella
   specie il dedotto motivo economico) sarebbe contraria alla Direttiva»).
Istruzioni per il buon uso della giurisdizione contro le
discriminazioni

Carlo Sorgi*



Desidero in primo luogo ringraziare chi ha organizzato questo corso, la Consigliera
Regionale di Parità Sonia Alvisi ed i rappresentanti delle CPO degli ordini della
Regione Emilia-Romagna.
Spero con il mio intervento di poter offrire un apporto utile in termini di perso
angolo visuale, integrando cioè la prospettiva con l’aggiunta di quello del giudicante
in una materia tanto delicata e importante come quella delle discriminazioni, in
particolare quelle di genere. Sarò per voi una specie di contrappunto. Spero che
questo determini un valore aggiunto della mia relazione perché servirà a riflettere
anche con altra visuale e questo auspico possa servire ad aumentare l’efficacia del
vostro impegno professionale.
                                                     71
La prima considerazione che mi viene in mente nella materia è l’esiguità della
risposta giudiziaria al tema. So di aprire con delle sollecitazioni che possono
apparire polemiche ma ritengo che tutti noi se vogliamo essere utili, un pugno
nello stomaco nei confronti della discriminazione, e questo è sicuramente nelle
intenzioni comuni, dobbiamo essere molto franchi. Conoscendo la diffusione e la
gravità di fenomeni discriminatori nei confronti del genere femminile nell’ambito
del lavoro (intendendo per discriminazione il concetto più lato che ricomprende
anche i fenomeni delle molestie1, fini alle ipotesi del mobbing che comunque
contengono aspetti chiaramente discriminatori) mi chiedo perché le nostre aule
vedano così raramente giudizi che hanno come petitum la richiesta della tutela
contro pratiche discriminatorie. Eppure le condizioni per favorire questo tipo di
azioni ci sono. Il tessuto normativo, così ben descritto nell’intervento dell’Avvocata
Sara Passante che mi ha preceduto, offre possibilità di intervento adeguato per
affrontare le manifestazioni di discriminazione che nel tempo incontriamo anche
modificate ed aggiornate. Ad esempio l’ultima frontiera della discriminazione alla

1 Art. 26 d.lgs. 198/2006: 1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei
comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto
di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante o offensivo; testo che richiama l’art. 3, 3 della Dir. 2000/78/CEE.

* Presidente sezione lavoro Tribunale Bologna.
   quale assistiamo è quella dell’assunzione con livello inferiore rispetto quello effettivo
   corrispondente all’attività lavorativa femminile per rispettare a livello formale il dato
   della retribuzione costringendo la lavoratrice ad accettare una tale situazione. Dico
   per altro alla quale assistiamo in termini di “tradizione orale” perché nelle aule di
   giustizia, almeno nella realtà bolognese, queste forme di sopruso non sono arrivate.
   Purtroppo da questo punto di vista stiamo assistendo ad un depotenziamento delle
   strutture ispettive, almeno così interpreto io la riforma intervenuta nel 2017 con la
   creazione dell’Agenzia dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, autonoma oggi rispetto
   al Ministero del lavoro, vedremo cosa diranno i fatti sul punto.

   Altro è il discorso delle sanzioni conseguenti comportamenti discriminatori, aspetto
   veramente problematico che deve essere affrontato in un contesto più generale
   della cultura del danno e del suo risarcimento2.
   Sta a noi, a tutti noi, alle Consigliere di Parità ed agli avvocati fare in modo che questi
   fenomeni siano denunciati per porre un argine agli stessi. Da questo punto di vista
   potrei definire il mio intervento come promozionale, io sono qui per spingervi a fare i
   processi. Voi dovete farli perché se vogliamo che le cose cambino dobbiamo contare
   anche sull’apporto della giurisdizione. Dobbiamo realizzare che solo azionando
   i propri diritti questi possono essere affermati in un contesto problematico come
   quello odierno del lavoro dove purtroppo assistiamo sempre più alla prevalenza
   del mercato sui diritti. Vieppiù nei confronti dei soggetti più deboli e nel mercato
   il soggetto debole è la donna che subisce una serie di ricatti per la sua condizione
72
   di fragilità dovuto al ruolo nella società e nella famiglia3. Bisogna azionare i propri

   2 In Italia l’art. 18 Dir. 2006/54/CE (“Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici
   nazionali le misure necessarie per garantire, per il danno subito da una persona lesa a causa di una
   discriminazione fondata sul sesso, un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi
   stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito”) è stato recepito in termini
   minimalisti dall’art. 38 d.lgs. 198/2006 nel quale si parla di “risarcimento del danno anche non
   patrimoniale, nei limiti della prova fornita” e si capisce che in tema di danno non patrimoniale il giudice
   italiano si trova in estrema difficoltà in particolare per la sua liquidazione.
   Nel nostro paese il controllo del rispetto delle normative a tutela delle condizioni di lavoro è affidato
   all’Ispettorato Nazionale del Lavoro che interviene per verificare e eventualmente sanzionare
   comportamenti illegittimi. Le sanzioni previste in caso di inottemperanza ai pieti di discriminazioni
   di cui al ricordato d.lgs. 198/2006, per altro, non hanno un titolare della segnalazione indicato con la
   dovuta chiarezza. Questo determina che fuori dalle ipotesi di reato e a parte contatti con le Consigliere
   di Parità (figura istituita per la promozione e il controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza
   di opportunità e di non discriminazione tra uomini e donne nel mondo del lavoro) le situazioni non
   vengono segnalate e/o sanzionate, determinando come conseguenza la difficoltà delle lavoratrici
   discriminate nel rivolgersi agli ispettori del lavoro per essere tutelate e resistenze a rivolgersi al
   giudice del lavoro per i profili evidenziati (ci sono stati casi di risarcimenti tendenzialmente simbolici in
   mancanza di parametri di riferimento).
   3 In termini di stretta attualità, mentre scrivo queste note, nel 2020 abbiamo assistito all’esplosione del
   Covid con tutte le conseguenze in termini sanitari e di ricadute sul tessuto economico del nostro paese
   e dell’economia mondiale. Anche in questo caso le conseguenze più pesanti le stanno pagamento le
   donne. Sul tema rinvio in generale all’articolo di A. Perulli “Il lavoro ai tempi della pandemia”, maggio
   2020, rivista Il Mulino, e sullo specifico femminile “Quale lavoro femminile al tempo del Covid-19?
   Fase 2: ritorno al passato” di Clelia Alleri, Mara Congeduti, Sabrina Pittarello, Francesca Stangherlin,
   avvocate giuslavoriste del Foro di Bologna, Questione Giustizia, giugno 2020.
diritti e in particolare in situazioni favorevoli e da questo punto di vista, lo dico
con consapevolezza e anche con orgoglio, la nostra regione Emilia-Romagna ed in
particolare la circoscrizione territoriale del Tribunale di Bologna costituiscono una
realtà dove il tessuto sociale tiene ancora: pensate soltanto a quello che stiamo
a fare adesso qui noi, guardate che è bellissimo, capite che veramente ci sono in
questo contesto le possibilità per impegnarsi e realizzare risultati positivi.
Pensiamo ai tempi della giustizia che nella nostra realtà sono tempi “europei”, anzi
che forse l’Europa addirittura ci invidierebbe, ed anche in termini di sensibilità la
stessa mi sembra abbastanza alta.

Altro aspetto che ritengo sia di grande aiuto in termini di effettività della tutela è
quello della competenza funzionale del giudice del lavoro in tutta questa materia. Su
questo punto importante la Corte di Cassazione è intervenuta anche recentemente,
mi riferisco all’ordinanza n. 3936/20174. Nel caso in esame la Corte di Cassazione
rafforza la sua lettura possibilista sulla competenza funzionale del giudice del lavoro
in materia antidiscriminatoria con la considerazione che il caso concreto riguardava
un rapporto di lavoro. E l’ambito lavorativo sussiste non soltanto quando parliamo
del rapporto cristallizzato da un contratto, tra imprenditore e lavoratore per
intendersi, ma anche quando a molestare, a discriminare sia un collega di lavoro,
con il quale la lavoratrice non ha un rapporto contrattuale (situazione riconducibile
all’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c.) che potrebbe essere alla base della competenza
funzionale richiamata, perché il contesto lavorativo appare idoneo a spiegare i
                                                       73
suoi effetti in termini di competenza funzionale (penso all’ipotesi di mobbing nel
quale la lavoratrice molestata agisce nei confronti del collega che con le forme del
c.d. mobbing orizzontale) che attrae la materia, senza per altro dimenticare che
in situazioni del genere è buona regola avere come riferimento l’art. 2087 c.c. in
termini di dovere del datore di lavoro di assicurare la salute del proprio dipendente
in termini di tutela dell’integrità fisica e personalità morale.

Io ritengo che la chiave di lettura della decisione ricordata della Corte di Cassazione
sia da ricercare nella particolare capacità di ascolto del giudice del lavoro. La
dimostrazione di quanto dico la posso fornire utilizzando quello che da sempre
è stato un mio cavallo di battaglia cioè il mobbing. Non parlo fuori dal seminato
perché la discriminazione capita sia alla base di questo fenomeno. Pensate al caso
del lavoratore che deve agire per far riconoscere una situazione di mobbing subita
e non potrà che chiamare a conforto della propria richiesta la testimonianza dei
colleghi di lavoro che hanno assistito ai fenomeni denunciati. Se volesse agire nei
confronti di un collega e non del datore di lavoro, come abbiamo visto questo è
possibile, astrattamente dovrebbe rivolgersi al giudice civile (addirittura nella

4 “Quanto al rito, il procedimento, si è detto, è regolato dalle forme degli art. 702 bis c.p.c. e segg.,
con le variazioni dettate dalle norme generali di cui al d.lgs. n. 150 del 2011, artt. 3, 4 e 5 e da quelle
speciali contenute proprio nell’art. 28. L’inpiduazione in concreto del giudice ben può dipendere
dalla ripartizione interna di un determinato ufficio, essendo anche ipotizzabile che le cause d.lgs. n.
150 del 2011, ex art. 28, siano trattate dal giudice del lavoro”.
   prime cause di mobbing si scindevano le cause se il mobbizzato si rivolgeva sia
   nei confronti del collega che nei confronti del datore per mancato controllo) con
   conseguenze catastrofiche in termini di tempi per la decisione , ma quello che più
   conta è la capacità di ascolto che è tipica del giudice del lavoro. Pensate che sempre
   il giudice del lavoro si trova a dover decidere cause nella quale i testimoni sono
   essenzialmente altri lavoratori, certamente non estranei alla causa, ed è inutile
   evidenziare la particolare situazione, quasi da Giano bifronte, nella quale si viene a
   trovare il soggetto stretto nella morsa della solidarietà con un collega e la tutela del
   proprio posto di lavoro, che potrebbe essere a rischio in caso di dichiarazioni non
   favorevoli alla posizione datoriale. Si tratta di un dilemma dirompente. Se si entra in
   questo contesto come un elefante in una cristalleria si rompe tutto, astrattamente si
   corre il rischio di dover sempre mandare gli atti al Pubblico Ministero per l’ipotesi di
   falsa testimonianza, che comprende anche la reticenza, ma questo non ha senso. Il
   giudice del lavoro è la figura della giurisdizione assolutamente più vocata per queste
   situazioni, per la sua particolare sensibilità, formatasi nella capacità di comprendere
   l’estrema fragilità alla base delle stesse, e quindi fare tesoro di questa esperienza
   e questa peculiare capacità di ascolto (non a caso noi facciamo questo che amo
   definire un mestiere che si attacca alla nostra pelle). Difficilmente noi giudici del
   lavoro smettiamo di svolgere questo ruolo, prima di tutto perché è bellissimo e poi
   perché ci affiniamo in questa sensibilità che ci consente di affrontare processi così
   delicati e difficili che se affidati ad altri magistrati senza questa particolare esperienza
74  e sensibilità rischierebbero, oltre che di durare in termini indefiniti ,di perdere la
   capacità di comprendere il significato delle offese alla dignità della persona del
   lavoratore anche soltanto con uno sguardo, anche soltanto con dei comportamenti
   che in sé non sarebbero illegittimi ma inseriti ad esempio in un particolare contesto
   mobbizzante (quello che si definisce il valore aggiunto di questa figura) pentano
   caselle di quella strategia espulsiva richiesta per la realizzazione della fattispecie.
   Per i motivi descritti, agendo quasi con una forma preoccupante di auto-lesionismo,
   vi dico che indubbiamente non può che essere il giudice del lavoro quello deputato
   a tutta la materia anti-discriminatoria, di questo ne sono convintissimo. Avere
   l’esperienza nell’affrontare situazioni nelle quali si cammina a volte su uno strato
   di ghiaccio sottile che può rompersi con estrema facilità è elemento fondamentale
   per dedicarsi alla materia che vede nell’offesa alla persona donna in quanto tale la
   caratteristica determinante.

   Tutto il contesto acquista per me un ulteriore interesse perché ci troviamo a parlare
   del danno e del suo risarcimento.
   La tematica del danno è quella che nel diritto civile appare la più vitale, in continua
   evoluzione al passo con l’affermazione e la realizzazione dei principi costituzionali
   di solidarietà, in particolare per il lavorista i collegamenti molteplici della nostra
   materia alla Costituzione e le prospettive risarcitorie connesse con tali valori
   fondamentali fanno della materia del danno un sistema in continua evoluzione
   e grande potenzialità di ristoro nel sistema generale che, come detto, appare
complessivamente virare più su visuali connesse al mercato che ai diritti5. Ci vuole
coraggio e fantasia, per trovare nuove strade di tutela dei soggetti deboli e indicarne
i riferimenti costituzionali alla base delle pretese di tutela. Una storia quella del
danno piena di queste prerogative, partendo dal danno alla salute, prima esclusiva
creazione giurisprudenziale per lungo tempo6, fino al danno c.d. esistenziale che
esplicita il diritto ad una esistenza dignitosa previsto dalla Costituzionale7. Per una
definizione della materia in termini giurisprudenziali dobbiamo attendere le famose
sentenze di San Martino8. Sempre in questo spirito di ricerca della massima aderenza
allo spirito della nostra Costituzione assistiamo ad ulteriori evoluzioni, penso per
tutte al c.d. danno punitivo che tanto spaventa le compagnie di assicurazione ma
che vista nell’ottica della Corte di Cassazione, che recentemente è intervenuta con
parole mirabilmente lucide, pacate e al tempo stesso aperte, determina un ulteriore
sviluppo che nel nostro specifico settore può assumere una valenza davvero
straordinaria. In estrema sintesi con la sentenza n. 16601/2017 le sezioni Unite della
Corte di Cassazione hanno affermato che accanto alla preponderante e primaria
funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la
deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una
decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali
sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva,
richiamando sul punto il già ricordato art. 28 d.lgs. 28/2011 sulle controversie in
materia di discriminazione, che dà facoltà al giudice di condannare il convenuto
al risarcimento del danno tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento                75
discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero
ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere
il rispetto del principio della parità di trattamento. Continua in termini precisi la
sentenza che ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione
legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25),
che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude
un incontrollato soggettivismo giudiziario. Questo inquadramento del tema illumina
la questione della compatibilità con l’ordine pubblico di sentenze di condanna per
punitive damages9.

5 Basti pensare che nel Codice civile sul tema del danno non patrimoniale c’era un solo laconico articolo,
il 2059, e anche sul danno extra-contrattuale l’unica regola si ricavava sostanzialmente dall’art. 2043 in
un contesto tutto segnato dalla contrattualizzazione dei rapporti tra soggetti.
6 Il primo riferimento esplicito al danno biologico lo troviamo solo con il TU Inail 38/2000.
7 Il danno esistenziale è definibile come il danno arrecato all’esistenza, cioè quel danno che si traduce
in un peggioramento della qualità della vita, pur non essendo inquadrabile nel danno alla salute. Si
comincia a parlare di questa figura, a partire dalla fine degli anni ‘90, grazie al Professor Paolo Cendon
al quale dobbiamo la diffusione e lo studio del concetto di danno esistenziale.
8 Nel 2008, con la sentenza n. 26972 e le tre gemelle 73, 74 e 75 la Cassazione a Sezioni unite ha fatto il
punto sul problema del danno esistenziale, ridefinendo completamente, per certi versi, tutto il sistema
del danno alla persona.
9 Sulla sentenza 16601/2017 ed in generale sulla tematica del danno non patrimoniale rimando a
“Dalla polifunzionalità della responsabilità civile ai risarcimenti punitivi”, di Roberto Simone, sul sito
Questione Giustizia, oltre a “La nuova frontiera della responsabilità civile: la quantificazione del danno
non patrimoniale” di Giulio Ponzanelli, sul sito Questione Giustizia, oltre all'intervento di uno dei più
   Il quadro così descritto ci dipinge una situazione che potrebbe essere da tanti punti
   di vista favorevole alla tutela contro le discriminazioni, con un sistema normativo
   che presta attenzione alla particolare condizione del soggetto debole, con un
   giudice che è attento all’ascolto delle situazioni più disomogenee ed appare formato
   culturalmente alla tutela dei soggetti deboli, una evoluzione giurisprudenziale
   sempre più orientata alla realizzazione dei principi di solidarietà sociale della nostra
   Costituzione, eppure nonostante questo quadro generale quella che abbiamo
   sotto gli occhi è una situazione nella quale la tutela giurisdizionale contro le
   discriminazioni appare francamente deludente. Mi viene in mente il paragone con
   chi ha una bellissima macchina che offrirebbe ottime prestazioni ma poi ci viaggia a
   trenta chilometri all’ora in città.

   Dico questo perché troppo spesso assistiamo a situazioni nelle quali i risultati delle
   azioni sono modesti: “La misura del risarcimento è importante per molte ragioni:
   permette, innanzitutto, di verificare la coerenza delle affermazioni sulle funzioni
   svolte dalla r.c. e aiuta poi a riflettere sulla sostenibilità economica del risarcimento
   proprio alla luce del suo carattere di costo sociale. Insomma, bisogna evitare che
   i giudici possano fissare risarcimenti senza alcuna razionalità come se fossero
   numeri neutri”10. Io amo dire che noi giudici siamo molto più bravi nella metafisica,
   cioè a disegnare sistemi complessi, che nella tutale concreta del singolo caso, che
   costituisce la fisica del fenomeno.
76  Per richiamare il contenuto polifunzionale della tutela del danno l’efficacia di
   dissuasione si potrà avere se la consistenza del danno avrà un contenuto con una sua
   consistenza intrinseca. Faccio un esempio preciso per chiarire il mio ragionamento
   utilizzando quella sentenza della Corte di Appello di Milano11 che amo definire della
   montagna e del topolino. Il caso è quello di una lavoratrice straniera discriminata
   per motivi religiosi, si era rifiutata di togliersi il velo, o hijab (cioè il velo che copre
   i capelli e lascia scoperto il volto) per un servizio nel quale questo particolare era
   insignificante mentre secondo la società datrice di lavoro vi erano caratteristiche di
   immagine incompatibili con il velo. Il giudice del Tribunale di Lodi aveva rigettato
   il ricorso e in appello la Corte milanese ricostruisce la vicenda con attenzione e
   meticolosità arrivando a dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento
   della società. Arrivando alla determinazione del danno escluso il danno patrimoniale
   giustamente, sia come lucro cessante che come perdita di chances, sul danno
   non patrimoniale la Corte così si esprime: “Le modalità con le quali l’appellante
   è stata esclusa dalla selezione preassuntiva a seguito del suo rifiuto di togliersi
   lo hijab ha certamente inciso in modo negativo sulla sfera personale/esistenziale


   illustri studiosi della materia, Massimo Franzoni, “Danno punitivo e ordine pubblico”, Rivista diritto
   civile, 2018.
   10 G. Ponzanelli, “La nuova frontiera della responsabilità civile: la quantificazione del danno non
   patrimoniale”, cit.
   11 Corte Appello Milano 4 maggio 2016 che si può consultare nel prezioso sito Osservatorio sulle
   discriminazioni.
della appellante, alla quale dev’essere riconosciuto quale risarcimento del relativo
danno non patrimoniale l’importo, equitativamente determinato, di € 500,00. Non
si ritiene di applicare ulteriori sanzioni, atteso che il comportamento discriminatorio
ha ormai esaurito i suoi effetti e non risulta che sia stato reiterato”. Inoltre attesa la
novità le spese di giudizio vengono compensate.

Questo in realtà è il grande problema della liquidazione del danno non patrimoniale,
che in quanto tale deve essere avulso da qualsiasi considerazione reddituale,
la mancanza di dati di riferimento utili per la sua liquidazione. Chiaramente in
compresenza con un danno biologico ci sono le tabelle del Tribunale di Milano che
ci aiutano e ci guidano, saggiamente “appesantite” negli altri aspetti di danni.

Personalmente in caso di attacchi alla persona con contenuti di durata, penso al
demansionamento o al mobbing, utilizzo il dato temporale e con l’ausilio del
parametro dell’indennità temporanea totale calcolo la durata della lesione dei
diritti del soggetto, con l’ulteriore possibilità di valutale l’ITT come un multiplo,
considerando nei casi più pesanti di attacco alla persona che le otto ore di lavoro
sono solo un terzo della giornata ma che il lavoratore a causa del comportamento
soffre per tutta la giornata fatta di ventiquattro ore. Nel caso della montagna e
del topolino non potendo fare riferimento all’elemento della durata temporale
per superare una liquidazione che si avverte come quasi impalpabile, come il velo
oggetto della vicenda, si può utilizzare come parametro, ad esempio, la sanzione
civile, il riferimento è all’art. 4 del d.lgs. 7/2017, prevista dal nostro ordinamento nel         77
caso di “chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante
comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o
disegni, diretti alla persona offesa”, la vecchia ingiuria penale per la quale oggi è
prevista una sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila. Nel caso
ricordato ritenendo ingiurioso il comportamento nei confronti della lavoratrice si
poteva usare questo parametro che consentiva di arrivare ad una liquidazione di
ottomila euro che, insieme con le spese processuali che per me dovevano seguire
la soccombenza, e questo riferimento oltre a ridurre i margini della liquidazione
equitativa meramente discrezionale poteva costituire certamente in termini più
consistenti una ragione per affrontare un giudizio. Addirittura nel caso del velo
poiché l’offesa alla persona colpisce la stessa sia come lavoratrice che come religiosa
si poteva utilizzare il parametro trovato come multiplo per adeguare il danno
complessivo con il ristoro in termini risarcitori. L’importante è avere dei parametri
di riferimento perché si potrà cadere anche nell’errore opposto come ad esempio
nel casi del Tribunale di Bergamo che con l’ordinanza ex art. 28 l. 300/1970 del
30 marzo 2018, richiamando per altro la giurisprudenza ricordata della Corte di
Cassazione sul danno punitivo, con riferimenti alla diffusione mediatica delle parti
ritenute discriminatorie di una clausola contrattuale12 arriva ad un risarcimento

12 “Nella situazione in esame, il numero delle decisioni straniere che già̀ hanno interessato Ryanair
per il disconoscimento delle organizzazioni sindacali, l’ampia diffusione mediatica che le dichiarazioni
hanno avuto, il contenuto e la forza offensiva delle stesse, la notorietà̀ della società̀ , inducono a
   ritenuto equo senza ulteriori precisazioni, decisione che per altro risulta confermata
   anche dalla Corte di Appello di Brescia. In questo caso non voglio definire eccessivo
   il risarcimento, dico solo che l’espressione “stima equo” per quanto corroborata dai
   richiami alla giurisprudenza sul danno punitivo, nella quale per altro si richiamava
   l’esigenza di parametri di riferimento, non la trovo adeguata come motivazione del
   risarcimento.

   Ritengo che occorra creare le condizioni per essere credibili, per fare in modo che
   queste sentenze reggano fino in fondo, e questo sforzo deve essere compiuto in
   primo luogo da voi avvocati, che da questo punto di vista risultate tendenzialmente
   pigri, questo lo dico in base alla mia personale esperienza (sono giudice del lavoro
   dal 1994). E questa pigrizia si trasferisce poi sui giudici. Si presentano ricorsi magari
   di tante pagine e nelle conclusioni vengono richieste condanne che non trovano
   adeguato ragionamento logico a supporto. Spesso sono somme che spaventano ed
   allontanano il giudice psicologicamente dalla valutazione di generale attendibilità
   del ricorso, meglio magari chiedere meno ma giustificando in termini di percorso
   logico la richiesta che sparare cifre roboanti che poi non risultano giustificate.
   In questo senso voi avvocati dovete essere più accorti ad aiutare il giudice, così
   come il giudice deve essere molto più bravo ad argomentare la liquidazione di una
   determinata somma. Da questo punto di vista rischiamo di essere ancora all’anno
   zero, occorre creare una cultura comune sotto questo fondamentale profilo.
78  Questo è il motivo dell’importanza del confronto come in questo contesto e per
   questo sono stato felice di aderire all’iniziativa.
   Grazie a tutte e a tutti.




   ritenere non adeguatamente dissuasivo l’ordine di pubblicazione del presente provvedimento,
   rendendo opportuna la condanna al pagamento di una somma di denaro che, tenuto conto degli
   elementi appena rappresentati, può̀ equitativamente essere determinata in € 50.000,00”.
Le discriminazioni sul lavoro e conseguenze risarcitorie.
La tutela processuale e i precedenti giurisprudenziali
Chiara Rigosi*




                                             79
Il presente contributo prende vita dalle slides usate per la relazione che ho fatto al
Corso di alta formazione in materia antidiscriminatoria e non ha dunque una classi-
ca forma discorsiva.

Ho pensato in un primo momento che potesse essere un limite ma poi ho mutato
opinione: forse un approccio più schematico rispetto alla mia abituale narrazione
può essere più utile e fruibile, soprattutto per chi si trovi a dovere applicare leggi
sostanziali e processuali nella pratica lavorativa.

Così riporterò i contenuti delle slides, cercando solo di renderle chiare anche senza
le parole del relatore.




* Avvocata del Foro di Bologna.
   Le controversie in materia di discriminazione: il datore di lavoro è tenuto a rispetta-
   re il principio di non discriminazione che trova origine nell’art. 3 della Costituzione.
   Il precetto costituzionale ha trovato attuazione in perse norme di legge.

   Le discriminazioni nell’ambito del rapporto di lavoro: norme di riferimento


     L’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 21 settembre 2011
     L’art. 28 d.lgs. 150/2011 statuisce che “Le controversie in materia di di-
     scriminazione di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998,
     n. 286, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n.
     215, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n.
     216, quelle di cui all’articolo 3 della legge 1 marzo 2006, n. 67, e quelle di
     cui all’articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198,
     sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non persamente di-
     sposto dal presente articolo”.




80    Legge 300/70 -TITOLO II - Della libertà sindacale

     Articolo 15 Atti discriminatori Testo in vigore dal 28 agosto 2003

     1. È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
     a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderi-
     sca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne
     parte;
     b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche
     o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli
     altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale
     ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
     2. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti
     o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua
     o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle
     convinzioni personali.
Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. 11 aprile 2006, n.198)
Pari opportunità nel lavoro

Capo I - Nozioni di discriminazione

Art. 25 - Discriminazione diretta e indiretta

Art. 26 - Molestie e molestie sessuali

Capo II - Divieti di discriminazione

Art. 27 - Divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla pro-
mozione professionali e nelle condizioni di lavoro

Art. 28 - Divieto di discriminazione retributiva

Art. 29 - Divieti di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione
di carriera

Art. 30 - Divieti di discriminazione nell’accesso alle prestazioni previdenziali

Art. 30 bis - Divieto di discriminazione nelle forme pensionistiche complementari     81
collettive. Differenze di trattamento consentite

Art. 31 - Divieti di discriminazione nell’accesso agli impieghi pubblici

Art. 32 - Divieti di discriminazione nell’arruolamento nelle forze armate e nei corpi
speciali [ABROGATO]

Art. 33 - Divieti di discriminazione nel reclutamento nelle Forze armate e nel Corpo
della guardia di finanza [ABROGATO]

Art. 34 - Divieto di discriminazione nelle carriere militari [ABROGATO]

Art. 35 - Divieto di licenziamento per causa di matrimonio
   Art. 28 - Divieto di discriminazione retributiva
   1. È vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque
   aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un
   lavoro al quale è attribuito un valore uguale.1

   2. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retri-
   buzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in
   modo da eliminare le discriminazioni2.



   Ancora Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. 11 aprile 2006, n.198)
   Pari opportunità nel lavoro

   Capo III - Tutela giudiziaria

   Art. 36 - Legittimazione processuale

   Art. 37 - Legittimazione processuale a tutela di più soggetti
   Azione promossa dalle consigliere o consiglieri di parità per provvedimenti discri-
82
   minatori di carattere collettivo o quando non siano immediatamente inpiduabili i
   singoli lavoratori

   Art. 38 - Provvedimento avverso le discriminazioni
   Azione promossa dal lavoratore o dalle OOSS o dalle Consigliere di parità su sua
   delega

   Art. 39 - Ricorso in via d’urgenza

   Art. 40 - Onere della prova

   Art. 41 - Adempimenti amministrativi e sanzioni

   Art. 41 bis - Vittimizzazione




   1 Il presente comma è stato così sostituito dall’art. 1 d.lgs. 25.01.2010, n. 5 con decorrenza dal
   20.02.2010. Si riporta di seguito il testo previgente:
   “La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano
   uguali o di pari valore.”
   2 Il presente comma è stato così modificato dall’art. 1 d.lgs. 25.01.2010, n. 5 con decorrenza dal
   20.02.2010. Si riporta di seguito il testo previgente:
   “I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adot-
   tare criteri comuni per uomini e donne.”
Il Procedimento ex art 28 d.lgs. 150/2011
La norma è inserita nelle Disposizioni complementari al codice di procedura civile in
materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi
dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69.



Le controversie in materia di discriminazione
1. È competente il tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio.

2. Nel giudizio di primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente.

3. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di caratte-
  re statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti
  discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discri-
  minazione (inversione dell’onere della prova).

Si può estendere tale inversione dell’onere probatorio anche a fattispecie e riti di-
versi?
                                              83

L’onere della prova nel rito speciale e in quello ordinario
In odine al licenziamento discriminatorio, ad esempio, la Corte di Cassazione ha
precisato che ai soggetti che lamentino una discriminazione non debba applicarsi il
regime probatorio ordinario, bensì quello “agevolato” previsto dalle norme speciali
in materia di discriminazioni. Pertanto, è necessario che il lavoratore alleghi e dimo-
stri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discrimina-
zione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare
l’insussistenza della discriminazione attraverso circostanze inequivoche, idonee a
escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discrimi-
natoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata
con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore, privo del fattore di
rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione del lavoratore licenziato (cfr. sul
punto anche Cass. n. 14206/2013 secondo cui «incombe a colui che si ritenga leso
dal mancato rispetto del principio di parità di trattamento dimostrare, in un primo
momento, i fatti che consentano di presumere la sussistenza di una discriminazione
diretta o indiretta. Solamente nel caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà
poi alla controparte, in un secondo momento, dimostrare che non vi sia stata viola-
zione del principio di non discriminazione»). Cassazione Sezione Lavoro 27 settem-
bre 2018, n. 23338, in motivazione.
   In una recente sentenza (15 giugno 2020 n. 11530), sul regime probatorio in caso
   di discriminazione per sesso sul lavoro, la Corte di Cassazione ha ribadito che non
   si tratta di una vera e propria inversione dell’onere probatorio ma di una semplice
   attenuazione di tale onere a carico della persona discriminata, il cui adempimento
   fa scattare l’onere del datore di provare la non discriminazione. Nel caso esaminato,
   una lavoratrice aveva lamentato la mancata conferma dopo un periodo di appren-
   distato, persamente da altri apprendisti maschi e aveva sostenuto che tale dato
   statistico fosse sufficiente ad invertire l’onere della prova. Viceversa la Corte lo ha
   escluso, essendo stato accertato in giudizio che, in un arco ragionevole di tempo
   (quattro mesi), l’impresa aveva assunto apprendisti di ambo i sessi, non confermando
   poi alcuni di essi, senza sostanziali differenze fra sessi.



   Le controversie in materia di discriminazione previste dall’art. 28 d.lgs.
   150/2011
   Si tratta, nell’ordine, di giudizi riguardanti atti discriminatori nei confronti degli im-
   migrati, atti discriminatori dovuti alla razza e alla origine etnica, atti discriminatori
   non solo nei confronti del rappresentante sindacale ma anche del portatore di han-
   dicap o causati da età o orientamenti sessuali o convinzioni personali (la modifica
   del testo dell’art. 15 legge 300/70), atti discriminatori nei confronti del disabile, con-
84
   dotte pregiudizievoli alla parità uomo/donna.

   Tra le norme richiamate dal predetto articolo 28, vale la pena di riservare particolare
   attenzione al decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003 (Attuazione della Direttiva
   2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
   lavoro) che contiene anche la norma che ha modificato l’art. 15 legge 300/70.

   L’articolo 1 inpidua l’oggetto di tale decreto, e cioè “1. Il presente decreto reca le
   disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indi-
   pendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età
   e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di
   lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di di-
   scriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del perso impatto che le stesse
   forme di discriminazione possono avere su donne e uomini”.

   Il successivo art. 3 stabilisce l’Ambito di applicazione del Principio di parità di traat-
   tamento.

   1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni
   personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone
   sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo
   le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i cri-
teri di selezione e le condizioni di assunzione;

b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retri-
buzione e le condizioni del licenziamento;

c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezio-
namento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro
o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime orga-
nizzazioni.

2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in ma-
teria di:

a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla
previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;

b) sicurezza e protezione sociale;

c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della
salute;
                                               85
d) stato civile e prestazioni che ne derivano;

e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap.

3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia
legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa,
non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di
trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni perso-
nali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la
natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello
svolgimento dell’attività medesima.

(…)

4. (quanto alla salute) Sono fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di
idoneità al lavoro nel rispetto di quanto stabilito dai commi 2 e 3.

Il significato di questo punto 2 dell’art. 3 è dunque quello di “salvare” alcuni com-
portamenti che sarebbero di per sé potenzialmente discriminatori perché, secondo
il legislatore, si tratta non di discriminazione ma di distinzione motivata e, come
tale, permessa.
   Le discriminazioni
   La condotta discriminatoria si può verificare in momenti persi del rapporto di lavo-
   ro, e per ragioni perse, assumendo così molteplici vesti.

   La discriminazione si può, infatti, riscontrare:

   • al momento dell’assunzione;

   • durante il rapporto di lavoro;

   • come causa di recesso - Il licenziamento discriminatorio.

   Si prenderanno in esame le varie fattispecie utilizzando alcune decisioni segnalate
   anche dall’Osservatorio sulle discriminazioni-monitoraggio sulla giurisprudenza ita-
   liana.



   Discriminazione razziale al momento della assunzione
86
   Ordinanza Tribunale di Torino, 18 maggio 2018, contenuto pubblicato sul sito Asgi
   - Discriminazione relativa all’accesso al lavoro

   Ecco uno stralcio della sentenza:

   “Le domande proposte dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ai sensi
   degli art. 44 d.lgs. 286/1998, 4 d.lgs. 215/2003 e 28 d.lgs. 150/2011 hanno a og-
   getto l’accertamento del carattere discriminatorio del “Bando di selezione per la
   formazione di una graduatoria volta all’assunzione di personale operaio addetto alla
   manutenzione del verde”, emesso dall’Azienda Servizi Territoriali Genova Spa con
   avviso del 19/10/2017, nella parte in cui indica tra i requisiti per l’ammissione la
   “Cittadinanza italiana o di Stato appartenente all’Unione Europea”, con adozione
   dei conseguenti provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti e, in subordine, con-
   danna al risarcimento del danno (ric. p. 14 – 15).

   Respinte le eccezioni di carenza di giurisdizione, di incompetenza territoriale e di
   interesse ad agire, passando al merito – premesso che l’art. 43 c. 2 lett. e) d.lgs.
   286/1998 definisce come atto di discriminazione del datore di lavoro “qualsiasi atto
   o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche in-
   direttamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza … ad una cittadinanza
   …” –, va precisato che l’attrice chiede la modifica del bando al fine di consentire la
   partecipazione, in via principale, “a tutti i cittadini di paesi terzi in possesso di un
titolo che consenta di lavorare” e, in subordine, a coloro che siano “in possesso di
uno dei titoli di soggiorno” di cui all’art. 38 d.lgs. 165/2001 (ric. p. 14).

L’illegittimo contenuto configura una discriminazione secondo i principi afferma-
ti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, essendo idoneo “a dissuadere for-
temente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a
ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro” (Corte Giust. Ue, 10/07/2008, causa
C-54/2007).

Per tutti gli esposti motivi, risulta accertato il carattere discriminatorio del bando
in esame, nella parte in cui indica tra i requisiti per l’ammissione la “Cittadinanza
italiana o di Stato appartenente all’Unione Europea”, con conseguente necessità di
adottare “ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti” ex art. 28 c. 5
d.lgs. 150/2011.

PQM

.. ordina all’Azienda Servizi Territoriali Genova Spa di modificare il bando del
19/10/2017, indicando che è consentita la partecipazione a tutti i cittadini di Paesi
terzi in possesso di un titolo di soggiorno che consenta l’accesso al lavoro e fissando
un nuovo termine per la presentazione delle relative domande”.
                                               87

Tribunale di Nola, sez. Lavoro ordinanza 13 settembre 2018, n. 21248 Giudice Di
Palma: solo estetiste italiane

Si legge in sentenza:

“È di tutta evidenza che la fattispecie sottoposta al vaglio dell’odierno giudicante sia
perfettamente riconducibile all’ipotesi di cui alla let. C) dell’art. 3 summenzionato,
venendo in rilievo un avviso pubblico indetto dal comune convenuto per l’accesso
ad un corso gratuito di formazione per make up artist, riservato alle sole donne di
cittadinanza italiana o di altro stato UE, residenti nel Comune di Palma Campania, di
età compresa tra 18 e 45 anni, prive di occupazione e qualifica professionale. Tratta-
si di requisiti tutti posseduti dalla ricorrente ad eccezione della cittadinanza italiana
o Europea. Peraltro il principio di parità di trattamento nell’accesso alla formazio-
ne è espressamente previsto dal TU Immigrazione d.lgs. 286/98, ai sensi del quale
lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in
materia civile attribuiti al cittadino italiano. Lo stesso Testo Unico, all’art. 43 defini-
sce espressamente in termini di discriminazione, qualunque comportamento che,
direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o
preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le
convinzioni e le pratiche religiose (...).
   La violazione del pieto di discriminazione nel caso di specie appare dunque evi-
   dente, non avendo il Comune nemmeno addotto eventuali ragionevoli motivazioni
   che potessero giustificare l’esclusione in ragione della nazionalità

   P.Q.M.

   Il Tribunale così provvede:

   - accoglie la domanda e per l’effetto condanna il Comune convenuto a modificare
   l’avviso fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammet-
   tendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o
   comunitarie;

   - rigetta nel resto; (nulla sul danno)

   - condanna parte resistente al rimborso delle spese di lite che, compensate per
   metà, liquida nel residuo in Euro. 500,00, oltre spese forfetarie, iva e cpa come per
   legge con attribuzione.

   Così deciso in Nola il 13 settembre 2018.

   Depositata in Cancelleria il 13 settembre 2018”
88


   Discriminazione per motivi religiosi
   Divieto di indossare burqa e niqab in uffici pubblici, Tribunale di Milano, sentenza del
   20 aprile 2017

   “Con ricorso ex art. 44 d.lgs. 286/1998 l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici
   sull’Immigrazione -, l’APN – Avvocati per Niente Onlus -, la Fondazione Guido Pic-
   cini per i Diritti dell’Uomo Onlus e il NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza
   Socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti (), hanno convenuto
   in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Regione Lombardia deducendo: che il
   10.12.2015 la Giunta regionale Lombarda aveva approvato la delibera n. X/4553,
   avente ad oggetto il “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle
   sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale”;
   che nella predetta delibera si evidenziava come le tradizioni ed i costumi religiosi
   non potessero rappresentare giustificati motivi di eccezione, ai sensi dell’art. 5 della
   l. 152/1975, e si disponeva l’”adozione di misure idonee al rafforzamento del siste-
   ma di controllo, identificazione e sicurezza”, vietando “l’uso di caschi protettivi o di
   qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”
   presso gli enti inpiduati dall’art. 1 della l.r. 30/2006 (tra i quali erano compresi, a ti-
   tolo di esempio, anche le Aziende Ospedaliere, le ASST ed enti pubblici quali l’Aler);
   IL RICORSO VENIVA RESPINTO in quanto si riteneva che fossero ragioni di sicurezza
ad impedire l’accesso nelle strutture a volto coperto, in qualsiasi modo il volto fosse
coperto, veli, caschi o altro”.



Discriminazione di genere, durante il rapporto di lavoro
Gravidanza e tutela sul lavoro

Discriminazione della lavoratrice a seguito di gravidanza, Tribunale di Pistoia, sen-
tenza del 19 dicembre 2008

A seguito della comunicazione dello stato di gravidanza, era iniziata una serie di
azioni vessatorie (ricorso proposto dalla Consigliera di Parità della Provincia di Pi-
stoia). “Il contesto analiticamente descritto rivela non solo un palese intento di-
scriminatorio, ma soprattutto una pluralità di condotte estremamente incisive, per
la loro idoneità a fiaccare la volontà della lavoratrice di continuare a lavorare alle
dipendenze della resistente. La reiterazione delle condotte, la loro gravità, l’assoluta
loro pretestuosità, la loro incidenza in una sfera personalissima e in un momento
estremamente delicato dell’esistenza dell’inpiduo impongono di liquidare equita-
tivamente il danno nella misura di euro 30.000,00.

Le spese seguono la soccombenza. Tenuto conto della natura e del valore della con-
troversia nonché delle questioni trattate, si liquidano come da dispositivo.          89


P.Q.M.

Il giudice, dott. Giuseppe De Marzo, definitivamente pronunciando sulla domanda
proposta dalla Consigliera di Parità della Provincia di Pistoia nei confronti del L P s.r.l.
l’accoglie e, per l’effetto, condanna la società convenuta al risarcimento del danno
subito dalla lavoratrice L .M. e liquidato in euro 30.000,00, all’attualità, oltre inte-
ressi dal dì della sentenza al saldo, nonché al pagamento delle spese del processo,
liquidate in euro 5.000,00, per diritti e onorari, cui devono aggiungersi rimborso
spese generali, iva e cap come per legge



Discriminazione per età
Tribunale di Milano, sentenza del 5 ottobre 2010

Un dirigente della Agenzia delle Entrate era stato licenziato per raggiungimento
dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni ai sensi dell’art. 72, co. 11, del-
la legge n. 133/08, come modificato dalla legge n. 15/09 e, da ultimo, dalla legge n.
102/09 del 4.8.09.
   La parte attorea ha argomentato l’illegittimità del recesso per la violazione del ter-
   mine di preavviso di cui al CCNL “dirigenti”, per il fatto che non si dovrebbero conta-
   re nei quarant’anni di anzianità quelli oggetto di riscatto contributivo volontario, per
   la natura discriminatoria in ragione “del fattore di rischio dell’età” della motivazione
   di risoluzione.

   L’unica ragione addotta dal datore di lavoro, secondo il Tribunale di Milano, è la
   necessità di diminuire i costi favorire l’obiettivo dell’assunzione di lavoratori più gio-
   vani, potendo per entrambe le finalità giovare il recesso dal rapporto con lavoratori
   in possesso dei requisiti pensionistici.

   Gli stessi atti, piuttosto, mostrano solo come l’Agenzia delle Entrate, non prendendo
   in considerazione la situazione concreta di alcun ufficio, abbia solo richiamato la
   generica ed astratta motivazione delle esigenze di assicurare la piena evoluzione
   dei modelli organizzativi e l’ottimale utilizzo delle tecnologie di supporto al rafforza-
   mento della gestione del sistema fiscale che renderebbero necessario il più ampio e
   rapido ricambio generazionale.

   In tal modo, la convenuta ha solo evocato una motivazione stereotipata, che, essen-
   do scollegata dall’inpiduazione di un interesse pubblico concreto, appare volta
   unicamente a giustificare il licenziamento dei lavoratori più anziani, non potendosi
   che collocare tra questi coloro che hanno un anzianità contributiva di quarant’anni.
90
   Il Tribunale di Milano ha dunque accertato l’illegittimità del licenziamento intimato
   con lettera del 22.9.09, e ha disposto che il ricorrente, alla data del 2.6.10 (program-
   mata per l’efficacia dell’atto di recesso) fosse mantenuto in servizio.



   Discriminazione per Handicap e cessazione del rapporto di lavoro
   Tribunale di Milano, ordinanza 11 febbraio 2013

   Il licenziamento di una dirigente gravemente malata è stato ritenuto discriminato-
   rio.

   “Per come prospettata al datore di lavoro, la malattia sofferta da XY ha inequivoca-
   bilmente assunto il contenuto di un handicap: da un lato, la lavoratrice ha rappre-
   sentato di avere una “una patologia molto grave” che la costringerà a “rimanere
   in cura per tutto il resto della mia vita”; dall’altro, ha dato conto degli effetti delle
   cure obbligate: “a metà febbraio ho cominciato i trattamenti. Un inconveniente di
   ciò è che mi sento molto stanca e perciò cerco di guidare il meno possibile per non
   rischiare di addormentarmi mentre guido… I medici mi hanno consigliato di evitare
   lo stress, nei limiti del possibile. Sto facendo un grande sforzo per tenermi al passo
   svolgere i miei ordinari compiti…”.
Sotto questo profilo, è del tutto irrilevante che XY non abbia comunicato alla so-
cietà l’esatta natura della malattia che l’affligge poiché, con la propria missiva del
5/3/2012, ha comunque delineato in maniera oltremodo chiara la gravità della si-
tuazione e gli effetti della stessa, e il quadro emergente dalla sua descrizione è sen-
z’altro quello di una patologia grave e invalidante.

A tale comunicazione non può che essere ricondotta la decisione datoriale di risol-
vere immediatamente il rapporto di lavoro in essere con XY.

È questa una conclusione cui il giudicante perviene considerando, da un lato, il
brevissimo arco temporale in cui le vicende per cui è causa si sono svolte e, dall’altro,
il tenore della stessa lettera di licenziamento.

P.Q.M.

accerta e dichiara la natura discriminatoria e, conseguentemente, la nullità del li-
cenziamento intimato a XY il 4/7/2012 e, per l’effetto, ordina a SOCIETA’ s.r.l. l’im-
mediata reintegrazione della lavoratrice nel posto e nelle mansioni di cui in prece-
denza, o altre equivalenti”.



La discriminazione per motivi sindacali                           91

Il datore di lavoro non può limitare l’esercizio delle libertà sindacali costituzional-
mente garantite all’interno dell’azienda, opponendo il diritto di proprietà o altri
diritti relativi alla disponibilità dei beni aziendali. In particolare, sono poi espressa-
mente vietati gli atti discriminatori.



Divieto di atti discriminatori
È nullo qualsiasi patto o atto (ossia ogni comportamento materiale) diretto a:

a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non
aderisca a una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni,
nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a
causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad
uno sciopero.
   Cassa integrazione e mobilità: discriminazione nella scelta dei lavoratori
   Un generale pieto di discriminazione attiene anche al pieto di discriminazione
   nell’inpiduazione dei lavoratori da porre in cassa integrazione, posto che si ha
   una perdita di retribuzione, o da collocare in mobilità (e qui, il danno è assai più
   consistente ed è rappresentato dall’estromissione dal posto di lavoro). A tal fine, è
   necessario, in presenza di accordi sindacali volti alla definizione dei criteri per l’indi-
   viduazione dei lavoratori da sospendere o estromettere, il pieno rispetto dei criteri
   così inpiduati (Cass. 2.3.1999, n. 1760). Anche in questo caso, il lavoratore che si
   ritenga vittima di comportamenti discriminatori, potrà adire il giudice per essere
   reintegrato in servizio.



   Discriminazione mediante trattamenti economici collettivi
   È altresì vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi ca-
   rattere discriminatorio (art. 16 l. 20.5.1970, n. 300). È quindi vietata la stipulazione
   di accordi che attribuiscono, a determinate categorie di prestatori di lavoro, un trat-
   tamento economico differente fondato su una delle motivazioni elencate dall’art.
   15 L. 20.5.1970, n. 300. La decisione unilaterale del datore di lavoro di concedere
   all’uno e non all’altro sindacato un trattamento di miglior favore rispetto a quello
92  contrattualmente previsto, costituisce comportamento antisindacale, essendo con-
   trario al pieto di discriminazione ex artt. 15 e 16 Statuto dei Lavoratori, nonché ai
   principi di correttezza e buona fede (Pret. Milano 7.11.1995). Il giudice del lavoro,
   su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione o delle
   associazioni sindacali alle quali hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna il
   datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una
   somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamen-
   te corrisposti nel periodo massimo di un anno.



   La discriminazione nei criteri di scelta

   Il principio di parità di trattamento retributivo (inesistente)

   Un orientamento che da tempo si è consolidato sia tra i giudici di merito sia tra
   quelli di Cassazione è quello secondo il quale, rispettati i salari del Contratto Collet-
   tivo applicato, non esiste nelle aziende un principio di parità di trattamento per il
   quale a mansioni uguali debba corrispondere uguale stipendio.

   Questo principio, concettualmente conpisibile se interpretato in un’ottica pre-
   miante, può però essere usato in modo distorto e costituire, di fatto, lo strumento
   per discriminare alcuni soggetti.
Questa la pronuncia delle Sezioni Unite che pose fine ad un dibattito giurispruden-
ziale all’epoca esistente.

Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 17 maggio 1996, n. 4570

“Non esiste un diritto soggettivo del lavoratore subordinato alla parità di trattamen-
to, essendo, al contrario, legislativamente prevista come possibile una situazione di
disparità di trattamento dall’art. 2077 secondo comma, cod. civ., Con riferimento
alle disparità di trattamento che si verificano, ad opera del datore di lavoro, nel cor-
so del rapporto, l’attribuzione ingiustificata ad un lavoratore di un determinato be-
neficio non può costituire titolo per attribuire al lavoratore che si trovi nell’identica
posizione un diritto ad ottenere lo stesso beneficio, ne` può determinare l’insorgenza
di un danno risarcibile( omissis). Infine non è configurabile alcun comportamento
discriminatorio del datore di lavoro qualora esso, pur determinando una disparità di
trattamento fra i lavoratori, costituisca corretto adempimento di una norma collet-
tiva, che, in forza dell’art. 2077 secondo comma, cod. civ., sia entrata a far parte del
rapporto inpiduale di lavoro dei soggetti beneficiati e che, in quanto atto di eserci-
zio dell’autonomia collettiva, si sottrae ad ogni potere correttivo in sede di controllo
giudiziario”.



Brescia come Philadelphia                                  93

Discriminazione orientamento sessuale, Corte D’Appello di Brescia, sentenza 11 di-
cembre 2014

Come nel bellissimo film con Tom Hanks e Denzel Washington, un avvocato ha aper-
tamente sostenuto di non volere colleghi omosessuali nel proprio studio.

Ed è stato ancora più esplicito di quanto non avvenisse nel film, in cui il recesso nei
confronti del giovane e bravissimo avvocato (Tom Hanks) aveva ragioni formalmente
perse ma quella vera era la malattia, AIDS contratto da un omosessuale.

Con ricorso ai sensi del rito speciale (e non del lavoro) di cui al combinato disposto
dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 e dell’art. 702 bis c.p.c., avanti al Tribunale di Bergamo,
in funzione di giudice del lavoro, la Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI Rete
Lenford, dopo aver convenuto l’avvocato C. T., ha agito per ottenere l’accertamento
del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese dal professionista nel corso di
un’intervista durante il programma radiofonico “La Zanzara”, e consistenti nell’aver
in più occasioni affermato di non voler assumere nel proprio studio avvocati, altri
collaboratori e/o lavoratori omossessuali, nonché la correlata tutela legale (risar-
citoria e in forma specifica, con rimozione degli effetti ai sensi del cit. art. 28 del
d.lgs. 150/2011). L’avv. C. T. nel corso della trasmissione radiofonica “La Zanzara”
   del 16/10/2013, intervistato dal conduttore, ha rilasciato una serie di dichiarazioni
   riguardanti l’omosessualità.

   Dopo aver esordito con frasi quali “se la tenga lei l’omosessualità, io non ne ho al-
   cune, né simpatia, né antipatia, non me ne frega niente, l’importante è che non mi
   stiano intorno” “… mi danno fastidio”, alla considerazione del conduttore, “ma lei
   è circondato da omosessuali, lei purtroppo è circondato, purtroppo per lei, perché
   la quota di popolazione è sempre quella”, l’avvocato ha risposto “sì vabbè intanto
   io ad esempio nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo tale che questo
   non accada”.

   All’incalzare del conduttore che ha replicato “cioè non ho capito, lei, se uno è omos-
   sessuale, non lo assume nel suo studio?”, l’avvocato ha confermato “ah sicuramente
   no, sicuramente no”. Il conduttore ha quindi continuato esclamando “ma professo-
   re, ma questa è discriminazione … è discriminazione questa roba qua …” e l’appel-
   lante ha risposto “beh vabbè sarà discriminazione, a me non me ne frega niente”.

   Ed ancora, il professionista, facendo capire che non avrebbe reclutato nemmeno
   il miglior avvocato sulla piazza, laureato a Yale, ma omosessuale: “perché lo devo
   prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvo-
   cato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede.
   Da me non … mi dispiace turberebbe l’ambiente, sarebbe una situazione di grande
94  difficoltà”

   Con ordinanza del 6 agosto 2014, il giudice di primo grado ha accolto il ricorso e
   ha dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dall’avvocato
   T., ordinando allo stesso la pubblicazione, a sue spese, di un estratto dello stesso
   provvedimento, in formato idoneo a garantire adeguata pubblicità, su “Il Corrie-
   re delle Sera”, autorizzando l’Associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a
   provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei suoi confronti
   per le spese sostenute.

   Ha altresì condannato il convenuto al pagamento in favore dell’Associazione della
   somma di € 10.000,00, a titolo di risarcimento del danno. Ha infine condannato lo
   stesso al pagamento delle spese di lite.

   L’avvocato ha proposto appello e la Corte lo ha respinto, con condanna alle spese.



   Discriminazione per razza, esclusione dall’assunzione

   Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, sentenza del 28 dicembre 2016

   Sette lavoratori erano stati somministrati da un’agenzia interinale, sei vennero as-
sunti poi direttamente dall’impresa utilizzatrice tranne la ricorrente, di origine ma-
rocchina.

Il giudice ha ritenuto che si trattasse di comportamento discriminatorio, ritenendo
tra l’altro che l’applicazione del rito sommario comporti l’inversione dell’onere pro-
batorio: ai sensi dell’art. 28 comma 4 “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto,
desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza
di atti, patti o comportamenti discriminatori spetta al convenuto l’onere di provare
l’insussistenza della discriminazione”. Occorre quindi valutare se la ricorrente abbia
fornito elementi di fatto idonei e sufficienti a determinare l’inversione dell’onere
probatorio.

Tenuto conto della scarsissima percentuale di dipendenti extracomunitari e di una
serie di conversazioni registrate sul fatto che la società non potesse permettersi di
avere dipendenti che stavano in ferie un mese per tornare al loro paese, di cui si dà
atto in motivazione, questo il dispositivo:

PQM

visto l’art. 28 d.lgs. 150/11

Accerta il carattere discriminatorio della condotta posta in essere dalla società con-
venuta e per l’effetto condanna la società convenuta a risarcire alla ricorrente il dan-  95
no subito, liquidato in euro 13.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria da
oggi al saldo;

condanna la convenuta soccombente a rimborsare le spese di lite liquidate in euro
5.000,00 oltre rimborso forfettario, Iva e cpa.



Il danno da condotta discriminatoria. Alcuni casi
Sono portati alla attenzione dei Giudici molti casi in cui la condotta discriminatoria
sfocia in un licenziamento, con la tutela conseguente prevista dall’art. 18 della legge
300/70; vi sono invece casi in cui non c’è un licenziamento ma un danno da con-
dotta discriminatoria in un rapporto di lavoro ancora in essere o concluso per altra
causa: in tali casi, ai giudici viene chiesta la condanna al risarcimento del danno da
mobbing.

Il mobbing si sostanzia in una condotta sistematica protratta nel tempo con carat-
teristiche oggettive di persecuzione e discriminazione nei confronti del lavoratore,
risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa. L’intento sot-
teso a tale condotta può essere provato anche mediante presunzioni gravi, precise
e concordanti. Le perse azioni devono essere valutate globalmente, ovvero nella
   compenetrazione dello svilupparsi delle medesime, del loro interagire e delle loro
   conseguenze, al fine di verificare se la loro combinazione sia in grado di fornire una
   valida prova. Nella fattispecie era incontroverso che il legale rappresentante della
   società resistente, al rientro della ricorrente in azienda dopo un mese di assenza
   per malattia, l’avesse invitata a trovarsi un altro posto di lavoro; alla sola ricorren-
   te veniva imposta la restituzione delle chiavi di ingresso dell’azienda ed impedito
   di consumare all’interno dell’azienda il pasto che la medesima si portava da casa,
   nonché intimato, nel periodo di malattia, il licenziamento poi revocato. Inoltre, alla
   ricorrente venivano imposte ferie forzose; negato il rimborso chilometrico, mutato
   l’orario di lavoro ed intimato un secondo licenziamento. Condotte queste di certo
   antigiuridiche come comprovato anche dalla documentazione sanitaria della ricor-
   rente attestante una sindrome ansiosa-depressiva connessa ai problemi lavorativi,
   con conseguente configurabilità del mobbing e relativo risarcimento dei danni (Tri-
   bunale di Pordenone, Sezione Lavoro, Sentenza 9 dicembre 2015, n. 156).

   Questa la quantificazione del danno secondo il Tribunale di Pordenone:

   • Sul danno biologico l’elaborato ne attesta la sussistenza quantificandolo, in ter-
    mini di invalidità temporanea, nella misura del 30% da aprile 2009 a luglio 2010.

   • Consegue sul piano quantificatorio – partendo dall’importo massimo di euro
    145,00 giornaliere secondo le tabelle di Milano comprensivo in quanto tale an-
96   che dell’invocata corretta personalizzazione – la condanna della resistente al
    pagamento a titolo di risarcimento danni della somma di euro 19.879,50 così
    determinata: 457 giorni moltiplicati per euro 43,50 giornalieri (30% di euro 145
    giornaliere).

   • Importo debitamente maggiorato di interessi legali e rivalutazione monetaria
    (quest’ultima a decorrere dal 2014) dalla maturazione delle singole poste cre-
    ditorie al soddisfo.



   Corte di Cassazione Sezione lavoro, Sentenza 7 luglio 2017, n. 16844 – Il
   risarcimento negato
   Un vice direttore di banca aveva adito il Tribunale di Napoli chiedendo il risarcimen-
   to del danno da mancata progressione di carriera, deducendo l’intento discrimina-
   torio del datore di lavoro per motivi sindacali (era responsabile della filiale di Napoli
   di una organizzazione sindacale).

   «I fattori discriminatori potevano essere ricavati non solo dalla verifica dell'intento
   perseguito dal datore di lavoro ma pure dall'insieme dei fatti, dai quali risultava la
   obiettiva idoneità della condotta a ledere la parità di trattamento del lavoratore ri-
   spetto a posizioni analoghe: il datore di lavoro poneva in essere un comportamento
obiettivamente idoneo a ledere gli interessi del soggetto discriminato qualora la
differenza di trattamento si configurava irragionevole».

Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano respinto il ricorso per mancanza delle prove
sull’intento discriminatorio.

La Corte di Cassazione confermava la decisione della Corte d’Appello che aveva «ri-
tenuto carente la allegazione nel ricorso introduttivo della lite tanto dei fatti costi-
tutivi del demansionamento – ed in particolare delle mansioni in concreto svolte
anteriormente alla denunziata condotta illecita nonché di quelle successivamente
assegnate – che dei danni che in concreto sarebbero derivati al lavoratore dall'ina-
dempimento del datore di lavoro» e respingeva il ricorso.



Un caso bolognese di discriminazione non ritenuta sussistente
Il giudizio era stato introdotto con ricorso ex art. 28 d.lgs. 150/2011 per asserita
condotta discriminatoria nei confronti di un soggetto portatore di handicap.

Si trattava, in realtà, di un dipendente che era stato dichiarato inidoneo, per un pre-
gresso infortunio extralavorativo, a svolgere attività che comportassero faticose mo-
vimentazioni manuali. La convenuta era un’azienda metalmeccanica ed il ricorrente
                                              97
un operaio con una certa specializzazione. Onere dell’azienda era quello di dimo-
strare che si erano cercate tutte le strade per trovare un’occupazione confacente al
soggetto, che però aveva rifiutato ogni mansione nell’ambito produttivo, chiedendo
di essere adibito agli uffici.

Egli era rimasto assente per malattia, aveva superato periodo di comporto e non vi
era stato alcun licenziamento.

Il Giudice dispose una Consulenza medico legale con nomina di medici specializzati
in medicina del lavoro che conclusero ritenendo il ricorrente idoneo allo svolgimen-
to di mansioni di addetto agli uffici.

Il Giudice effettuò un sopralluogo in azienda con assunzione diretta delle testimo-
nianze di coloro che si trovavano al lavoro nei vari reparti.

Dall’istruttoria, svolta dunque anche presso l’azienda, emerse che non sussisteva la
possibilità di spostare il ricorrente in settori non produttivi che sarebbero stati ido-
nei alle sue condizioni di salute e che non vi erano state nuove assunzioni.

Il ricorso venne, pertanto, respinto perché si ritenne che la condotta discriminatoria
non sussistesse.
   Il significato che attribuiamo alla parola discriminazione è quasi sempre negativo e
   in questo senso è stato usato nel presente contributo.

   In realtà, il discrimine non è in sé un male, significa infatti Distinzione, pisione,
   punto di separazione (dal vocabolario Treccani).

   Probabilmente, sono le condotte ad assumere valenze perse e, pur nella distin-
   zione fra persone, casi e situazioni, la correttezza dei comportamenti è quella a cui
   dovrebbe tendere chi si occupa, con ruoli persi, della tutela dei diritti.




98
Le discriminazioni sul posto di lavoro e il
risarcimento del danno. Prassi giudiziali

Mario Turco*




Premessa
In tema di discriminazione sul posto di lavoro il legislatore ha prestato particolare
attenzione a partire dall’emanazione della l. 300/1970, meglio nota come Statuto
dei Lavoratori. La decisione di creare un numerus clausus di fattispecie alle quali
ricondurre la valutazione di condotte più o meno discriminatorie aveva un duplice
scopo: tipizzare e stigmatizzare eventuali abusi da parte del datore di lavoro nei
confronti del lavoratore e circoscrivere l’area di intervento del giudice nel caso      99
di denuncia da parte del sottoposto. L’evoluzione delle fattispecie in materia di
discriminazione ha subito una forte accelerazione nel corso degli ultimi vent’anni,
complice l’evoluzione dei costumi e perfino della tecnologia. Tale processo di
trasformazione ha chiaramente messo in evidenza la portata limitante del dettato
normativo di cui allo Statuto dei Lavoratori evidenziando la scarsa duttilità del
sistema nel riconoscere nuove forme di lesione della dignità del lavoratore in sede
giudiziaria.

In quest’ottica il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bologna
ha ritenuto di dover promuovere una serie di incontri volti alla formazione e alla
sensibilizzazione degli operatori del diritto al fine di inpiduare una strategia
comune ed integrata di prevenzione e di contrasto ai fenomeni discriminatori
emergenti.


La normativa antidiscriminatoria
Con l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori il legislatore ha inteso definire atti
discriminatori quei patti o atti diretti a: “a) subordinare l’occupazione di un lavoratore


* Avvocato del Foro di Bologna.
   alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero
   cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di
   qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli
   altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della
   sua partecipazione ad uno sciopero1.” Un primo intervento di ampliamento della
   casistica in materia fu operato a distanza di sette anni introducendo all’ultimo
   comma dell’art. 15 l. n. 300/70 l’inciso: “Le disposizioni di cui al comma precedente
   si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa,
   razziale, di lingua o di sesso2,” con l’intento sancire la parità di trattamento tra
   uomini e donne nel mondo del lavoro. L’ultimo intervento legislativo di modifica
   dello Statuto dei Lavoratori in materia di atti discriminatori è stato effettuato a
   mezzo del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 il quale amplia la casistica anche ai patti o atti
   diretti alla discriminazione di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale
   o sulle convinzioni personali3.

   Nel panorama europeo la lotta alla discriminazione in ambito lavorativo ha
   conosciuto una lunga gestazione sia nelle fonti primarie dell’Unione Europea
   (prima ancora Comunità) sia negli atti derivati. Già a partire dal Trattato di Roma
   venne introdotto all’art. 119 il principio di parità della retribuzione fra lavoratori
   di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro4. Ad esso si
   susseguirono ben nove direttive5, un numero di raccomandazioni e di risoluzioni
100
   1 Art. 15 l. 20 maggio 1970 n. 300, Norme sulla tutela della libertà dignità dei lavoratori, della libertà
   sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.
   2 Art. 13 l. 9 dicembre 1977 n. 903 Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.
   3 Art. 4 d.lgs. 9 luglio 2003 n.216.
   4 Art. 119 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea: “Ciascuno Stato membro as-
   sicura durante la prima tappa, e, in seguito mantiene, l’applicazione del principio della parità delle
   retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Per
   retribuzione deve essere inteso, ai sensi del recente articolo, il salario o trattamento normale di base
   o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal
   datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza
   discriminazione fondata sul sesso, implica: a) che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro
   pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura; b) che la retribuzione corrisposta per
   un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale.”
   5 Direttiva 75/117/CEE del 10 febbraio 1975 per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri
   relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e
   quelli di sesso femminile;
   Direttiva 76/307/CEE del 9 febbraio 1976 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamen-
   to fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
   professionali e le condizioni di lavoro;
   Direttiva 79/7/CEE del 19 dicembre 1978 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di
   trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale;
   Direttiva 86/378/CEE del 24 luglio 1986 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento
   tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale modificata dalla Diret-
   tiva 96/97/CE del Consiglio del 20 dicembre 1996;
   Direttiva 86/613/CEE dell’11 dicembre 1986 relativa all’applicazione del principio della parità di trat-
   tamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel
del Parlamento europeo, quattro programmi d’azione6 e un’ampia giurisprudenza
della Corte di Giustizia7. Con la sottoscrizione del Tratto di Amsterdam8 si
perfezionò il campo di applicazione della tutela antidiscriminatoria evidenziando
la necessità di combattere qualsiasi tipo di azione avente ad oggetto la lesione
della dignità basasti su sesso, razza, etnia, religione o credo, disabilità, età o
orientamento sessuale. Gli articoli 2, 3 e 6 A accordarono una nuova competenza
espressa alle istituzioni affinché si creassero le condizioni necessarie a perseguire
una lotta contro qualsiasi forma di discriminazione basata sul sesso. L’unico
limite a tale competenza era dato dal voto all’unanimità del Consiglio e dalla
consultazione esclusiva del Parlamento europeo. L’inserimento nel nuovo trattato
dell’Accordo sulla politica sociale agli articoli 117, 118 e 119 costituiva di fatto
un’ulteriore dimostrazione del reale balzo in avanti compiuto dalla politica in
materia di non discriminazione e di parità tra gli uomini e le donne, tanto nella
sua attuazione, facendosi riferimento al procedimento di codecisione, quanto nel
suo stesso contenuto, ammettendo, per la prima volta, l’esistenza di una possibile
discriminazione positiva.

A partire dal nuovo millennio gli interventi legislativi europei si sono concentrati,
oltre che sulla definizione di un quadro generale per la parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, sulla definizione di misure atte
a garantire un indennizzo o una riparazione reale ed effettiva del soggetto leso: il
legislatore europeo ha inteso procedere all’armonizzazione delle varie discipline              101
statali nell’assicurare il giusto ristoro in caso di evento discriminatorio, anche in


settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità;
Direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il
miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo
di allattamento;
Direttiva del Consiglio relativa ai congedi parentali e ai congedi per motivi familiari penuta la Diret-
tiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996 concernente l’accordo quadro sule congedo parentale
concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES;
Direttiva 97/80/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di di-
scriminazione basata sul sesso;
Direttiva 97/81/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo
parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES.
6 Particolare importanza ha assunto il Quarto programma di azione comunitaria a medio termine
per le pari opportunità per le donne e gli uomini adottato con decisione del Consiglio il 22 dicembre
1995, GU L 335, pag. 37.
7 A titolo esemplificativo: Gabrielle Defrenne contro Sabena, sentenza 22 aprile 1976, C-43/75; Ma-
ria Kowalska contro Freie und Hansestadt Hamburg, sentenza 17 giugno 1990, C-33/89; Helga Nimz
contro Freie un Hansestadt Hamburg, sentenza 7 febbraio 1991, C-184/89; Coloro Pension Trustees
Lts contro James Richard Russell. Daniel Mangham, Gerald robert Parker, Robert Shapr, Joan Fuller,
Judith Anna Broughton e Coloroll Group Plc, sentenza 28 settembre 1994, C-200/91; Gertruida Catha-
rina Fisscher contro Voorhuis Hengelo BV e Stichting Bedrijfspensionenfonds voor de Detailhandel,
sentenza 28 settembre 1994, C-128/93; Francina Johanna Maria Dietz conto Stichting Thuiszorg Rot-
terdam, sentenza 24 ottobre 1996, C-453/93.
8 Entrato in vigore il 1° maggio 1999.
   un’ottica di deterrenza9.

   Sulla scia di tale evoluzione normativa si è proceduto, in Italia, alla creazione di un
   codice delle pari opportunità tra uomo e donna10 inteso a dare piena attuazione
   alle sollecitazione tanto interne (evoluzione della prassi giurisprudenziale) quanto
   esterne (direttive europee, risoluzioni, piani di azione, etc..). Di particolare rilievo
   risulta essere l’impianto definitorio delle fattispecie discriminanti, a partire dalla
   nuova formulazione delle molestie sessuali, contenute all’art. 26 del predetto
   codice: “Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei
   comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo
   scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare
   un clima intimidatorio, ostile degradante, umiliante o offensivo. …omissis”. Tale
   impostazione intende ampliare quanto più possibile il novero di comportamenti
   sanzionabili pur nel rispetto di una cornice normativa che possa assicurare un
   quadro definitorio circostanziato. A ciò si deve aggiungere la previsione contenuta
   nell’art. 40 del medesimo codice, in termini di onere della prova, che introduce
   due pilastri fondamentali nell’impostazione dell’eventuale azione di condanna:
   da un lato, la possibilità di utilizzare elementi di fatto anche solamente desunti
   da opportune analisi sub species e dall’altro il generale principio di inversione
   dell’onere della prova (in capo, pertanto, al convenuto) nel dichiarare insussistente
   la discriminazione denunciata.
102
   Su questo ultimo punto giova ricordare, inoltre, che dottrina e giurisprudenza
   sono oramai concordi nel ritenere che il solo elemento oggettivo che si fondi
   su presunzioni precise e concordanti sia elemento sufficiente per accertare e
   condannare una condotta discriminatoria, a nulla valendo l’inesistenza di un
   elemento soggettivo11. A ciò si deve aggiungere che la discriminazione può essere
   considerata tale sia in forma diretta che in forma indiretta12, purché portatrice

   9 In tal senso si vedano le Direttive 78/2000/CE e 54/2006/CE; quest’ultima all’art. 18 cita espressa-
   mente: “indennizzo o riparazione reali ed effettivi, in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati
   al danno subito”.
   10 D.lgs. 11 aprile 2006 n.198, Codice delle Pari Opportunità tra Uomo e Donna. Per un’ulteriore
   approfondimento si veda la l. 10 aprile 1991 n. 125.
   11 Chez Razpredelenie Bulgaria AD contro Komisia za zashtita ot diskriminatsia, 16 luglio 2015,
   C-83/14: si attua la Direttiva 43/2000 in tema di discriminazione su base etnica e trova applicazione
   anche a tutela dei soggetti non appartenenti ad una determinata etnia, in virtù del solo pregiudizio
   subito. A tal fine si deve rimuovere ogni discriminazione, diretta o indiretta, seppur non contatta da
   una particolare gravità/rilevanza.
   12 Art. 2 d.lgs. 9 luglio 2003, n.216:
   “a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o
   per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
   sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
   b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o una
   comportamento apparentemente neutri possono mettere le perone che professano una determinata
   religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare
di una situazione e/o trattamento di particolare svantaggio, indipendentemente
dalla gravità e/o rilevanza.

Ad oggi, pertanto, il quadro normativo in materia di discriminazioni risulta essere
assai variegato sia sotto il profilo delle fonti (di derivazione internazionale, europea
e nazionale) che sotto il profilo della casistica, rendendo particolarmente difficile
l’inpiduazione di una prassi alla quale gli operatori del diritto possano attingere
senza dover incappare in processi di esegesi normativa e/o fattuale.


Caso oggetto di disamina
Al fine di valutare la concreta applicazione della normativa vigente in tema
di discriminazione sul lavoro è opportuno esaminare alcuni casi avvenuti nel
panorama domestico. Il primo fa riferimento a due hostess di età molto giovane
selezionate sulla base di stringenti criteri estetici per un evento fieristico di
richiamo internazionale. Il contratto di lavoro veniva offerto da una società sub
appaltatrice la quale assumeva il personale necessario agli eventi facendosi carico
di ogni onere e trattamento economico, oltre rimborso spese, rimanendo in capo
alla società sponsor ufficiale dell’evento il solo dominio apparente. Dopo un breve
periodo di lavoro perveniva, alle ragazze, una lettera di licenziamento per motivi
ricollegabili al mancato svolgimento corretto delle mansioni come da istruzioni
                                                     103
ricevute dalla coordinatrice nei giorni precedenti (es. non aver messo in fila per
due, anziché per tre, i contenitori; non aver mantenuto la postazione indicata;
etc..). Dopo un breve colloquio con il responsabile dell’organizzazione le ragazze
venivano invitate a ritenersi dispensate da qualunque altro impegno nei confronti
della società, essendo venuto meno il rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro
e lavoratore.
L’atto veniva immediatamente impugnato per illegittimità nel merito mentre
una delle hostess procedeva a muovere specifica contestazione per condotta
discriminatoria qualificabile come molestia sessuale ex art. 26 secondo comma,
d.lgs. n. 198/2006. Tale condotta veniva descritta con minuzia dalla ricorrente la
quale asseriva di aver ricevuto, in almeno due occasioni prima del licenziamento,
avance da un responsabile della stessa società datrice di lavoro, peraltro mai
ricambiate.

Tali addebiti venivano prontamente respinti dal datore di lavoro, in particolare con
riguardo alle specifiche doglianze della lavoratrice in materia di discriminazione,
ritenendosi estraneo alle stesse e ritenendole generiche e prive di riscontro.
Il caso è stato affrontato in sede di conciliazione ex artt. 2113 c.c., 410 e 411 c.p.c.,
definendo in via transattiva un ristoro economico in termini complessivi di notevole

età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre perso-
ne”.
   entità. La strategia difensiva elaborata dalla ricorrente ha tenuto conto di alcune
   elementi essenziali nella definizione del caso: quadro probatorio scarso; difficoltà
   emotiva della ricorrente nel ripercorrere le tipologie di avance ricevute; particolare
   complessità nel stabilire un nesso causale tra il comportamento discriminatorio ed
   un congruo risarcimento economico. Più nel dettaglio si poneva all’attenzione del
   difensore la palese riluttanza della cliente nel voler notiziare gli operatori di quanto
   accaduto nello specifico, stante la particolare fragilità psicologica della ricorrente.
   Solo un attento e meticoloso lavoro di indagine coadiuvato da personale medico
   specializzato ha portato alla definizione dell’accaduto, pur rimanendo la difficoltà
   del reperimento di ulteriori indizi e/o prove (nel caso in esame vi era un solo sms
   inoltrato dal datore di lavoro alle ore 4.30 del mattino con scritto: “in che stanza
   alloggi!”. La ricorrente asseriva che tale comportamento si era già ripetuto nel
   tempo ma non aveva conservato tracce ulteriori al riguardo). Quanto alla parte
   resistente si poneva il problema di un possibile danno d’immagine di ampie
   proporzioni qualora il caso fosse stato pubblicizzato additando le società coinvolte
   quali responsabili, in via indiretta, di comportamenti discriminatori nei confronti
   di dipendenti.

   Per tali motivi le parti hanno ritenuto di procedere speditamente alla definizione
   del caso in via meramente transattiva. Si deve ritenere, peraltro, che tale tipologia di
   procedura risulta essere di gran lunga la più caldeggiata in sede di discriminazione,
104  stante la persistente difficoltà degli operatori nel poter perseguire la via del
   risarcimento del danno in via giudiziale come previsto dal combinato disposto
   degli artt. 26, 37 e 38 del d.lgs. 198/2006.

   Un altro caso di particolare interessa è stato oggetto di una sentenza del Tribunale
   di Pistoia, sezione Lavoro13: due donne con contratto di lavoro a tempo determinato
   venivano ripetutamente fatte oggetto di molestie da parte del datore di lavoro.
   La prima riceveva una lettera di licenziamento a seguito delle rimostranze
   avanzate per le molestie subite mentre la seconda veniva costretta alle dimissioni
   volontarie. Ambo le lavoratrici procedevano all’impugnazione del licenziamento a
   mezzo di ricorso promosso anche grazie all’intervento della Consigliera per le Pari
   Opportunità, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale e l’applicazione
   di un piano di rimozione delle discriminazioni14 eventualmente accertate in sede
   giudiziale.

   Il Giudice, accertata la sussistenza degli elementi integranti un comportamento


   13 Tribunale di Pistoia, Sezione Lavoro, Sentenza n.177 del 2012, depositata in data 8 settembre 2012.
   14 Art. 4 d.lgs. 9 luglio 2003, n.216: “Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a
   provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del
   comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimo-
   zione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato
   nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.”
discriminatorio, annullava il licenziamento e riconosceva ale lavoratrici il diritto
al risarcimento del danno non patrimoniale per la “condizione di sofferenza
immediatamente apprezzabile in dipendenza della natura dei beni lesi e dalle
caratteristiche della violazione”. Oltre al ristoro del danno patito dalle ricorrenti
il Giudice stabiliva un risarcimento nei confronti della Consigliera per le Pari
Opportunità e la comunicazione della pronuncia alle altre lavoratrice non ricorrenti
affinché fossero edotte della possibilità di esperire un eventuale ricorso.

Quanto ad altre tipologie di discriminazione giova meritano attenzione due

pronunce del Tribunale di Bologna, sezione lavoro: la prima riguarda un operaio
edile con anzianità di servizio di trent’anni licenziato per inidoneità fisica alla
mansione in ragione di una intervenuta limitazione relativa al sollevamento di pesi
inferiori a 12 kg certificata dal medico competente. Il datore di lavoro riteneva
di non poter adibire il sottoposto ad altra mansione lavorativa presso la propria
azienda dovendo procedere, pertanto, all’interruzione del rapporto di lavoro.
Il Giudice ha ritenuto illegittimo l’atto decretandone la nullità e disponendo
l’immediata reintegrazione sul posto di lavoro in quanto il licenziamento risultava
essere discriminatorio per ragioni di handicap posto che, dalla documentazione
medica prodotta, la malattia professionale sofferta dal ricorrente era già stata
riconosciuta dall’Inail quale invalidante.

Nel secondo caso, invece, la lavoratrice oggetto di licenziamento aveva subito       105
un demansionamento con contestuale riduzione dell’orario di lavoro , dopo aver
fruito del periodo di congedo per maternità. A seguito del ricorso proposto ex art.
38 d.lgs. 196/2006 il Giudice statuiva l’esistenza di una condotta discriminatoria
sulla base delle presunzioni allegate in fase di ricorso, non riuscendo la società
convenuta a dimostrare l’infondatezza dei fatti e degli atti posti a fondamento
della pretesa risarcitoria della ricorrente.

Conclusioni
Alla luce dei casi sopra esposti si deve evidenziare come nell’ambito delle
discriminazioni sul lavoro l’esperienza sul campo degli operatori del diritto, a partire
dalla casistica giurisprudenziale, rappresenti quanto mai un panorama eterogeneo
non facilmente modificabile in un unico paradigma. Ogni evento/caso rappresenta
un unicum rappresentando una notevole sfida in termini fattuali e processuali per
i difensori. La sensibilità degli argomenti trattati associata alla necessaria tutela
della dignità del lavoratore e della sua privacy rappresentano, spesso, uno scoglio
insormontabile nella corretta rappresentazione dei fatti accaduti, inficiandone la
relativa allegazione.

Per tali motivi è auspicabile una maggior sinergia tra gli operatori del diritto basata
   su tre principali direttive: l’istituzione di protocolli volti alla prevenzione delle
   condotte discriminanti in ambito lavorativo; maggiore sensibilizzazione dei soggetti
   maggiormente coinvolti ed esposti, con particolare attenzione alla formazione
   specialistica; l’intensificazione dell’attività in sede giudiziale al fine di sedimentare
   le necessarie interpretazioni giuridiche del quadro di riferimento normativo.




106
Le discriminazioni sul lavoro: la vigilanza e il sistema
sanzionatorio
Valeria Moscardino*




Come afferma un illustre Dirigente appartenente all’Ispettorato Nazionale del Lavo-
ro, Pietro Rausei, “a protezione della dignità inpiduale della persona che lavora e
contestualmente del diritto del lavoratore e della lavoratrice a non subire alcun in-
colpevole e ingiustificato pregiudizio nello svolgimento della prestazione lavorativa,
l’ordinamento giuridico pone il pieto inderogabile di discriminazione nell’accesso
al lavoro e nello svolgimento del rapporto”.

Tutta la normativa attuale, continua lo studioso, “è orientata ad impedire che un
qualsiasi elemento differenziale legato all’identità personale, fisica o psicologica
della persona che lavora o cerca lavoro possa presentarsi quale reale fattore di ri-
                                             107
schio per il realizzarsi di pregiudizi più o meno rilevante per il soggetto interessato
alla persità inpiduata”.

Prima di entrare nello specifico del ruolo di un ispettore del lavoro e del sistema
sanzionatorio applicabile, a titolo provocatorio vorrei analizzare due articoli che di
seguito riporto per focalizzare i fatti.

Nel Giornale di Brescia, Giacomo Scanzi, direttore nel 2012 affrontava il problema
delle disuguaglianze, sostenendo che la crisi fosse pagata soprattutto da giovani e
donne: “… Sono stati i giovani e le donne a pagare in misura più elevata la crisi. Il
rapporto dedica ampio spazio al fenomeno occupazionale delle donne, che si dice
nel 2010 sono riuscite a mantenere stabile l’occupazione (con un tasso che rimane
comunque basso 46,1%) …“.

Nel secondo studio “Women, business and the law» la Banca Mondiale nel 2018
commentando il rapporto tra donne, lavoro e discriminazione e il conseguente im-
patto negativo della disuguaglianza di genere sulla crescita globale riferiva che: “…
Numeri, alla mano, ad esempio, in Italia lavora solo il 46% delle donne …. se venisse
centrato l’obiettivo pensato dalla strategia di Lisbona per rendere più competitivo
il mercato europeo, cioè maggior partecipazione femminile fino al 60 per cento, sei
donne su dieci al lavoro, l’Italia beneficerebbe di un +7% del Pil…“

* Funzionaria Ispettorato Territoriale del Lavoro, Parma – Reggio Emilia.
   Sempre per dare qualche spunto di riflessione iniziale vorrei commentare la pre-
   sentazione in Conferenza stampa di un programma televisivo la cui prima puntata è
   stata trasmessa nel 2018, intitolato “Non ditelo al mio capo”.

   La produttrice Matilde Bernabei affermò trattarsi della «storia di una sorta di su-
   per eroe, una madre lavoratrice costretta a nascondere i figli per trovare lavoro
   …» «Questa fiction nasce dai due modelli di donna che oggi abbiamo davanti - la
   mamma e la donna che lavora - e la schizofrenia di chi cerca la sintesi tra due cose
   che non possono essere sintetizzate.»

   Sarebbe importante che, a parere di chi scrive, nessuna donna si considerasse un
   super eroe ma ancor più che non si parlasse di schizofrenia riferendosi a chi è una
   mamma lavoratrice!

   Se dovessi pensare di seguire un preliminare sommario per trattare il tema della
   parità e delle pari opportunità nello svolgimento della prestazione lavorativa, an-
   drei in sequenza ad analizzare il quadro normativo comunitario e nazionale, le varie
   definizioni e tipologie di discriminazione, le tutele e i soggetti preposti e da ultimo il
   sistema sanzionatorio amministrativo/penale.

   Nel quadro normativo, non potremmo non tener conto di due ben definite fasi pro-
   pedeutiche, indicateci da alcuni articoli della Costituzione Italiana e della Carta Eu-
108  ropea dei diritti fondamentali; nonchè di una terza fase esplicativa, il cui contenuto
   prende forma nelle circolari del Ministero del Lavoro (Circ. 31/2001; Circ. 26/2006 e
   Nota Circ. 2840/2009) e nel decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, meglio cono-
   sciuto appunto come «Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna».

   Lo schema portante delle norme indicate è costituito da quelli che potremmo
   definire gli ingranaggi del sistema, che nel d.lgs. n. 5/2010 trovano elencazione det-
   tagliata: le tutele e le garanzie, i soggetti coinvolti, e soprattutto i pieti.

   Le tutele sono quattro e sono l’occupazionale, che si preoccupa di difendere da ogni
   prevaricazione l’impiego lavorativo dei soggetti; la fisica per preservarne l’integrità;
   la familiare per garantire la funzione essenziale del soggetto e l’economica per ga-
   rantire un adeguato sostegno e sussistenza.

   Le garanzie invece si sostanziano nella possibilità e nel diritto all’accesso al lavoro,
   nella parità di trattamento economico a parità di mansioni e nella mobilità verticale
   nella carriera.

   Da ultimo i pieti riguardano le discriminazione più comunemente conosciute e
   riferibili a ragioni connesse al sesso, allo stato di gravidanza, alla maternità o pater-
   nità (anche adottive).

   Agli artt. 25-26 del Codice delle Pari Opportunità le discriminazioni vengono ge-
   nericamente definite come “trattamenti meno favorevoli in ragione di gravidanza,
maternità o paternità ovvero in ragione della titolarità ed esercizio dei relativi diritti,
molestie, molestie sessuali, ritorsioni”.

A loro volta tali trattamenti si sudpidono relativamente all’accesso al lavoro, inteso
in qualsiasi forma (subordinata, autonoma, pub/priv …), anche concretizzabile come
mancata fornitura di attrezzature, avvio o ampliamento di ogni forma di attività;
alle modalità di assunzione, intese come avvio, condizioni, fornitura di materiale; al
trattamento retributivo; alla classificazione professionale con riferimento alle qua-
lifiche, mansioni, progressioni, prestazioni previdenziali, forme pensionistiche com-
plementari.

I soggetti preposti alle quattro tutele descritte sono essenzialmente tre e inpidua-
bili nel Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità-CNP (art. 8 d.lgs
198/2006) che ha la funzione di promuovere iniziative per eliminare tutti gli ostacoli
all’uguaglianza; nelle Consigliere di Parità (Circ. Min. n. 20 del 2010) che hanno il
compito di promuovere e controllare l’attuazione dei principi sul luogo di lavoro e da
non ultimo nell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nelle sue diramazioni territoriali a
livello ora dell’Interregionalità o a livello Provinciale (Circ. Min. n. 31/2001 e proto-
collo d’intesa 2007) che ai suoi pubblici funzionari (sono agenti di polizia giudiziaria)
ha demandato il ruolo del controllo.

Per quanto riguarda le fasi e le modalità di intervento del personale ispettivo dob-
biamo far riferimento alla Circ. Min. n. 31/2001 che detta proprio le Linee guida        109
dell’attività ispettiva in materia di parità, pari opportunità e garanzia contro le di-
scriminazioni.

L’azione degli ispettori trova origine o in una richiesta di intervento del soggetto
interessato alla lesione, cui fa seguito una visita programmata in una determinata
realtà lavorativa, oppure in un’ attività di analisi dei contratti e accordi collettivi o
della composizione organica del personale dipendente di una determinata ditta (es:
assenza o presenza in % del personale femminile); o da ultimo in un’attività di analisi
dei dati statistici distinti per sesso in relazione all’accesso, alle posizioni professionali
e retributive, alle progressioni di carriera, alle cessazioni dei rapporti, alle condizioni
generale dell’ambiente di lavoro, delle posizioni retributive e degli inquadramenti e
mansioni.

Queste attività di analisi pentano un vero e più dettagliato controllo, arrivando
a richiedere un successivo accesso ispettivo, nei casi di accertamento di cessazio-
ne del rapporto o di altre problematiche fattispecie in coincidenza di matrimonio o
gravidanza: nei casi di esame del consenso espresso in caso di dimissioni durante la
loro convalida da parte della ITL; nel caso di verifiche rispetto eventuali modifiche
ingiustificate dell’orario di lavoro; nel caso di esame dell’attuazione di “progetti di
azioni positive” a sostegno della conciliazione famiglia/lavoro.

In merito a questi vorrei raccontarvi brevemente di un accertamento capitatomi
   qualche tempo fa. La lavoratrice, che a noi ispettori si è rivolta, lamentava al rien-
   tro dalla maternità il cambio dei turni in modo continuo e senza programmazione;
   lamentava che questi turni per lo più fossero coincidenti con il marito, anch’esso
   lavoratore nella stessa realtà e soprattutto la frequenza con cui questi turni fossero
   previsti nell’orario serale.

   Recatisi presso la ditta, gli ispettori intervistando in processo di sommarie informa-
   zioni il direttore della struttura riportavano le fedeli parole da lui pronunciate «lei
   ha tradito la mia fiducia… prima ha fatto un figlio, poi ne ha fatto un altro… mi ha
   tradito».

   Credo che poco altro si debba aggiungere!

   Se analizzassimo qualche sanzione, ad esempio riferita alle discriminazioni relative
   all’accesso, alla formazione professionale, alla parità retributiva, alle qualifiche, alle
   mansioni e alla carriera, all’età del pensionamento, ci accorgeremmo che la sanzio-
   ne è amministrativa e va da euro 5.000 a 10.000; si dice anche che la sanzione non
   sia diffidabile, ma all’importo vadano applicate altre pene accessorie come la revoca
   dei benefici, l’ esclusione fino a due anni dagli appalti e la restituzione delle somme
   riscosse.

   A questo punto occorre una precisione relativamente alla diffida obbligatoria, istitu-
110  ita con l’art. 13 del d.lgs. 124/2004.

   Si tratta di un particolare strumento che mira ad ottenere l’immediata regolarizza-
   zione della fattispecie se ancora materialmente possibile (ripresa del rapporto di
   lavoro o rientro nelle mansioni) e che per tanto estingue l’illecito con modalità age-
   volata di pagamento della sanzione.

   Relativamente alla sua applicabilità e al suo uso in contesti in cui siano state riscon-
   trate discriminazioni. In soccorso agli ispettore che la applicano sono arrivati chiari-
   menti da parte del Ministero con le circolari 24/2004 e 9/2006 che hanno stabilito,
   vista l’importanza della materia che non sia applicabile.

   In generale occorre tener presente che le violazioni del pieto di discriminazione si
   configurano quali reati di tipo contravvenzionale, che cioè puniscono il comporta-
   mento del datore di lavoro con la pena pecuniaria dell’ammenda.

   Prendiamo ad esempio l’art. 41 comma 2 d.lgs n. 198 del 2006, che punisce con la
   pena dell’ammenda la violazione dell’articolo 27 dello stesso decreto e cioè la prima
   tra le ipotesi considerate discriminatorie, il pieto per il datore di lavoro di praticare
   qualsiasi discriminazione fondata sul sesso nella fase dell’accesso al lavoro.

   La contravvenzione de qua non si presenta esclusivamente come reato di azione,
   che necessità cioè di una condotta attiva, ma è sufficiente a realizzare l’illecito pe-
   nale anche una mera partecipazione omissiva da parte del soggetto agente qualora
non attui direttamente e personalmente la discriminazione, ma per suo conto agi-
scano altri lavoratori all’interno o all’esterno dell’azienda, come ad esempio Agenzie
per il lavoro nella fase della selezione e dell’accesso.

La violazione di tale norma rappresenta una contravvenzione di pericolo, in quanto
la sua realizzazione non necessita di una prova di danno per essere accertata sus-
sistente; perché il reato si realizzi, il lavoratore non è necessario che dia prova o
dimostrazione di qualsivoglia danno subito, bastando l’accertamento della condotta
discriminatrice.

A seguito della depenalizzazione dei reati puniti con la sola sanzione amministrativa
(d.lgs. 81/2016) le violazioni si applicano alle fattispecie commesse a partire dal 6
febbraio 2016, alle condotte poste in essere dopo tale data, ma anche alle condotte
precedenti purché un’eventuale procedimento penale non sia già stato definito con
sentenza o decreto irrevocabili.

Le ipotesi, tra tutte quante le previste, che si differenziano nettamente per gravità,
essendo tra le economicamente più rilevanti, e che rappresentano il punto di tutela
più forte riconosciuto dal Codice delle Pari Opportunità, riguardano i due casi di
inottemperanza agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni collettive e
inpiduali.

Ci si riferisce all’inottemperanza al decreto o alla sentenza pronunciata nel giudizio  111
di opposizione a seguito sia di azione inpiduale che di azione collettiva, per la cui
fattispecie è previsto l’arresto fino a 6 mesi o ammenda fino a 50.000 euro accom-
pagnato dal versamento di 51 euro per ogni giorno del ritardo al Fondo nazionale
per l’attività dei Consiglieri di Parità.

Si tratta di contravvenzione punita alternativamente, per la quale è applicabile qua-
le modalità di estinzione del reato la prescrizione obbligatoria prevista dall’art. 15
del d.lgs. n. 124/2004 secondo cui il personale ispettivo è chiamato a prescrivere
la cessazione del comportamento illegale e il rispristino immediato della legalità
mediante ottemperanza o a intervenire con una prescrizione c.d. ora per allora se
il reato sia già stato compiuto e la reintegrazione nell’ordine giuridico possa essere
solo fittizia.

Un discorso ancor più complesso è dato dall’art. 51 del Codice di Pari Opportunità,
intitolato “Tutela e sostegno della maternità e paternità” che rimanda a tutta la di-
sciplina del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151.

In questo Testo Unico relativamente alla genitorialità vengono prese in considera-
zioni tutte le casistiche di seguito elencate: dimissioni - licenziamento, conservazio-
ne del posto di lavoro, pieto di adibire le donne al lavoro, lavoro notturno, allat-
tamento, congedo parentale e congedo di paternità, congedo di maternità nei casi
di adozione e affidamento e altri diritti garantiti come ad esempio la c.d. malattia
bimbo.
   Tra tutti questi contenuti, alcuni vengono analizzati come ipotesi discriminatorie
   specifiche e sono i casi di dimissioni, licenziamento e conservazione del posto, i casi
   di non riconoscimento delle c.d. “ore di allattamento” e i casi di congedo di mater-
   nità nelle situazioni di adozione e affidamento.

   Ma perché possiamo farle rientrare in ipotesi discriminatorie? Perché il legislatore
   in via amministrativa punisce le condotte lesive dei diritti dei soggetti, genitori lavo-
   ratori, che si siano trovati ad aver fruito dei congedi parentali, ad esempio per l’a-
   stensione facoltativa; che non abbiano visto riconosciuto il diritto di conservazione
   nel posto occupato all’inizio del periodo di congedo o in altro equivalente; che non
   abbiano potuto godere dei riposi, permessi e congedi previsti.

   Se andassimo ad analizzare il modulo delle dimissioni, che deve essere compilato
   e sottoscritto davanti ad un pubblico ufficiale proprio presso la sede di un Ispetto-
   rato territorialmente competente (la residenza della lavoratrice o del lavoratore o
   la sede legale della ditta), ci accorgeremmo della sua possibile pisione in 3 parti.

   La prima parte consta in una premessa nella quale si indicano alla lavoratrice madre
   le tutele a lei riconosciute (occupazionale, fisica, familiare ed economica); la secon-
   da parte è costituita da un questionario che permette di analizzare la situazione
   personale della lavoratrice; una terza parte dà indicazioni statistiche e si sudpide
   ulteriormente in una sezione a carattere motivazionale personale e in una sezione a
112  carattere statistico riferito proprio all’azienda in cui si lavora.

   Se in sintesi dovessimo descrivere come avvengono le dimissioni c.d. protette do-
   vremmo parlare di un colloquio personale dinnanzi ad un pubblico ufficiale, che ha
   contenuti fissati e che per questo termina in una conclusione stabilita.

   Se altrettanto in sintesi dovessimo chiederci il perché dell’intervento degli ispet-
   tori del lavoro, dovremmo dire che è per contrastare il fenomeno dei licenziamen-
   ti mascherati da dimissioni forzate cd. “in bianco”; che è per garantire uniformità
   nell’analisi delle singole situazioni e soprattutto che è per dare maggior efficacia al
   provvedimento di accertamento dell’autenticità della volontà dell’interessata che
   necessariamente deve essere effettiva, reale, spontanea, consapevole; in un’unica
   parola il legislatore la riassume come volontà personale.

   Per quanto riguarda invece l’ipotesi prevista come discriminatoria del licenziamento
   e il diritto alla conservazione del posto, la disciplina viene stabilita dall’art. 54 del
   T.U.

   Il testo dice che è punito il datore di lavoro per aver licenziato la lavoratrice duran-
   te il periodo di gestazione o fino al compimento di un anno del bambino; per aver
   licenziato il lavoratore che fruisce del congedo di paternità fino al compimento di
   un anno del bambino; per aver licenziato il genitore affidatario o adottivo fino al
   compimento di un anno dell’ingresso del bambino nel nucleo familiare.”
A tale dettato normativo vengono però riconosciuti dei limiti dettagliatamente espli-
citati: ad esempio quando il datore abbia la prova di una colpa grave della lavora-
trice, che costituisca giusta causa di licenziamento; oppure quando viene a cessare
l’attività dell’azienda alla quale la lavoratrice è addetta; nel caso risulti definitiva-
mente ultimata la prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o quando
il rapporto si sia risolto per scadenza naturale del termine; da ultimo qualora si sia
avuto un esito negativo del periodo di prova pattuito.

Teniamo presente che le due ipotesi previste relativamente alle dimissioni, al licen-
ziamento e alla conservazione del posto sono state estese al padre lavoratore, ove
questi venga a fruire del congedo di paternità o in caso di morte della madre, grave
infermità della madre, abbandono della madre o affidamento esclusivo del bam-
bino e trovano applicazione anche ai genitori adottivi o affidatari fino a un anno
dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.

Altra ipotesi riconosciuta come discriminatoria è prevista dall’art. 46 d.lgs. 151/2001
che punisce l’inosservanza da parte del datore di lavoro degli artt. 39, 40, 41, 45 che
non ha consentito di godere dei riposi alla madre/al padre; che non ha consentito di
uscire fisicamente dall’azienda; che non ha considerato i riposi ore effettive ( sia per
durata che retribuzione); che non ha raddoppiato le ore nei casi di parti plurimi) o
che non ha consentito di godere dei riposi ai genitori affidatari/adottivi.

La condotta che si intende sanzionare si sostanzia nel rifiuto, nell’opposizione o     113
nell’ostacolo all’esercizio del diritto della lavoratrice o del lavoratore.

Tra le tante funzioni e compiti del personale ispettivo, fin qui analizzati indirettamen-
te nell’erogazione di alcune sanzioni previste, ve n’è una che funge da prevenzione
e repressione dei fenomeni discriminatori attraverso l’accertamento dell’effettiva
composizione per genere del personale dipendente di un’impresa e l’analisi dell’an-
damento dei movimenti del suo personale, intesi come assunzioni, progressioni,
licenziamenti.

Per questa finalità è previsto l’obbligo per i datori pubblici e privati che occupano
più di cento dipendenti di redazione del Rapporto sulla situazione del personale,
che dovrebbe essere trasmesso ogni 2 anni alle rappresentanze sindacali aziendali
e alle Consigliere Regionali.

Questo Rapporto contiene le informazioni con riferimento al personale maschile e
femminile, distinguendo le professionalità, lo stato e l’adattamento delle assunzioni,
della formazione e promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria e
di qualifica, di fenomeni di mobilità, di cassa integrazione e ricorso a licenziamenti,
prepensionamenti e pensionamenti; deve essere tassativamente redatto secondo le
indicazioni date dal Ministero del lavoro .

Su segnalazione delle RSA o della Consiglierà di Parità Regionale, se entro il 30 aprile
il rapporto non sia stato trasmesso, la Direzione Interregionale del lavoro compe-
   tente per territorio procede ad invitare le aziende, con lo strumento proprio della
   diffida, a provvedere entro 60 gg, al termine dei quali verrà erogata una sanzione
   amministrativa; in caso di persistente inadempimento, può essere disposta la so-
   spensione da benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda.

   A conclusione del mio intervento voglio riportarvi per un’ultima riflessione insieme
   il testo di una mail Inviata da Libero Mail per iOS il 3/7/2017, scrittami da un datore
   di lavoro, poco informato ma in buona fede, sanzionato per discriminazione.

       “Gentile dott.ssa,

       Volevo ringraziarla per l’opportunità di apprendimento di oggi.

       Vorrei davvero impostare la cooperativa secondo logiche di lealtà e di colla-
       borazione costante con le istituzioni.

       Il mio frenetico spirito da innovatrice mi spinge a forzare e osare spesso all’in-
       terno del complesso quadro normativo riguardante le politiche del lavoro. 

       So che compirò molti errori perché in un certo senso è insito nel mio lavoro
       forzare le politiche sociali a un cambiamento ma sapere che vi è comprensio-
       ne vale molto.

     Da presidente quindi grazie.
114
        Da mamma spero che le mie ansie mi facciano comunque insegnare alle mie
       figlie che preoccuparsi e assumersi responsabilità sono valori importanti.

       Un cordiale saluto.

       Francesca”
La discriminazione per maternità e dintorni
Laura Calafà*



1. Retrospettive
Il diritto antidiscriminatorio è definito come quell’insieme di norme volte ad im-
pedire, attraverso obblighi di natura negativa (ovvero pieti), che il destino delle
persone sia determinato da condizioni personali (come il sesso, la razza o l’origine
etnica, l’età, ecc.) e al tempo stesso consentire, attraverso obblighi di natura positi-
va, che identità soggettive differenti siano tutte egualmente riconosciute e tutelate
in omaggio al generale principio di eguaglianza tra inpidui.

L’evoluzione della disciplina dell’Unione Europea è sintetizzata da perse disposi-
zioni dei Trattati e di alcune Direttive a partire dai pieti di discriminazione in base al
sesso, da sempre centrali nel contesto di armonizzazione a livello dell’Unione, così
come rappresentato dall’art. 157 e dall’art. 153, lett. i) del TFUE.
                                                115
L’art. 157 TFUE riproduce, senza particolari modifiche, l’art. 141 del Trattato CE, che
ha modificato e integrato, a sua volta, l’art. 119 del Trattato CEE, tenendo conto
delle previsioni dell’art. 6 dell’Accordo sulla Politica Sociale, di alcune norme di di-
ritto comunitario derivato e dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di
Giustizia sulla parità di trattamento nel lavoro fra uomini e donne. D’altra parte, la
lett. i) dell’art. 153 TFUE — per cui il Parlamento e il Consiglio UE possono adottare
Direttive nel settore della «parità tra uomini e donne per quanto riguarda le oppor-
tunità sul mercato del lavoro e il trattamento sul lavoro» — rappresenta il momento
di massimo sviluppo della politica sociale dell’Unione, anche in raccordo con le Di-
rettive approvate ex art. 19 TFUE.

Il tema della parità di trattamento tra donne e uomini rappresenta la leva principale
utilizzata dalla Corte di Giustizia per la costruzione di un importante nucleo di prin-
cipi fondamentali della UE. Questi, negli anni, hanno legato il caso Defrenne II, nel
quale la Corte sancì l’applicabilità diretta dell’art. 119 TCEE (Corte giust. 8.4.1976,
causa C-43/75), già anticipata dal precedente caso Defrenne I del 1971, al recente
caso Test Achats (Corte giust. 1.3.2011, causa C-236/09), nel quale la Corte invalida
l’art. 5, par. 2, della Direttiva 2004/113 (in materia di parità tra donne e uomini nella
prestazione di beni e servizi) per la lesione ingiustificata del principio generale della
parità di trattamento sancito dall’art. 23 della CDFUE.

* Ordinaria di Diritto del lavoro, Università di Verona.
   L’evoluzione che va dal riconoscimento della parità di trattamento tra uomini e don-
   ne nel lavoro nel Trattato CE (penuto in seguito TFUE) all’affermazione nella CDFUE
   del principio di non discriminazione come diritto fondamentale, direttamente invo-
   cabile nei rapporti interprivati a livello nazionale anche oltre il campo di applicazio-
   ne originario dei relativi pieti nel lavoro, è contrassegnata da una serie di modifi-
   che normative e da alcune importanti sentenze della Corte di Giustizia. Occorre in
   proposito ricordare:

   • l’inserimento della parità di trattamento e di opportunità tra gli obiettivi dei
     Trattati (art. 3, par. 3, TUE e art. 8 TFUE);

   • l’affiancamento di una base giuridica persa in materia di regole antidiscrimina-
     torie in generale, a prescindere dal settore del lavoro (art. 19 TFUE);

   • la specifica considerazione del principio di non discriminazione e della parità di
     trattamento tra donne e uomini nel testo della CDFUE (risp. artt. 21 e 23).

   Oggi il principio di non discriminazione assurge a principio generale dell’ordina-
   mento europeo, che trova la propria concretizzazione in una serie di sentenze della
   Corte di Giustizia. Queste ultime focalizzano l’attenzione sull’applicabilità diretta nei
   rapporti tra privati del suddetto principio, anche oltre il genere. Questa premessa
   è necessaria in una giornata come quella di oggi in cui vi presento due questioni,
116  entrambe ricche di contraddizioni relative alla maternità. La finalità è quella di con-
   correre ad aumentare la consapevolezza di ciascuno operatore del diritto: esiste un
   raccordo chiaro tra il diritto del lavoro e il raccordo con il diritto antidiscriminatorio
   e le fonti principali di questo raccordo sono l’art. 15 legge n. 300/1970 e art. 10 d.lgs.
   276/2003.



   2. Esercizi di percezione: il licenziamento per giusta causa e la maternità
   Il caso di cui vorrei parlarvi oggi è indubbiamente complesso. Nonostante le poche
   questioni di stretto diritto che solleva, si riesce a trattare in modo compiuto l’intera-
   zione tra diritto del lavoro e diritto antidiscriminatorio con riguardo al funzionamen-
   to dell’onere della prova, ma soprattutto la gestione strategica del caso, anteceden-
   te alla presentazione del ricorso. Entrambi i profili meritano particolare attenzione
   perché arrivano, senza dubbio alcuno, ad inficiare gli esiti della causa.

   Le questioni di stretto diritto da trattare si risolvono sostanzialmente a due: l’insus-
   sistenza del licenziamento discriminatorio nel caso concreto e la conferma del licen-
   ziamento per giusta causa motivato da insubordinazione della lavoratrice regolato
   dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato all’azienda coinvolta. La gestio-
   ne del caso in azienda prima del licenziamento è condizionata quasi sicuramente da
   una serie di cattivi consigli che la lavoratrice ha ricevuto e che, soprattutto in sede
di opposizione ex l. 92/2012, emergono con tutta evidenza, risolvendo una serie di
dubbi che il decreto del mese di aprile 2018 non aiutava a chiarire.

In estrema sintesi, una lavoratrice dipendente di IKEA (madre separata di due figli,
di cui uno disabile al 100%) viene licenziata per giusta causa in ragione del mancato
rispetto degli orari modificati dal datore di lavoro. Il licenziamento è motivato da
ragioni discriminatorie (l’essere madre, in particolare di un figlio disabile) o è so-
stenuto dal mancato rispetto degli orari di lavoro da parte della lavoratrice che, in
autonomia, ha deciso di seguire i vecchi orari di lavoro, nel frattempo superati da
nuove formule di orario introdotte dal datore di lavoro?

Passando alle questioni di stretto diritto, si deve sottolineare che quella della sus-
sistenza del licenziamento discriminatorio è risolta in modo alquanto sbrigativo dal
giudice, il medesimo, in entrambe le sedi. Dopo aver ricordato l’art. 15 dello Statuto
dei lavoratori e la famosa sentenza della Cassazione civile sez. lav., 05/04/2016, n.
6575, citata dal giudice, in cui viene riconosciuto dal giudice di legittimità l’irrile-
vanza dell’elemento soggettivo al fine di configurare una discriminazione, il giudice
esclude che la ricorrente abbia assolto agli oneri probatori posti a sua carico (pag. 5
ord.: pag. 2-3 sent.) ed esclude l’esistenza di una discriminazione diretta in ragione
del sesso/maternità. Questo passaggio merita di essere approfondito perché al pro-
blema della sussistenza della discriminazione diretta che rende nullo il licenziamen-
to, si aggiunge a quello della prova in materia di discriminazione per ragioni di sesso.
                                                117
La questione di stretto diritto antidiscriminatorio coinvolge l’interpretazione degli
artt. 25 e 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 e dell’art. 3 del d.lgs. 26 marzo 2001, n.
151. Deve essere, in effetti, ricordato che – facendo sintesi della dimensione della
tutela con quella della parità della lavoratrice madre – l’art. 25 del d.lgs. 198/2006
nel 2010 aggiunge il seguente comma 2 bis: “Costituisce discriminazione, ai sensi
del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gra-
vidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della
titolarità e dell’esercizio”. Dai fatti in causa emerge che la lavoratrice assunta nel
reparto FOOD si autodetermina gli orari nel frattempo modificati dal datore di lavo-
ro perché l’orario di lavoro proposto risulta incompatibile “con le proprie esigenze
familiari” (pag. 1 dell’ord.). La ricorrente, che ha deciso di rispettare l’orario di lavoro
superato, deduce di aver patito un trattamento discriminatorio in ragione della sua
condizione di donna e madre in quanto “solo la sua condizione di madre l’ha costret-
ta ad opporsi alla turnazione che l’azienda pretendeva di imporle e solo la sua condi-
zione di madre (in particolare di un figlio disabile) l’ha costretta alle ripetute assenze
che l’hanno resa invisa alla società, e stigmatizzate anche nel comunicato con cui
la società ha cercato di giustificare il proprio comportamento”. La discriminazione
è, quindi, motivata dal fattore sesso e nella maternità, il trattamento sfavorevole
è rappresentato dal licenziamento intimato dall’azienda e il nesso di causalità che
lega fattore di protezione e trattamento sfavorevole risiede “nella impossibilità, in
considerazione degli impegni di assistenza familiare, di rispettare la turnistica e nel-
   la molteplicità di assenze”. In sede di opposizione al decreto di rigetto, il giudice si
   limita a scrivere quanto alla discriminatorietà del licenziamento che “la difesa della
   ricorrente non ha apportato elementi ulteriori rispetto a quelli allegati nella prima
   fase”, nel senso che non sono forniti elementi di fatto “precisi e concordanti” idonei
   a fondare la presunzione di licenziamento discriminatorio (pag. 3). Dopo aver ricor-
   dato – sempre e solo – la pronuncia del 2016, ritorna sulla centralità del comunicato
   stampa della società datrice di lavoro nella strategia di difesa della lavoratrice (e non
   sulla lettera di contestazione dell’addebito). Rispetto all’ordinanza precedente, nella
   sentenza si affronta con più chiarezza il ruolo svolto dai rappresentanti sindacali in
   azienda.

   La vicenda processuale cristallizzata nell’ordinanza del 3 aprile 2018 – in modo mol-
   to evidente – era solo agli inizi ed è proseguita con l’impugnazione depositata il
   successivo 20 aprile 2018 conclusa con la sentenza del 29 ottobre 2018 che ne con-
   ferma in toto gli esiti. La vicenza in sede di appello risulta conciliata tra le parti.

   Sono molti gli elementi da ricomporre in questa sede per offrire un commento com-
   pleto e per offrire agli operatori, soprattutto sindacali, sollecitazioni utili per utilizza-
   re in modo corretto il diritto antidiscriminatorio nel contesto di un licenziamento. In
   primo luogo, traspare che lo stesso giudice del Tribunale di Milano scrivendo la mo-
   tivazione dell’ordinanza anche in ragione del rito prescelto (ex art. 1, comma 48. l.
   92/12), ricorda che un’eventuale fase di opposizione potrebbe essere avviata anche
118  al fine di meglio approfondire le questioni di merito sollevate che la fase cautelare
   non consente di approfondire.

   Al licenziamento è stata data ampia eco sulla stampa nazionale anche perché – dopo
   la pronuncia – i colleghi hanno effettuato uno sciopero di solidarietà nei confronti
   della lavoratrice licenziata. Considerato il tema, una lettura di carattere tecnico-giu-
   ridico deve essere accompagnata da un’adeguata rilevanza della vicenda umana:
   può un datore di lavoro impunemente licenziare una lavoratrice madre di un figlio
   disabile per il fatto che si prende cura del figlio? Purtroppo, dopo la lettura dell’ordi-
   nanza emerge una realtà fattuale che impone di riformulare la domanda stessa nel
   modo seguente: perché nessuno ha consigliato nel modo corretto la lavoratrice dal
   mese di giugno al mese di ottobre 2017? Ad una lettura attenta, non sfugge che la
   concreta gestione del caso nel periodo antecedente al licenziamento è carente di
   ogni necessaria cautela volta ed evitare il licenziamento per giusta causa della cui
   legittimità (sia il giudice della sede cautelare che di merito) non dubitano. La suc-
   cessiva sentenza spiega che sugli esiti complessivi della causa hanno pesato anche i
   cattivi consigli ricevuti dalla lavoratrice: l’orario nuovo della lavoratrice non poteva
   risultare sospeso dalla mera sottoposizione delle questioni di conciliazione vita e
   lavoro in sede di riunioni tra la rappresentanza sindacale e il capo del personale.
   Come scrive il giudice, anche se la questione fosse stata posta (e non c’è prova che
   lo sia stata) “ciò non avrebbe autorizzato la lavoratrice a violare la turnazione solo
   perché non conpisa. La lavoratrice, più correttamente avrebbe potuto impugnare
la nuova turnazione, ma non certo autodeterminarsi il turno secondo le proprie,
seppur legittime, esigenze, ignorando la disposizione del datore di lavoro” (pag. 6
sent.). I rappresentanti sindacali, insomma, non hanno svolto un ruolo chiaro dato
che il giudice aggiunge espressamente che sulla consapevolezza della lavoratrice
rispetto ai turni e alla vigenza delle relative regole in materia di orario hanno pesato
consigli che non avrebbero, comunque, inciso sul rilievo disciplinare della condotta,
né sull’elemento soggettivo in capo alla ricorrente. Un errore strategico, quindi, che
ha indubbiamente pesato sull’intera vicenda.

Che il lavoro a turni sia di difficile conciliazione con le esigenze di cura dei figli è un
fatto noto, che ancor di più la conciliazione sia difficile per una madre separata è
fatto certo e che sia estremamente difficile far fronte alla cura di un figlio disabile
pure. Quello che si rileva – fino a prevalere nel caso specifico – è che il costrutto
della discriminazione non risulta sostenuto da prova adeguata. Il ricorso contro il
licenziamento pare costruito non a partire dalla lettera di contestazione dell’adde-
bito, ma dal testo del comunicato stampa (come riportato dai numerosi quotidiani
che l’hanno pubblicato, seppur parzialmente, in cui si evocano le assenze della lavo-
ratrice). Ma in corso di causa penta centrale solo la lettera di contestazione dell’a-
zienda da cui emerge la centralità della scelta della lavoratrice di autodeterminarsi
l’orario e non altro (trattamento anche pregresso dei permessi per assistenza del
figlio disabile). Il datore di lavoro prova (in applicazione al riparto dell’onere della
prova indicato dall’art. 40 del d.lgs. 198/06) che ha sempre concesso i permessi per
                                               119
assistenza al figlio disabile, che la lavoratrice non ha avuto blocchi di carriera e che
“in occasione delle variazione di turni decise nel giugno 2017 ha cercato di venire
incontro alle esigenze della lavoratrice, sia impostando una turnistica sulla base del-
le esigenze rappresentate (…) e chiedendo agli altri coordinatori di rendersi flessibili
al fine di poterle accogliere, sia accogliendo ben 15 indicazioni inpiduate” dalla
lavoratrice “come assolutamente imprescindibili su un totale di 17”. Su quelle due
richieste non accettate relative agli orari del lunedì e del martedì si è concentrata la
forzatura della lavoratrice e il conseguente licenziamento.

Il passaggio chiave dell’intera vicenda è proprio la scelta compiuta della lavoratrice
di autodeterminare una parte di orario di lavoro applicando formule orarie oramai
superate per tutti gli altri lavoratori e lavoratrici del servizio FOOD senza alcuna cau-
tela (lettere e/o comunicazioni scritte in cui si segnala per ciascuno spostamento/
cambiamento di orario il carico di cura da assolvere ma non assolto, ad esempio, e/o
la comunicazione preventiva di necessità di un orario perso cercando di mantene-
re l’orario assegnato in ragione del potere direttivo dell’azienda senza lasciarsi coin-
volgere, tra le altre cose, in discussioni dai toni accesi con le referenti del reparto).
Dalla ricostruzione emerge, ad esempio, che il tema non è solo quello delle assenze,
ma delle presenze della lavoratrice in fasce di orario non dovute oltre che una serie
di reazioni che la stessa avrebbe tenuto davanti a testimoni nel luogo di lavoro (tut-
te confermate in giudizio). Senza nessuna messa in mora formale della direzione,
non può che ammettersi un troppo facile spostamento dell’attenzione del datore di
   lavoro sull’art. 229 del CCNL Aziende del Terziario Distribuzione e Servizi (ipotesi di
   accordo del 26/2/2011 modificato e sottoscritto definitivamente in data 6/472011)
   che prevede tra le cause di licenziamento disciplinare - in via esemplificativa - “l’in-
   subordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso”.

   Il licenziamento per giusta causa dichiarato come legittimo dal giudice è fondato
   sull’insubordinazione, perché le altre fattispecie (ritardo, permanenza nel luogo di
   lavoro oltre l’orario) non sono idonee a supportare un recesso in tronco del datore
   di lavoro. In questa sede, non si può non prospettare la possibilità del ridimensiona-
   mento della gravità dell’insubordinazione in ragione dello stress emotivo della lavo-
   ratrice (escluso da Cassazione civile, 18 luglio 2018, n.19092, sez. lav., con riguardo
   ad un caso molto perso da quello del peso della cura di un figlio disabile come
   nelle pronunce che si commentano). Sulla valutazione che deve essere effettuata
   dal giudice di merito, in effetti, si ricorda che “nell’applicare le clausole generali
   come quella di cui all’art. 2119 o all’art, 2106 c.c., che dettano tipiche ‘norme ela-
   stiche’, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo
   della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poi-
   ché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi
   desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla
   disciplina particolare” (Cassazione civile, 09 novembre 2016, n. 22796, sez. lav.; si
   legga altresì Cassazione civile sez. lav., 17/05/2018, n. 12094 sul legame discrimi-
   nazione e insubordinazione; contra Corte appello, Torino, 26/03/2001). Oltre alla
120
   giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, possono trarsi osservazioni utili alla
   trattazione di tali tipologie di cause anche dall’interpello 68 del 2009 del Ministero
   del lavoro. In effetti, dopo aver ricostruito i principi da considerare in tema di con-
   ciliazione vita e lavoro, scrive il Ministero che “nell’ordinamento vigente vi sia un
   tendenziale riconoscimento di un obbligo, a carico del datore di lavoro, di valutare
   la possibilità, secondo canoni di correttezza e buona fede, di assegnare i dipendenti
   a turni di lavoro compatibili con le loro qualificate e comprovate esigenze familiari,
   specie quando la determinazione di un particolare orario di lavoro non comporti
   per l’azienda apprezzabili difficoltà organizzative”. A ciò aggiunge che “l’esercizio del
   potere organizzativo del datore di lavoro, rientrante nella libertà di iniziativa eco-
   nomica garantita dall’art. 41 Cost., vada esercitato proprio nel rispetto dei canoni
   di correttezza e buona fede e vada contemperato con la protezione di altri interessi
   anch’essi tutelati dall’ordinamento costituzionale (artt. 3 e 37 Cost.) e comunitario
   (Direttiva n. 76/207/C.E.E. 9.2.1976), facenti capo al lavoratore. Tutto ciò premes-
   so, il datore di lavoro, ancorché non presenti progetti di richiesta di contributi per
   la promozione di azioni volte ad incentivare la conciliazione dei tempi di vita e di
   lavoro, non è esonerato dal dovere di leale collaborazione sotto i profili della buona
   fede, correttezza e ragionevolezza nello svolgimento del rapporto di lavoro. Per-
   tanto lo stesso è tenuto valutare con la massima attenzione ogni soluzione utile ad
   agevolare l’assolvimento della funzione genitoriale del dipendente, in particolare
   attraverso una persa organizzazione del lavoro o una flessibilizzazione degli orari.
   Tale valutazione, evidentemente, andrà effettuata con riferimento al caso concreto,
avendo riguardo alla oggettiva e comprovata situazione di difficoltà familiare e alle
documentate esigenze di accudienza ed educative della prole”. Anche il diritto pri-
vato può aiutare a ridimensionare la gravità del comportamento contestato (dopo
il licenziamento) così come può supportare la messa in mora il datore di lavoro che
non risponde alle richieste di considerare le esigenze di cura della lavoratrice (prima
dell’esercizio del recesso ex art. 2119). Perché una risposta concreta sull’equilibrio
da garantire a livello di singola azienda deve essere ricavata dalla corretta pondera-
zione degli interessi da confrontare nel caso concreto, ricordando che la madre di un
figlio disabile è anche protetta dalla gravità del peso del fattore di rischio disabilità
attraverso la discriminazione cd. associata (come insegna il caso CE 17 luglio 2008,
Coleman, C-303/06; l concetto di discriminazione associata in essa legittimato è già
stato applicato in Italia dal Tribunale Pavia, 19/09/2009 e dal Tribunale ordinario di
Milano, sezione lavoro, ordinanza del 16 settembre 2010).



3. Conclusioni: genitorialità,      discriminazioni    e   famiglia   in
  trasformazione
Per concludere l’incontro di oggi, non si può non ricordare che - in generale, dal
punto di vista del sistema regolativo nel suo complesso – è proprio la genitorialità
LGBT che ci ricorda che quello nazionale è un sistema di regole rigide, costruite su
congedi obbligatori e astensioni meramente facoltative della sola madre lavoratri-
                                              121
ce subordinata, ci sembra necessario far seguire un sistema regolativo attento alla
completa parificazione tra genitori naturali e affidatari o adottivi, teso a riconoscere
un dovuto ruolo dei padri nel contesto della cura dei figli, anche disabili, e un’esten-
sione delle regole protettive nei confronti dei genitori – lavoratori autonomi e liberi
professionisti – che si facesse anche carico dell’estensione delle formule di tutela
nei confronti della genitorialità LGBT.

Le Corti, a ogni livello e con ogni competenza in materia, diretta o solo indiretta,
sono chiamate ad arginare le antinomie tra il reale sistema economico-sociale e le
regole dedicate alla genitorialità. Senza sottovalutare le strette connessioni tra rap-
porto di lavoro e rapporto previdenziale, come è successo in particolare tra il 2015 e
il 2017 a seguito della cancellazione della collaborazione a progetto, i cui effetti sono
stati solo parzialmente sanati con l’approvazione della l. 81/17 dedicata allo statuto
del lavoratore autonomo. Siamo qui, in sede sindacale, perché senza dubbio anche
il sindacato in sede contrattuale registra questa tensione.

Non si può non tener conto anche dell’attuale struttura e dei contenuti del testo
unico sulla maternità e paternità del 2001. Il risultato di un’infinita sequenza di cor-
rezioni senza un disegno complessivo teso a dare una risposta chiara e coerente al
già difficile equilibrio teorico da raggiungere tra tutela del figlio, dell’eguaglianza
della donna, la parità tra i genitori – qualunque sia il loro orientamento sessuale – e
rispettoso della tutela sociale di ogni nucleo familiare (anche composto da lavora-
   tori autonomi e/o collaboratori coordinati continuativi) ha prodotto un testo unico
   pieno di ridicole forzature tecniche oltre che di evidenti vuoti di tutela. Qualche
   esempio? L’art. 28, dedicato al Congedo di paternità, contiene regole per i genitori
   lavoratori autonomi nei confronti dei quali l’ordinamento non riconosce il congedo,
   ma solo un’indennità senza astensione. L’art. 70 è intitolato alle Indennità di ma-
   ternità per le libere professionistiche, ma in realtà contiene regole specifiche sul
   padre libero professionista cui spetta l’indennità “di maternità” per il periodo in cui
   sarebbe spettata alla madre libera professionista o per la parte residua, solo in caso
   di morte o di grave infermità della madre, ovvero di abbandono, nonché in caso di
   affidamento esclusivo del bambino al padre. Con ciò evitando di seguire la strada
   che la Corte costituzionale aveva segnato nel 2005 valorizzando la libera scelta dei
   genitori su chi potesse fruire del congedo. L’art. 42 contiene le regole per i Riposi
   e permessi con figli con handicap grave che a seguito dei numerosi interventi della
   Corte costituzionale ha visto completamente ridefinita la platea dei beneficiari che
   è arrivata ad includere, al posto del genitore, lo stesso figlio “che, al momento del-
   la presentazione della richiesta del congedo, ancora non conviva con il genitore in
   situazione di disabilità grave, ma che tale convivenza successivamente instauri, in
   caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convi-
   vente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle
   sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a
   richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine determinato dalla legge”
122  (Corte cost. n. 232/2018).

   La vicenda dei padri lavoratori autonomi/liberi professionisti è paradigmatica della
   contraddizione tra il presente della genitorialità e il sistema regolativo. Tale deve
   essere ricostruita ricordando tre sentenze della Corte costituzionale tutte dedicate
   ai padri liberi professionisti: 385/2005, 285/2010 e 105/2018. Il recepimento non
   è forse l’occasione giusta per proporre un rinnovato, ambizioso progetto italiano di
   work life balance?



   Riferimenti giurisprudenziali e bibliografici
   M. Peruzzi, La prova del licenziamento ingiustificato e discriminatorio, 2017, Torino,
   Giappichelli;

   A. Allamprese, L. Fassina, Vademecum per l’Europa. Guida per gli operatori degli
   Uffici vertenze del sindacato, 2015, Roma, Ediesse;

   L. Calafà, Pari opportunità e pieti di discriminazione, in Nuove Leggi Civili Commen-
   tate 3/2010, p. 537 e ss.
Maternità in avvocatura: contrasto alle
discriminazioni
Marta Tricarico*




Una lettura appassionata delle riflessioni e relazioni sulle posizioni assunte nell’As-
semblea costituente dalle Onorevoli Maria Federici e Angelina Merlin sui problemi
delle donne lavoratrici e in particolare sulla maternità e la sua tutela (art. 37 della
Costituzione) riaffaccia l’esigenza di fronteggiare in maniera adeguata, con chiarezza
di inquadramento, i principi di uguaglianza e non discriminazione nel lavoro e tra i
sessi, che devono essere coniugati all’adempimento delle funzioni e dei doveri del-
la maternità con una speciale e adeguata protezione della salute e della vita della
donna e del fanciullo.

Nella Costituzione (art. 37) troviamo il principio che obbliga il legislatore ad assicu-        123
rare che le condizioni di lavoro consentano adeguate protezioni alla maternità ed
all’infanzia, ove “tutelare” e “proteggere” non significa riconoscere una situazione
d’inferiorità, ma rendere effettiva nel momento della maternità, la parità tra i lavo-
ratori e le lavoratrici.

L’articolo 37, comma 1, stabilisce infatti che “le condizioni di lavoro devono consen-
tire (alla donna) l’adempimento della sua essenziale funzione familiare” “le condi-
zioni di lavoro devono assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata
protezione”.

In Italia, la prima legge che aveva previsto per le madri lavoratrici un congedo obbli-
gatorio di 4 settimane post parto (non retribuito) risale al 19 giugno del 1902 con
la legge n. 242 (c.d. “legge Carcano”); ben più lungo è stato il percorso di ricono-
scimento dei diritti delle donne legati alla maternità, alle esigenze di conciliazione
e alla tutela della salute quando si è trattato delle libere professioniste o lavoratrici
autonome.




* Avvocata del Foro di Bologna; Referente Formazione Gruppo Giustizia UDI (Unione Donne in Italia)
sede Bologna; Vice Presidente/Segretaria Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bo-
logna.
   La prima avvocata iscritta all’Ordine forense fu Lidia Poet nel 18831 che pervicace-
   mente riuscì a smantellare quei pregiudizi discriminatori che ritenevano «disdice-
   vole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo
   strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e
   nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso
   più gentile si conviene di osservare”.

   Dunque non può stupire che per ottenere una effettiva politica di tutela della ma-
   ternità nell’esercizio della professione forense abbiamo dovuto attendere in Ita-
   lia 135 anni, ovvero l’introduzione, nella legge di bilancio 2018, del comma 5-bis
   nell’art. 420-ter c.p.p., che dal 1° gennaio 2018, prevede che lo stato di gravidanza
   debba ritenersi causa di legittimo impedimento assoluto se certificato, con l’unica
   eccezione di quelle cause rispetto alle quali si richiede una trattazione urgente.

   Pertanto, in tali limitate ipotesi, l’avvocata dovrà necessariamente farsi sostituire.

   Sul fronte civilistico, si fa esplicito riferimento al Decreto legislativo 26 marzo 2001,
   n. 151 (cd. Testo unico maternità e paternità), ricomprendendo esplicitamente,
   quali ipotesi di legittimo impedimento, le fattispecie di adozione nazionale ed inter-
   nazionale, nonché di affidamento del minore.

   Il comma 274-quinquies della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 aggiunge un ulterio-
   re comma all’articolo 81-bis delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedu-
124  ra civile (“Calendario del processo”), prescrivendo che: «Quando il difensore docu-
   menta il proprio stato di gravidanza, il giudice, ai fini della fissazione del calendario
   del processo ovvero della proroga dei termini in esso previsti, tiene conto del periodo
   compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successi-
   vi. La disposizione si applica anche nei casi di adozione nazionale e internazionale
   nonché di affidamento del minore avendo riguardo ai periodi previsti dall’articolo
   26 del testo unico delle disposizioni legislative di tutela e sostegno della maternità e
   della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Dall’applicazione
   del presente comma non può derivare grave pregiudizio alle parti nelle cause per le
   quali è richiesta un’urgente trattazione».

   In ambito penalistico, la novità è stata collocata (dal comma 274-sexies della Legge
   27 dicembre 2017, n. 205) all’articolo 420-ter (“Impedimento a comparire dell’im-
   putato o del difensore”) del codice di procedura penale cui, dopo il comma 5, viene
   aggiunto il seguente:

   «5-bis. Agli effetti di cui al comma 5 il difensore che abbia comunicato prontamente
   lo stato di gravidanza si ritiene legittimamente impedito a comparire nei due mesi
   precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi ad esso».


   1 Lidia Poet si iscrive all’Ordine degli Avvocati di Torino, anche se solo dopo legge, la n. 1179 del 17
   luglio 1919 nota come legge Sacchi, che abolì l’autorizzazione maritale e autorizzò le donne ad entrare
   nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari, Lidia Poët nel
   1920, all’età di 65 anni, penne ufficialmente avvocata.
Le avvocate hanno visto quindi finalmente riconosciuto un diritto che le discrimi-
nava in ragione dello stato di gravidanze e maternità seppur già con l’ art. 3 del
d.lgs. n. 151/2001 venisse “vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse
al sesso, secondo quanto previsto dal d.lgs. 198/2006, con particolare riguardo ad
ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di
maternità e paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’eser-
cizio dei relativi diritti”.

È vero che il Legislatore nazionale aveva già incluso tra le discriminazioni fondate sul
sesso anche quelle che sono attuate avendo a riferimento lo stato di gravidanza, ma
la normativa non era applicata ad avvocate/i.

Ciò posto, mentre per le lavoratrici dipendenti l’astensione dal lavoro si attua 3
mesi ante e due post-parto, per le lavoratrici autonome questo obbligo non sussiste
(Corte Costituzionale: sentenze n. 150 del 1994 e n. 181 del 1993), potendo queste
ultime continuare ad esplicare la loro attività e, al contempo, percepire dall’Inps
o dalla Cassa Professionale l’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la
data del parto e i tre mesi dopo, a prescindere dall’effettiva astensione dall’attività,
a condizione che vi sia l’inesistenza del diritto a indennità di maternità per qualsiasi
altro titolo.

L’art. 70 del d.lgs. n. 151/2001 prevede che possono avere l’indennità di maternità
tutte le libere professioniste appartenenti alle seguenti casse:              125

• Cassa nazionale del notariato;

• Cassa azionale di previdenza ed assistenza a favore degli avvocati e procuratori;

• Ente nazionale di previdenza e di assistenza farmacisti;

• Ente nazionale di previdenza e assistenza veterinari;

• Ente nazionale di previdenza e assistenza medici;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri;

• Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti liberi
  professionisti;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti com-
  merciali;

• Ente nazionale di previdenza e assistenza per i consulenti del lavoro.
   Sul punto del mancato riconoscimento alla donna esercente la libera professione
   di avvocato del «diritto di usufruire del periodo di maternità così come previsto
   dall’Ordinamento italiano per le altre lavoratrici» era stata anche sollevata questio-
   ne di legittimità costituzionale dal Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata
   di Foligno in riferimento agli articoli 3, 31, secondo comma, e 37 della Costituzione,
   nonché al diritto di difesa.

   La questione non era stata esaminata nel merito, perché la Corte Costituzionale,
   con decisione del 20 dicembre 2012 n. 312, in accoglimento alle eccezioni sollevate
   dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura ge-
   nerale dello Stato, aveva dichiarato inammissibile la questione per difetti e carenze
   della ordinanza di rimessione.

   Tuttavia rileva che fra le definizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. n. 151/2001 si
   trovano quelle di “lavoratrice” e “lavoratore”, prevedendosi che - salvo che non sia
   altrimenti specificato - con tali espressioni si intendono i dipendenti, compresi quel-
   li con contratto di apprendistato, di amministrazioni pubbliche, di privati datori di
   lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative. I lavoratori autonomi sono pertanto
   esclusi, in linea di principio, dalle tutele apprestate dal d.lgs. n. 151/2001.

   Altre questioni di rilevanza costituzionale sono state prospettate sull’uguaglianza tra
   i genitori, sulle discipline finalizzate alla protezione del nascituro e sulla tutela della
126  salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di
   tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quel-
   la del padre (Corte Cost., 28 luglio 2010, n. 285, in Foro it., 2010, I, 2581).

   Altra pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 423/1995) ha sottolineato il
   rilievo costituzionale del valore rappresentato dal ruolo di madre della lavoratrice
   (sentenze n. 181 del 1993, nn. 61 e 132 del 1991), che comporta come, nel rapporto
   di lavoro, non possano frapporsi né ostacoli, né remore, alla gravidanza e alla cura
   del bambino nel periodo di puerperio, dovendo essere assicurata una speciale, ade-
   guata protezione al bambino e alla madre. Questa deve esser posta in condizioni (di
   lavoro) tali da poter adempiere alla sua essenziale funzione familiare. In particolare
   si è affermato che il principio posto dall’art. 37 Cost. - collegato al principio di egua-
   glianza - impone alla legge di impedire che possano derivare conseguenze negative
   dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino.

   Anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea2 risulta chiaramente che
   qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravi-
   danza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso,3 e

   2 In applicazione alla Direttiva 2006/54/CE ex multis Corte di Giustizia UE 142 del 7/2/2018, Corte di
   Giustizia UE del 18/3/2014 n.C-363/12.
   3 L’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva 2006/54 così dispone: «È vietata qualsiasi discri-
   minazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto
   pubblico. Direttiva recepita in Italia con decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5 (GU Serie Generale
che è altresì opportuno prevedere esplicitamente la tutela dei diritti delle lavoratrici
in congedo di maternità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprende-
re lo stesso lavoro o un lavoro equivalente e a non subire un deterioramento delle
condizioni di lavoro per aver usufruito del congedo di maternità nonché a beneficia-
re di qualsiasi miglioramento delle condizioni lavorative cui dovessero aver avuto
diritto durante la loro assenza.4

La Direttiva n. 41/2010 UE5, nota per l’applicazione del principio di parità di tratta-
mento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, impone agli
Stati membri di adottare misure tese a garantire che alle lavoratrici autonome e alle
coniugi e conviventi di lavoratori autonomi possa essere concessa, un’indennità di
maternità, in ogni caso.

Successivamente il quadro normativo e antidiscriminatorio si è ampliato passando
da una tutela specifica nel trattamento della maternità a prevedere gli strumenti
volti a facilitare il traguardo della “conpisione”, e degli effetti ad esso connessi,
sia proprio il congedo di paternità, ma anche parentale, favorendo l’eguaglianza tra
uomini e donne nel mercato del lavoro nel contesto del principio delle pari oppor-
tunità.

Attualmente quindi l’indennità di maternità compete, sia alla lavoratrice professio-
nista che al lavoratore professionista (sent. C.C. n. 385/2005) anche in presenza di
adozione o affidamento a patto che il bambino non abbia superato i sei anni di età              127
al momento dell’inserimento nel nucleo familiare.

Nel caso di adozioni internazionali il diritto (tre mesi successivi all’ingresso in fami-
glia del minore adottato o affidato) può essere esercitato anche per i bambini di età
compresa tra i sei anni e il compimento della maggiore età.(sent. C.C. n. 371/2003).


n.29 del 05-02-2010).
4 A mente di tale principio è interessante menzionare il caso che ha coinvolto una Magistrata italia-
na, (esaminato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo Prima Sezione decisione Ricorso n. 29923/13
Anna Maria Cristaldi contro l’Italia) La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita il
22 maggio 2018 ribadendo che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, la discriminazione
consiste nel trattare in maniera persa, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole, persone poste
in situazioni equiparabili, coglie l’occasione per rammentare che il progresso verso la parità dei sessi
è un obiettivo importante per gli Stati membri del Consiglio d’Europa e che solo considerazioni molto
forti possono portare a ritenere compatibile con la Convenzione una disparità di trattamento. La Corte
rigetterà la domanda rilevando, tuttavia, che: lo scopo e le condizioni dell’indennità giudiziaria erano
legate all’esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie e ritiene dunque che, in questo particolare con-
testo, la perdita di detta indennità speciale durante l’assenza dal lavoro, indipendentemente dal tipo
di assenza, non sarebbe di natura tale da causare una perdita reale per l’interessata, in quanto legata
all’esercizio effettivo delle funzioni durante un periodo percepiva comunque l’indennità di maternità.
5 All’Art. 8 denominato “Prestazioni di maternità” prevede espressamente l’obbligo per gli Stati mem-
bri di adottare le misure necessarie a garantire che alle lavoratrici autonome e alle coniugi e convi-
venti di cui all’articolo 2 possa essere concessa, conformemente al diritto nazionale, un’ indennità di
maternità sufficiente che consenta interruzioni nella loro attività lavorativa in caso di gravidanza o per
maternità per almeno 14 settimane.
   Qualora si dovesse verificare interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria,
   non prima del terzo mese di gravidanza, spetta l’indennità di maternità per una
   mensilità.

   Qualora l’interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, avvenisse dopo il
   compimento del sesto mese, compete l’indennità di maternità per intero.

   L’indennità di maternità viene assegnata in misura pari all’80% di cinque dodicesimi
   del solo reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro auto-
   nomo dalla libera professionista nel secondo anno antecedente a quello dell’evento.



   Indennità di maternità: modalità di richiesta
   La domanda finalizzata all’indennità di maternità deve essere presentata, su appo-
   sito modulo predisposto dalla Cassa Forense, a decorrere dal compimento del sesto
   mese di gravidanza ed entro e non oltre il termine categorico di 180 giorni dopo il
   parto.

   Stesso termine per interruzione della gravidanza. La domanda per avere la presta-
   zione è da presentarsi entro i 180 giorni dalla data dell’evento.

   Cassa Forense riconosce, inoltre, un’indennità in caso di eventi riferiti alla materni-
128
   tà, sia nel caso di nascita di un figlio, sia in caso di aborto (avvenuto fra il 61° giorno
   e la 26a settimana), sia in ipotesi di adozione o affidamento.

   Possono beneficiare di tale istituto tutte le iscritte alla Cassa con decorrenza an-
   teriore rispettivamente alla data del parto, dell’aborto, o dell’ingresso del minore
   nella casa materna.

   Le richiedenti non devono avere diritto ad altra indennità erogata da altra struttura
   di cui al capo III e XI del d.lgs. n.151/2001 (lavoratrici dipendenti, autonome, im-
   prenditrici agricole).

   L’indennità erogata è pari all’80% di 5/12 del reddito professionale Irpef netto pro-
   dotto nel 2° anno anteriore al verificarsi dell’evento.

   In ogni caso, l’indennità minima non può essere inferiore a quella stabilita in base
   alle tabelle INPS vigenti nell’anno del parto, e, l’indennità massima non può essere
   superiore a cinque volte l’importo minimo di cui sopra.

   L’indennità viene corrisposta in unica soluzione (applicando la ritenuta d’acconto
   del 20%, fatta eccezione dei casi ove è previsto l’esonero della ritenuta stessa) per i
   due mesi di gravidanza antecedenti la data presunta del parto e per i primi tre mesi
   di puerperio successivi alla data effettiva del parto, per un totale di cinque mensilità.
Altre misure
A queste misure si aggiunge quella prevista dall’art. 10 del Regolamento di attua-
zione dell’art. 21, commi 8 e 9 della l. 247/2012 che attribuisce, a tutti gli iscritti alla
Cassa la facoltà, a determinate condizioni, di essere esonerati dal pagamento dei
contributi minimi previsti per un determinato anno solare, fermo restando il ricono-
scimento dell’intero anno ai fini previdenziali.

Le casistiche per cui è concesso l’esonero sono quelle previste nel 7° comma dell’art.
21 della l. 247/2012 e precisamente:

• avvocata in maternità e nei primi due anni di vita del bambino;

• avvocata in caso di adozione e nei primi due anni dall’entrata in famiglia del
  bambino;

• avvocato vedovo o separato affidatario in modo esclusivo della prole;

• e anche nei casi avvocato affetto da malattia che ne abbia ridotto grandemente
  la possibilità di lavoro;

• avvocato/a che svolga comprovata e continuativa attività di assistenza per il co-      129
  niuge o congiunti prossimi affetti da malattia da cui derivi totale mancanza di
  autosufficienza.

Sulla richiesta di esonero delibera la Giunta Esecutiva della Cassa Forense.

Si precisa che l’esonero può essere chiesto, per una sola volta nell’arco dell’intera
vita professionale ed esclusivamente in presenza di uno dei casi previsti dal settimo
comma dell’art. 21, legge 247/2012.

Per la sola ipotesi di maternità/adozione l’esonero dal pagamento della contribu-
zione minima può essere estesa fino a tre anni in presenza di una pluralità di eventi.

Inoltre in caso di gravidanza, parto, adempimento da parte dell’uomo o della donna
di doveri collegati alla paternità o alla maternità, è possibile chiedere l’esonero par-
ziale dall’obbligo formativo, ai sensi dell’art. 15 del Regolamento n. 6/2014 e ss.mm.

In caso di padre avvocato, la richiesta deve essere adeguatamente motivata e non è
accolta qualora la madre – avvocata anch’ella – usufruisca già dell’esonero.

In ogni caso l’Ordine ha un potere discrezionale nella valutazione delle istanze rice-
vute, che devono essere adeguatamente documentate.

Una raccolta di tali normative è stata promossa dal Comitato Pari Opportunità
   dell’Ordine degli Avvocati di Bologna che ha recentemente pubblicato il Quaderno
   della maternità e genitorialità per l’Avvocatura, scaricabile dal sito dell’Ordine degli
   Avvocati di Bologna.

   Generalmente ulteriori disposizioni a tutela della gravidanza e della maternità/pa-
   ternità e in materia di pari opportunità sono inserite nei Protocolli, nell’ambito della
   conpisione di prassi operative e per la risoluzione di varie problematiche di ordine
   pratico ove la tematica della concreta conciliabilità dei tempi di cura e di lavoro è
   ben presente, allorquando si tratta di disciplinare la continuità della pratica forense
   da parte dell’iscritta in stato di gravidanza o la formazione continua della avvocata e
   dell’avvocato genitore, occupata/o nella cura di un familiare, o affetto da patologie,
   o le modalità di comunicazione del legittimo impedimento, l’accesso nelle cancel-
   leria o Ufficio Notifiche. Conquiste, queste, territoriali, supportate dall’azione dei
   Comitati pari Opportunità istituiti presso i Consigli dell’Ordine, con modalità elettive
   (Legge n. 247/2012, all’art.25, ultimo c.)



   Un Welfare a misura di Avvocata/o
   La tutela della maternità non va garantita però solo nelle aule di Tribunale ma an-
   che all’interno degli studi legali, in cui le professioniste madri rischiano di essere
   penalizzate per il ruolo che rivestono all’interno della famiglia e nell’esigenza di un
130
   welfare più attivo che, non tutelando pienamente la maternità, penta la causa del
   gap reddituale esistente tra i sessi.

   Esaminando in particolare, gli ultimi rapporti CENSIS pubblicati da Cassa Forense, si
   evidenzia una progressiva femminilizzazione della professione forense che accom-
   pagna tuttavia un dato inversamente proporzionale sul piano reddituale.

   Gli avvocati maschi riescono a raggiungere un livello di reddito superiore alla media
   a partire dalla fascia d’età compresa tra i 40 e i 45 anni mentre le donne vi arrivano
   ben quindici anni dopo, al raggiungimento dei 55 anni d’età. In generale le donne
   hanno un reddito medio pari al 43% dei colleghi maschi, inferiore in valori assoluti
   di quasi 30.000 euro (in termini percentuali del 56,1%).

   Una delle principali cause, fotografata dall’indagine condotta, è che la professione
   continua ad essere esercitata in microstrutture inpiduali fortemente orientate al
   mercato locale.

   L’Avvocatura al femminile risulta poi maggiormente penalizzata, oltre che dai fattori
   che incidono anche sul genere maschile, da quelli che per natura intervengono sul
   suo corpo e sulla sua salute, dalla gravidanza, alla maternità e alla menopausa.

   Per scelta l’Avvocata privilegia forse materie meno remunerative rispetto ai maschi
   e deve conciliare il tempo dedicato al lavoro con quello necessario alla cura della
famiglia, tanto da risentirne economicamente nell’attualità e ai fini pensionistici
con costi molto elevati.

Proprio al fine di favorire la crescita economica delle Avvocate e Avvocati, nell’ot-
tica della rimozione degli ostacoli, il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli
Avvocati di Bologna ha ideato un intervento sulla organizzazione del lavoro al fine
di pensare e realizzare strumenti specificamente volti a eliminare, o quantomeno
ridurre, le penalizzazioni reddituali che derivano da impegni familiari: quali i figli,
nelle perse fasce di età, gli anziani e i familiari persamente abili.

Nell’ottica quindi della conciliazione tra professione e vita familiare, il CPO di Bolo-
gna ha recentemente attivato la App SOS avvocati e servizi, che consente in emer-
genza di avvalersi a scelta del professionista di un servizio (baby sitter, navetta, dog
sitter...) o di una sostituzione (udienza o incombenza in cancelleria).

La app si propone di superare, o quanto meno alleviare, in emergenza, le difficoltà
di conciliazione vita-lavoro degli Avvocati e dei Praticanti Avvocato ma accanto a
un buon “prodotto informatico”, occorre favorire l’incontro fra “l’offerta e la do-
manda” e incentivare la conoscenza reciproca che potrebbe far nascere eventuali
collaborazioni, fine per cui si è speso l’attuale CPO.

Nel contesto socio-economico e culturale contemporaneo, la battaglia verso la pari
opportunità nel mercato del lavoro non è ancora finita, ma non partiamo da zero e
bisogna privilegiare la possibilità di scegliere tra la famiglia o il lavoro sempre con    131
meno difficoltà .

Prendersi un po’ di tempo per definire quale valore e spazio dare ai persi elementi
che compongono la vita famigliare, lavorativa e personale di ognuno, tenendo con-
to delle richieste di attaccamento e cura, delle ambizioni personali, dati di realtà e
valori inpiduali è il passaggio essenziale e non demandabile che richiede migliori
strategie di delega, di un’organizzazione minuziosa e puntale delle giornate.

L’obiettivo di realizzare l’uguaglianza di genere de iure e de facto deve attuarsi anche
attraverso prassi virtuose volte a tutelare pienamente la condizione di maternità e
di genitorialità per le avvocate.

Resta il fatto che, a mio parere, è necessario un nuovo patto tra i generi. Perchè se
da un lato si è riconosciuto il diritto a rivendicare giustizia e lottare per l’affermazio-
ne di diritti uguali, dall’altro non si deve obliare la differenza ma valorizzarla, nell’ot-
tica delle pari opportunità.



Riferimenti giurisprudenziali e bibliografici
L. Calafà, Pari opportunità e pieti di discriminazione, in Nuove Leggi Civili Commen-
tate 3/2010, p. 537 e ss. prof.ssa Paola Villa e Realizzato dalle dott. Anita Bevacqua e
dott. Jessica Toniolli dell’Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Economia,
   “Differenze di trattamento tra le donne lavoratrici” Giunta della Provincia autono-
   ma di Trento, pubblicato nel 2008. Comitato Pari Opportunità Ordine degli Avvocati
   di Bologna Quaderno Maternità e genitorialità per l’Avvocatura” Quaderno 1 anno
   2018.




132
Discriminazioni di genere e per età

Antonella Gavaudan*



Da avvocata giuslavorista intendo proporre l’esperienza specifica che ho acquisito
nel trattare a giudizio le discriminazioni in materia di lavoro.
La “cassetta degli attrezzi” della quale possiamo disporre in materia antidiscrimina-
toria è oggi ben più ampia di quando sino agli anni settanta era soltanto la maternità
delle lavoratrici ad essere tutelata (legge 860/1950 “Tutela fisica ed economica del-
le lavoratrici madri”, che vietava di licenziare nel periodo di gestazione e in quello di
astensione obbligatoria dal lavoro successiva al parto).
Solo con l’Accordo Interconfederale del 16 luglio 1960 si raggiunse la parità di re-
tribuzione tra lavoratori e lavoratrici. Nel settore agricolo la parità salariale fu con-
quistata solamente nel 1964 con l’abolizione del cosiddetto “coefficiente Serpieri”
utilizzato nel settore agricolo, per cui il valore di una giornata lavorativa di un uomo
era pari a 1, quello della donna a 0,60, a parità di ore di lavoro.              133
La legge n. 903 del 1977 affermò il pieto di discriminazione nell’accesso al lavoro,
nella formazione professionale e nella progressione di carriera delle donne.
La fonte “antidiscriminatoria” cui attingere era l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori
(legge 300/1970), nei casi di “discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o
di sesso”, poi integrato dal d.lgs. 216/03, in attuazione delle disposizioni comunita-
rie, con le discriminazioni “di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o
sulle convinzioni personali.”

Eppure il principio di eguaglianza sostanziale era ed è ben lontano dall’essere rea-
lizzato.
La legge 125 del 1991 volle superare il concetto classico di eguaglianza formale,
promuovendo un modello di trattamenti differenziati per sesso, che ripristinasse
l’uguaglianza nelle condizioni di partenza, concretizzando la parità di chance nell’ac-
cesso e nello svolgimento dell’attività lavorativa.
Il d.lgs. 81/2008 (Testo unico sulla Sicurezza) prevede espressamente, all’art. 28,
l’obbligo per il datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute
dei lavoratori, “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi
particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le
lavoratrici in stato di gravidanza, quelli connessi alle differenze di genere, all’età alla
provenienza da altri Paesi....”. Tra questi rientrano sicuramente i rischi di patologie
* Avvocata giuslavorista del Foro di Bologna
   legate al cd. mobbing di genere, la cui valutazione, a partire dal 29 luglio 2008, di-
   viene necessaria ed obbligatoria.
   Fonte previgente e primaria – che tuttora è parte attiva dello strumentario norma-
   tivo a disposizione nei temi che ci occupano, pur non appartenendo al genere delle
   tutele antidiscriminatorie – è l’art. 2087 del codice civile (“L’imprenditore è tenuto
   ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del
   lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la per-
   sonalità morale dei prestatori di lavoro”).

   È frequente che la vittima di discriminazioni – o di “mobbing di genere” – finisca
   infatti con l’incorrere in serie difficoltà a livello “esistenziale” fino ad manifestare
   veri e propri disturbi dell’adattamento e/o patologie psichiche che potenzialmente
   possono cronicizzarsi. comportamenti discriminatori di frequente spiegano pesan-
   ti conseguenze sulle vittime, si consideri ad esempio la situazione delle lavoratri-
   ci madri, che possono essere particolarmente fragili dal punto di vista psicologico,
   proprio per la loro particolare condizione e per i grandi cambiamenti che l’arrivo di
   un figlio comporta.
   Al rientro in servizio la lavoratrice madre ha diritto di “ritrovare” il posto di lavoro
   che occupava prima della gravidanza, di ricoprire il medesimo ruolo e di svolgere le
   medesime mansioni, diritto che nella realtà viene più che frequentemente disatteso
   e violato.
134  La legge n. 123 del 2 agosto 2007 (“Misure in tema di tutela della salute e della
   sicurezza sul lavoro e delega al governo per il riassetto e la riforma della normativa
   in materia”), promuove, tra l’altro, la valorizzazione di accordi aziendali, territoriali
   e nazionali nonché, su base volontaria, dei codici di condotta ed etici e delle buone
   prassi che orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi
   della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, al fine del
   miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente.
   Questo apparato normativo si intreccia con l’ambito internazionale ed europeo. Val-
   ga il Trattato di Lisbona, del dicembre 2007, che definisce la parità di genere come
   un valore fondante dell’Unione Europea, da perseguire insieme alla lotta contro la
   discriminazione e la Carta dei diritti fondamentali (Carta di Nizza del 2000).

   La tutela di genere
   Il d.lgs. 11 aprile 2006, n.198 (Codice delle Pari Opportunità) rappresenta il Testo
   unico che avrebbe dovuto riordinare organicamente il corpus di leggi e provvedi-
   menti legislativi in materia e contiene sia le disposizioni in materia di pari oppor-
   tunità nei rapporti di lavoro che la normativa vigente in materia di rapporti sociali,
   civili e politici.
   Il primo libro (Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e
   donna) si articola in due titoli, il primo dei quali vieta ogni forma di discriminazione
   tra uomini e donne ed il secondo che inpidua gli organismi posti alla promozione
   delle pari opportunità.
Il libro secondo disciplina i rapporti tra i coniugi e il contrasto alla violenza nelle
relazioni familiari.

Il libro terzo raccoglie le norme in materia di pari opportunità nei rapporti econo-
mici ed in specie nel lavoro, riportando all’art. 25 la definizione di discriminazione
(diretta ed indiretta).

Prevede l’art.26 che sono considerate come discriminazioni anche le molestie (com-
portamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso aventi lo scopo
o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un
clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo) e le molestie sessuali
(comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, ver-
bale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare ….), e che lo siano quei trat-
tamenti che costituiscano conseguenza del rifiuto dei comportamenti di cui sopra, o
che rappresentino “una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il
rispetto dei principi di parità di trattamento tra uomini e donne”.

Il Titolo 1 del libro terzo illustra partitamente i pieti di discriminazione di gene-
re, elencate nel codice delle pari opportunità dall’art. 27 all’art. 35: quella fondata
sul sesso, retributiva, nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera,
nell’accesso a prestazioni previdenziali e così via.

L’aver previsto un pieto di discriminazione nella prestazione lavorativa consente
una applicazione ampia del principio, e non mi stanco di segnalare quello che po-      135
trebbe essere - se utilizzato al fine di analizzare specificamente, azienda per azien-
da, e non solo a fini statistici come normalmente avviene – uno strumento prezioso
di rilevamento delle discriminazioni, ovvero il Rapporto sulla situazione del perso-
nale introdotto dalla legge 125/91 e previsto all’art. 46 del T.U. che dispone che
“Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a
redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile
e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della
formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di
qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione gua-
dagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione
effettivamente corrisposta.”

Il rapporto va trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e al consigliere re-
gionale di parità e contiene elementi che, se correttamente “decrittati” dalle r.s.a.,
consentono di leggere la situazione occupazionale dell’azienda utilizzando informa-
zioni che in alcun altro modo possono pervenire a chi – sindacato e consigliera – ha il
potere di utilizzarle davvero allo scopo di combattere ed eliminare le discriminazioni
di natura retributiva, di carriera, formazione, conservazione del posto di lavoro.

Giova rammentare che la legge prevede sanzioni pesanti per l’inottemperanza alla
trasmissione del rapporto, che purtroppo rimane per lo più nei cassetti degli uffici
delle organizzazioni sindacali e non viene utilizzato come potrebbe: i dati in esso
   contenuti vengono analizzati più a livello sociologico che per impostare politiche
   contrattuali aziendali a tutela del personale femminile. Grande sarebbe invece lo
   spazio per promuovere, in base ai dati ricavati da tale rapporto, una più effettiva pa-
   rità di condizioni di lavoro, anche sotto il profilo di un’analisi delle assunzioni, delle
   mansioni di destinazione del personale femminile, della progressione di carriera e
   del trend retributivo.

   Discriminazione per età
   Le norme dell’art. 15 Statuto lavoratori, come modificato dall’art. 4 del d.lgs.
   216/2003, che vietano di “subordinare l'occupazione di un lavoratore, licenziarlo, di-
   scriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni”, si applicano altresì ai “patti
   o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso,
   di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

   Il decreto legislativo 216 del 2003 ha introdotto infatti all’art. 1 le disposizioni relati-
   ve all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dal-
   la religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento
   sessuale. Si intende per parità di trattamento (art. 2) “l’assenza di qualsiasi discri-
   minazione diretta o indiretta a causa” di uno dei fattori indicati, ed in particolare,
   si ravvisa invece discriminazione quando – per quel che qui ci riguarda – per l’età
   una persona sia “trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
136  trattata un’altra in una situazione analoga” (discriminazione diretta) oppure quan-
   do “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamen-
   to apparentemente neutri possono mettere le persone ……….. di una particolare età
   ………………….in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.”

   Come rilevato in dottrina, “l’età rappresenta una delle quattro dimensioni fonda-
   mentali dell’esperienza inpiduale e sociali, insieme al genere, al gruppo etnico,
   alla classe o strato sociale” (Ambrosini M. Ballarino G. “Risorsa anziani e politiche
   dell’impresa: un punto da riscrivere” in Molina S. (a cura di) “Le politiche aziendali
   per l’anzianato del lavoro in Italia”, Angeli, Milano, 2000).

   L’art. 3 comma 3 della Direttiva 2000/78/CE stabilisce che non costituiscono discrimi-
   nazione soltanto quegli atti che “per la natura dell’attività’ lavorativa o per il conte-
   sto in cui essa viene espletata, richiedano caratteristiche che costituiscono un requi-
   sito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività’ medesima” o che
   siano “giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi
   appropriati e necessari”1.

   Alcuni casi concreti di discriminazione per genere
   Quello del giuslavorista è un osservatorio privilegiato dal quale è possibile riscontra-

   1 Per la giurisprudenza locale v. Trib. Bologna ordinanza cron. 5574 del 1.6.2012 in RG 708/2012 est. Sorgi e
   decreto cron 7701/2012 in RG 1911/2012 est. Benassi.
re molti evidenti casi di discriminazione, sia inpiduali che collettivi. Le fattispecie
sono numerosissime, anche se non si riscontra una altrettanto vasta pubblicazione
di sentenze. Quelle più gravi sono legate alla stessa possibilità di conservare il la-
voro, e riguardano fondamentalmente l’orario di lavoro e il rientro al termine del
periodo di pieto di licenziamento per maternità.

Costantemente chi opera sul “fronte” della tutela, deve occuparsi del problema di
donne le quali, allo scadere del periodo in cui vige il pieto di licenziamento – quan-
do il figlio compie un anno – vengono licenziate nelle piccole imprese, o che al mo-
mento della ripresa del servizio dopo l’assenza dal lavoro per maternità si vedono
costrette alle dimissioni per essere state assegnate a turni di lavoro incompatibili
con la funzione familiare o per non aver ottenuto orari compatibili con il ruolo di
cura che intendono svolgere.

L’organizzazione del lavoro nelle imprese prevede con sempre maggior frequenza
orari di lavoro su turni avvicendati, lavoro settimanale che comprende il sabato e la
domenica, e sempre più spesso il termine del periodo protetto corrisponde con il
mancato reinserimento della lavoratrice madre nell’ambiente di lavoro. Senza con-
tare la esclusione dal mondo del lavoro che le forme di lavoro cd. “atipico” – lavoro
in somministrazione, lavoro parasubordinato – unitamente al lavoro a tempo deter-
minato, eccessivamente quanto illegittimamente diffuso, consentono agevolmente
di realizzare attraverso il mancato rinnovo o la mancata costituzione di rapporti di
lavoro con le donne in gravidanza.                             137

La discriminazione colpisce peraltro le donne non solo in collegamento al genere,
ma anche in ragione di fattori – pure tutelati dalla recente normativa sia comunita-
ria che nazionale – quali l’età e le condizioni di salute: è frequente verificare come
le innovazioni tecnologiche o le riorganizzazioni aziendali comportino nelle aziende
manifatturiere l’esclusione – motivata formalmente da pretesti “giustificati motivi
oggettivi” (soppressione del posto di lavoro) – delle donne più anziane e quindi
“costose” che per le loro condizioni di salute sono portatrici di prescrizioni limitative
allo svolgimento di determinate mansioni.

Parallelamente la presenza massiccia di donne non cittadine italiane in determinati
settori – il pulimento, le cooperative sociali, alcune cooperative di servizi – configura
in talune situazioni una duplicità della discriminazione, in particolare in relazione
ai trattamenti retributivi, alle iniziative di formazione, alla progressione di carriera,
dalle quali di norma le lavoratrici straniere rimangono in particolare escluse.

Le discriminazioni più diffuse, e statisticamente rilevate, riguardano comunque
tutte le donne, indipendentemente dalla nazionalità e dall’età in riferimento alla
progressione di carriera, agli aspetti retributivi, e trovano i loro ostacoli principali
in una cultura di disvalore più ampia, rispetto alla quale sia le organizzazioni sin-
dacali che le donne stesse hanno ancora un lungo cammino di consapevolezza da
compiere. E ciò anche in quelle situazioni nelle quali le fattispecie discriminatorie
si incrociano: la discriminazione, ad esempio, che colpisce donne di una certa età,
   con bassa scolarizzazione, le quali in occasione di una riorganizzazione aziendale,
   di un aggiornamento dell’organizzazione del lavoro o della produzione sotto il pro-
   filo tecnologico, vengono estromesse dal contesto lavorativo. Si pensi, quanto alla
   discriminazione inpiduale, alle lavoratrici madri che, a seguito delle assenze per
   malattia del bambino vengono sottoposte a trattamenti deteriori, assegnate a man-
   sioni perse rispetto a quelle svolte nel corso del rapporto, non equivalenti alla
   professionalità posseduta e all’inquadramento contrattuale, accusate di “inadegua-
   tezza” sul lavoro”, assegnate a turni lavorativi in fascia oraria notturna, in contrasto
   con le disposizioni a tutela delle lavoratrici madri, trasferite in altre sedi, al fine di in-
   durle a lasciare il lavoro. O alla ricorrente ipotesi di lavoratrici assegnate a mansioni
   deteriori o trasferite al rientro dalla maternità, a titolo esemplificativo richiamo tra
   le altre2 una risalente sentenza del Tribunale di Bologna, su ricorso della Consigliera
   provinciale di Parità (Trib. Bologna 2.4.2010 est. Coco) ed una più recente sentenza
   del Tribunale di Ferrara (Trib Ferrara 11.9.2017, est. De Curtis). Ai casi di licenzia-
   mento per preteso giustificato motivo oggettivo (soppressione del posto o riduzione
   del personale) che colpiscono proprio la lavoratrice all’indomani del compimento di
   un anno di età del bambino. Oppure ai casi nei quali l’orario di lavoro viene utilizzato
   per rendere inconciliabili le nuove esigenze di vita, sorte a seguito della nascita dei
   figli, con le esigenze di lavoro.

   Con riferimento alla gestione degli orari di lavoro richiamo alcuni, risalenti, prece-
   denti. Tribunale di Bologna (est. Coco - sent. n. 155/2007), relativo ad una fatti-
138  specie in cui si deduceva la illegittima modifica unilaterale dell’orario, da parte del
   datore di lavoro, in pregiudizio delle esigenze di una lavoratrice madre, affidataria in
   via esclusiva di un bimbo in tenera età: il Giudice, pur premessa la parvenza di fon-
   datezza delle ragioni organizzative dedotte dall’impresa a sostegno della disposta
   modifica dell’orario, proseguiva argomentando la rilevanza dei principi, esplicitati
   fra l’altro dall’art. 9 della legge n.53/2000 a fini incentivanti (di misure a sostegno
   della maternità sotto il profilo della flessibilità degli orari e dell’organizzazione del
   lavoro), ma vigenti nell’ordinamento sulla base della clausola generale contenuta
   nell’art. 37, co. 1, della Costituzione («Le condizioni di lavoro devono consentire alla
   donna lavoratrice l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicura-
   re alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione»).

   Altre sentenze di merito (in particolare v. Trib. Lecce 18.8.2003), hanno statuito
   l’obbligo del datore di lavoro di cooperare in buona fede per l’assegnazione dei di-
   pendenti a turni di lavoro compatibili con loro qualificate esigenze familiari, specie
   quando la determinazione di un orario piuttosto che di un altro non comporti, per
   l’azienda, insuperabili difficoltà organizzative.”

   Analogo orientamento è stato espresso dal Tribunale di Milano con una ordinan-
   za cautelare novembre 2009, con riferimento al caso che vedeva contrapposte la
   Oviesse ed una lavoratrice che, al rientro al lavoro dopo il periodo di maternità,


   2 Vedi anche Trib. Bologna 2.7.2008 est. Dallacasa; Trib. Bologna 18.7.2011 est. Benassi.
aveva richiesto la riduzione dell’orario di lavoro con collocazione della prestazione in
una fascia oraria compatibile con le esigenze di accudimento del bambino, e dunque
entro le ore 16. Al diniego dell’azienda, che subordinava l’accoglimento della richie-
sta di part-time alla collocazione della prestazione tra le 16 e le 20, la lavoratrice
richiedeva ed otteneva la tutela cautelare sul presupposto che «in relazione alla di-
stribuzione oraria le esigenze aziendali non possono che cedere rispetto a quelle di
assistenza del bambino, imponendo un orario che non vanifichi la ratio della norma
e che non sia in concreto del tutto inidoneo a garantire la tutela del bambino stesso,
seppure con sacrificio della organizzazione aziendale».

In materia di orari di lavoro deve rammentarsi che la richiesta di trasformazione
dell’orario di lavoro da full-time in part-time, con turnazione nelle fasce orarie diur-
ne, trova un preciso fondamento normativo nelle disposizioni della legge (art. 11
del d.lgs. n. 66/2003) e in alcuni CCNL di settore (ad esempio il Terziario), che pre-
vedono condizioni di miglior favore al fine di consentire di conciliare le esigenze dei
genitori di bambini di età inferiore ai tre anni con le esigenze e gli orari di lavoro.

Quanto alle discriminazioni in materia retributiva o nella progressione di carriera
richiamo a titolo esemplificativo una interessante sentenza torinese (Corte appel-
lo Torino sent. n. 937/2017 www.lavorochiaro.it/sites/default/files/20180110_
CdA-Torino.pdf) in relazione alla mancata equiparazione alla presenza in servizio
delle giornate di assenza per maternità obbligatoria, congedo parentale e assenze
per malattia del figlio ai fini del computo del premio di risultato, e della Corte d’Ap-              139
pello di Venezia (Corte Appello Venezia sent. 841/2017 in www.lavorosi.it/filead-
min/user_upload/GIURISPRUDENZA_2018/CdA_Venezia-sent.-n.-841-2017.pdf) su
fattispecie analoga; con riferimento a discriminazioni collettive vedasi Tribunale di
Aosta in relazione al licenziamento e al trattamento retributivo nettamente inferio-
re di una dirigente (Trib. Aosta sent. 65/2016). Un caso a parte è quello delle vittime
di molestie per il quale richiamo una sentenza pregevole e ben motivata, anche in
punto di risarcimento del danno, della Corte d’Appello di Bologna (sent. n. 453/2014
est. Ponterio) 3.

In proposito è opportuno sottolineare che la discriminazione di genere, ai sensi
dell’art.4 del d.lgs. 125/91, rileva in termini oggettivi, connotati dal prodursi dell’ef-
fetto discriminatorio, indipendentemente da ogni valutazione soggettiva sull’inten-
to discriminatorio, e che la nozione di discriminazione copre un’ampia gamma di
condotte ed atti, comprendendo sia gli atti di gestione del rapporto che i comporta-
menti del datore di lavoro che producano effetti discriminatori.

In tali casi soccorre il regime agevolato del principio della prova, poiché la parte che
lamenta la discriminazione ha l’onere di allegare e provare l’esistenza di un tratta-
mento deteriore rispetto al termine di comparazione prescelto, mentre incombe

3 Corte Appello Bologna n. 453/2014 est. Ponterio (www.studiolegaleassociato.it/wp-content/uplo-
ads/2017/03/Sentenza-Corte-appello-di-Bologna-25-marzo-2014.pdf); ma anche Trib. Firenze 20.4.2016
est. Papait; Trib. Pistoia n. 177/2012 – in Casistica – e Cass. Civ. Lav. n. 23286 del 15.11.2016 su ripartizione
dell’onere della prova.
   sul datore di lavoro l’onere di dimostrare fatti specifici ed obiettivamente verificabili
   idonei a dimostrare che i provvedimenti adottati siano stati giustificati da una finali-
   tà legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e neces-
   sari. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di caratte-
   re statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni
   e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei
   a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti
   o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere
   della prova sull’insussistenza della discriminazione.

   Un regime sanzionatorio specifico si aggiunge alla tutela giudiziaria, che vede come
   atti nulli tutti quelli posti in violazione del pieto di discriminazione. Infatti l’art. 41
   del T.U. prevede che, qualora la condotta discriminatoria sia posta in essere da «sog-
   getti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi di Stato, ovvero
   che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbli-
   che, di servizi o forniture, ciò viene comunicato immediatamente dalla direzione
   (…) del lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia
   stata disposta la concessione del beneficio o dell’appalto». Questi soggetti sono te-
   nuti ad adottare «le opportune determinazioni», quali «la revoca del beneficio»,
   «l’esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi
   ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi ap-
   palto».
140
   La sanzione penale è ora riservata alla sola ipotesi di inottemperanza agli ordini giu-
   diziali di rimozione delle discriminazioni accertate in sede giudiziale. La pena oggi
   prevista è quella dell’arresto fino a 6 mesi o dell’ammenda fino a 50.000 euro, ma
   qualora il datore di lavoro ottemperi successivamente alla prescrizione, la sanzione
   penale si trasforma in una sanzione amministrativa pari a 12.500 euro. Le altre san-
   zioni sono oggi tutte depenalizzate e quindi rimangono le sanzioni amministrative,
   verosimilmente più “dissuasive” di quelle penali: non è infatti possibile che la san-
   zione cada “in prescrizione” e la procedura per l’applicazione piene più semplice,
   non dovendo più passare dal vaglio dell’autorità giudiziaria. In caso di discriminazio-
   ne (diretta o indiretta) nell’accesso al lavoro la sanzione è da 5.000 a 10.000 euro
   per ogni violazione (non per ogni lavoratore). L’attività lavorativa presa in considera-
   zione è tanto quella subordinata quanto quella autonoma e si può verificare anche
   per il tramite dei soggetti di cui l’imprenditore si avvale per la selezione del perso-
   nale. Ulteriore ed analoga sanzione è prevista sia per la discriminazione nell’orien-
   tamento, formazione e aggiornamento, che può verificarsi sia per quanto concerne
   l’accesso, sia per quanto concerne i contenuti stessi dei programmi, sia per le ipotesi
   di persa retribuzione o classificazione dei lavoratori non giustificata da contenuti
   tecnici e per lavoratori e lavoratrici che ricoprono le stesse mansioni e per eventuali
   ingiustificate differenze per quel che riguarda l’assegnazione di mansioni, qualifiche,
   e soprattutto progressioni di carriera. Trattata identicamente è la discriminazione in
   materia di prestazioni previdenziali, che può configurarsi con l’anticipato pensiona-
   mento della lavoratrice, o con la mancata erogazione degli assegni familiari.
Cultura, norme, prassi e azioni negoziali contro le
discriminazioni di genere

Anna Salfi*


Acquisite le perse nozioni e rese più consapevoli delle sfaccettature che le discri-
minazioni di genere possono avere, a me sta il compito di affrontare l’aspetto della
progettazione e della realizzazione di azioni di contrasto alle discriminazioni realiz-
zate o realizzabili attraverso la contrattazione collettiva.

Abbiamo visto come esista un rapporto “circolare ” tra norme, leggi e società: come,
cioè, le perse normazioni si concretizzino a valle – e come risultato – di più o meno
lunghi processi sociali e come gli stessi contenuti normativi, una volta assunti e for-
malizzati, determinino – a loro volta – altrettanti comportamenti e fenomeni sociali.
E, tuttavia, pur essendo state – le norme antidiscriminatorie – formulate con l'inten-
to di regolamentare aspetti attinenti alle relazioni sociali, spesso, nella loro messa   141
in pratica vengono trascurate la relazione e l'interazione esistenti tra norme, culture
e prassi dei dettami normativi. È questo un fatto di particolare rilievo che si rivela,
spesso, come causa dell'inefficacia degli stessi contenuti normativi.

Questa è una considerazione che abbiamo potuto rilevare in più occasioni, anche
nella predisposizione e nella pratica delle perse azioni negoziali. Pertanto, nell’a-
vanzare semplici istanze o vere e proprie piattaforme per la contrattazione colletti-
va, bisognerà tenerne conto per poter raggiungere risultati reali ed efficaci. Bisogna
cioè considerare come imprescindibile il fatto di mantenere un rapporto costante
tra interventi di tipo culturale e sociale e azioni più squisitamente contrattuali, siano
queste svolte nei luoghi di lavoro attraverso la contrattazione collettiva di categoria,
oppure svolte nella contrattazione collettiva sociale che si realizza verso le perse
Istituzioni locali (Comuni, Unioni dei Comuni, Distretti socio-sanitari, Regioni).

Per fare un esempio concreto: nell’agire in un’azienda, in un servizio privato o pub-
blico bisognerà tenere in conto che la semplice richiesta “materiale” per un miglior
salario, per un più equo inquadramento o anche per l’adozione di codici anti-mole-
stie dovrà essere costantemente accompagnata da iniziative o azioni più “immate-
riali”, incidenti sul contesto-clima aziendale o sul contesto sociale-territoriale.

Ed è così che la rivendicazione contrattuale volta ad ottenere l’adozione di codici o
* CGIL – Confederazione generale italiana del lavoro.
   di misure contro le molestie sessuali nei luoghi di lavoro, come previsto negli accordi
   quadro siglati da parte datoriale e sindacale a livello nazionale o regionale, dovrà
   essere anticipata, affiancata e seguita da azioni che sollecitino la piena e completa
   consapevolezza da parte delle donne e degli uomini che lavorano in quel posto di
   lavoro, che lo dirigono, che lo frequentano. Non farlo può significare o non raggiun-
   gere il risultato cui si mirava o anche – e questo non è meno grave – raggiungere una
   conquista meramente apparente ma di sostanziale inefficacia.

   Ne consegue la necessità di calcolare e progettare azioni rivendicative che si atta-
   glino allo specifico contesto di riferimento. In questo campo vale, più che in altri, il
   principio secondo il quale che ciò che va bene in un posto, non va bene in un altro,
   sia in termini di contenuti propri delle azioni sia con riguardo alle rappresentanze
   datoriali o sindacali. Un’azione negoziale di contrasto alle discriminazioni di genere
   deve essere progettata con molta attenzione per valutare innanzitutto i rischi e le
   opportunità presenti negli specifici contesti produttivi e/o di servizi sia privati che
   pubblici, se parliamo di contrattazione collettiva realizzata nelle perse attività pro-
   duttive oppure dei rischi e delle opportunità presenti nei persi luoghi e/o ambiti,
   se parliamo, invece, della contrattazione collettiva confederale svolta nei territori.

   Di conseguenza, acquista una rilevanza fondamentale la conoscenza del contesto
   (dove sono, con chi tratto, chi rappresento, perché lo faccio, dove intendo arrivare
   e in quanto tempo) e la sua analisi attenta, non tanto o non solo in termini di dati
142  (utilissimi se fondati sulla disaggregazione di genere), ma anche fondata sull’osser-
   vazione del luogo e dell’ambito in cui si opera e degli eventi che lo attraversano
   (crisi, novità occupazionali, migrazioni, eventi eccezionali etc.) per saper cogliere la
   prospettiva giusta e proporre l’azione più utile e più appropriata.

   Altro elemento centrale, ma che si collega a quanto specificato prima, è la relazione
   con le altre parti sociali, con le donne della politica e delle istituzioni e con gli uomini
   che, sempre più, appaiono disposti ad unirsi a noi o che, per lo meno, appaiono più
   di prima interessati a tali questioni. Soprattutto, è necessario coltivare il rappor-
   to intergenerazionale attraverso – anche qui – azioni e progettazioni che affronti-
   no aspetti culturali, di storia, di memoria e/o di narrazione, prevedendo, nel caso,
   anche sperimentazioni congiunte tra generazioni perse. Ciò perché la percezione
   delle discriminazioni di genere è fatto che, se eclatante ed evidente, viene percepito
   indistintamente da giovani o meno giovani. Esistono tuttavia profonde differenze
   nei modi e nelle sensibilità soggettive con riguardo al modo di viverle, che vanno
   tenute in conto perché la vertenza, singola o collettiva che sia, non venga vissuta
   come distante o altro da sé.

   Uno dei maggiori ostacoli che si incontra, impegnandosi sul terreno sia progettuale
   che della realizzazione, è quella dello “spontaneismo” che a volte accompagna gli
   interventi di contrattazione collettiva di genere e che si riscontra anche nelle inizia-
   tive che hanno per finalità quella di realizzare azioni contrattuali antidiscriminatorie.
Lavorare con le donne e/o per le donne in chiave antidiscriminatoria deve mettere e
mette in relazione elementi e soggetti di un mondo nel quale alta è la componente
di adesione emotiva e di partecipazione. Ciò è di assoluta rilevanza e anche molto
bello per la dimensione collettiva che esprime e per la solidarietà che si incontra
nella realizzazione di progetti o azioni non facili né scontati. Tuttavia, questa par-
ticolare caratteristica può talvolta determinare quelle condizioni di discontinuità
nell’impegno che sono proprie delle attività volontarie. Caratteristiche che richie-
dono una specifica capacità di gestire questo tipo di relazioni connotate da notevoli
elementi di slancio, di entusiasmo, ma anche da momenti di caduta di impegno,
di improvvisazione o di non continuità. Sono aspetti propri e particolari di quella
dimensione collettiva necessaria da agire, che potrebbero, tuttavia, apparire anche
come limiti con riguardo all’efficacia delle azioni e per l’ottenimento dei risultati
attesi. Infatti se è vero che le discriminazioni di genere appaiono palesemente come
fatti dannosi e ingiusti è altrettanto vero che sono di complessa definizione sociale
e di difficile contrasto. Agire in chiave antidiscriminatoria di genere a favore delle
donne richiede di fornirsi di competenze, di risorse materiali e umane, di tempo, di
continuità. Vuol dire sviluppare, in chi agisce, una consapevolezza, una determina-
zione, una costanza del tutto particolare poiché ci si avvia, come si diceva, lungo un
percorso non breve e non semplice, per molti versi nuovo e che non rappresenta
ancora una delle priorità nelle organizzazioni sindacali. Praticare una contrattazione
collettiva di genere comporterà anche operare delle scelte in termini di priorità,
consapevoli che l’azione più urgente ci farà agire al centro delle opinioni correnti: la  143
più semplice potrà darci un risultato immediato e la più opportuna potrà renderci
protagoniste di una stagione di cambiamento. E sarà solo l’attenta valutazione del
contesto di riferimento a sapercelo dire.

Infine va considerato e contrastato un ulteriore rischio: quello di porsi come se ogni
giorno fosse il primo. E’ un atteggiamento ricorrente e non utile. Accanto alla va-
lutazione delle nostre azioni a posteriori, è necessario acquisire la consapevolezza
di quanto raggiunto. Anche nei casi in cui il risultato può apparirci parziale, esso è
parte di un processo molto più lungo, che viene da lontano e che si pone l’obiet-
tivo di guardare al futuro. L’ambizione di voler cambiare consolidati assetti socia-
li, ancor prima che fatti materiali o economici, deve puntare al consolidamento e
all’acquisizione di una consapevolezza personale e collettiva relativamente a quanto
raggiunto. A 25 anni dalla Conferenza mondiale delle donne di Pechino, dopo aver
sperimentato la pratica dei due principi del mainstreaming (trasversalità delle poli-
tiche di genere) e dell’empowerment (rafforzamento del ruolo delle donne) anche
nel mondo sindacale, nelle politiche contrattuali e nelle pratiche di contrattazione
collettiva, possiamo legittimamente sottolineare come ulteriore meta la pratica del-
la self-awareness auto-consapevolezza dei e nei ruoli ricoperti, nelle funzioni eser-
citate e dei risultati raggiunti.

In CGIL, la definizione della Carta dei Diritti universali del Lavoro, oggi incardinata
   sotto forma di proposta di legge di iniziativa popolare presso il Parlamento italia-
   no, ha inpiduato nella contrattazione “inclusiva” quella particolare modalità per
   la quale temi e soggetti esclusi finora da una piena tutela e da adeguate garanzie
   possono e devono essere valorizzati. La contrattazione di genere si pone quindi a
   pieno titolo, per gli uomini e per le donne della CGIL, come uno degli aspetti più
   rilevanti di tale contrattazione poiché mira ad includere una moltitudine di soggetti
   persi, le donne, sino ad ora non adeguatamente rappresentate nei loro bisogni sia
   nei contenuti che negli obiettivi sindacali.

   È una sfida appassionante e giusta, non facile, ma neanche impossibile. È la sfida per
   cui vale la pena di lottare ogni giorno.




144
Il contrasto alla discriminazione legata all’identità di
genere e all’orientamento sessuale

Cathy La Torre*


L’esigenza di apprestare tutele giuridiche adeguate a favore delle vittime di discri-
minazioni legate all’identità di genere o all’ orientamento sessuale rappresenta una
conquista recentissima nel panorama giuridico, sia italiano che europeo ed interna-
zionale.

La necessità di introdurre delle norme volte a colmare le lacune nell’attuazione del
principio di eguaglianza, infatti, si è manifestata con particolare evidenza soltanto
sul finire del secolo scorso, ed è stata avvertita anche dalle democrazie occidentali
più consolidate.

Alcune di queste hanno addirittura optato per la revisione costituzionale delle pro-   145
prie carte fondamentali, introducendo nelle stesse un riferimento espresso al pie-
to di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. La prima Costituzione del
mondo ad aver previsto tale pieto è stata quella del Sudafrica nel 1996, seguita
dalle Isole Figi nel 1997, dall’Ecuador nel 1998 e dal Portogallo nel 2004.

Prima di esaminare gli strumenti che l’ordinamento italiano offre a tutela delle di-
scriminazioni sopra richiamate, pare opportuno offrire una definizione di identità
di genere e orientamento sessuale, dal momento che parte delle discriminazioni
vissute dalle persone omosessuali, bisessuali e transgender passa anche da un uso
impreciso e confuso dei termini.

Per identità di genere si intende comunemente il senso di appartenenza di una per-
sona ad un genere con il quale si identifica e con il quale viene identificato dalla
società (ruolo di genere). Questa può coincidere con il sesso biologico (cisessualità)
oppure no (transessualità).

Per orientamento sessuale, invece, si intende la direzione che assume l’attrazione
affettiva e sessuale di un inpiduo, che può essere verso persone di sesso opposto
(eterosessualità), dello stesso sesso (omosessualità) o entrambe (bisessualità).

La Costituzione italiana non menziona in alcun modo l’identità di genere né l’orien-

* Avvocata del Foro di Bologna.
   tamento sessuale. L’ articolo 3, infatti, nel sancire la pari dignità e l’eguaglianza di-
   nanzi alla legge di tutti i cittadini, tra i fattori che non devono rappresentare causa
   ingiustificata di discriminazione si limita a menzionare il sesso, la razza, la lingua, la
   religione, le opinioni politiche e le condizioni personali e sociali.

   L’espressione “orientamento sessuale” compare per la prima volta nell’ordinamento
   giuridico italiano soltanto nel 2003 con il d.lgs 216/2003, attuativo della Direttiva
   2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di
   lavoro.

   Tale Direttiva ha imposto a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea l’adozione di
   disposizioni dirette a prevenire e reprimere le discriminazioni fondate (anche) sull’o-
   rientamento sessuale, sia dirette che indirette, nell’ambito dell’impiego pubblico e
   privato, nell’accesso alla formazione professionale e nell’affiliazione a organizzazioni
   di lavoratori o di datori di lavoro.

   Tra le più recenti applicazioni della suindicata disposizione normativa, ricordiamo
   l’ordinanza del 19 febbraio 2019 della Corte di Cassazione, la quale, confermando
   la pronuncia della Corte d’Appello di Venezia, ha condannato un imprenditore a
   risarcire il danno patito da un proprio dirigente nell’ambito di un rapporto di lavoro.
   Questi, infatti, aveva subito per anni una condotta offensiva e vessatoria da parte
   del proprio datore di lavoro a causa della sua presunta omosessualità.
146
   Nella medesima direzione, la sentenza n. 63/2016 della Corte d’Appello di Trento,
   con la quale una scuola è stata condannata a risarcire una sua insegnate a causa
   del mancato rinnovo del contratto di lavoro, dovuto a una discriminazione fondata
   sull’orientamento sessuale dell’insegnante in questione.

   La possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare misure volte a combattere
   la discriminazione fondata anche sull’orientamento sessuale era stata riconosciuta
   dall’art. 13 del Trattato CE (oggi art. 19 TFUE), che ha rappresentato una tappa fon-
   damentale per il diritto antidiscriminatorio europeo e, conseguentemente, italiano.

   La tutela dell’orientamento sessuale rientra infatti tra le funzioni dell’Unione Euro-
   pea ed è prevista nel suo c.d. “diritto primario”, di cui fanno parte anche le previ-
   sioni antidiscriminatorie contemplate nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE,
   penuta giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di
   Lisbona.

   Notiamo, tuttavia, che la protezione dell’inpiduo dalle discriminazioni legate all’o-
   rientamento sessuale prevista dalla normativa euro-unitaria si limita al solo ambito
   lavorativo, lasciando esclusi altri aspetti assai rilevanti della vita quotidiana, quale
   l’istruzione, la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria. La citata Direttiva 2000/78/
   CE, infatti, non include tali ambiti tra quelli in cui opera il pieto di discriminazione,
   come invece prevedono altre direttive per le discriminazioni di sesso ed etnico-raz-
   ziali.
L’esplicito pieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale al di fuori
dell’ambito occupazionale non è previsto neppure dalla normativa italiana, dal mo-
mento che il d.lgs. 216/2003 non va oltre a quanto prescritto dall’Unione Europea
agli Stati membri.

Al di fuori del contesto occupazionale, la giurisprudenza italiana ha talvolta ovviato
alle lacune normative ricorrendo al combinato disposto di cui gli articolo 2 e 3 del-
la Costituzione. L’articolo 2, ricordiamo, tutela i diritti fondamentali della persona,
anche se non espressamente riconosciuti dagli articoli seguenti, rappresentando,
perciò, una c.d. “clausola aperta”.

È questo ad esempio il caso della sentenza n. 2353/2005 con il quale il TAR
Sicilia -Catania ha chiarito che l’«omosessualità non è una malattia psichica», e
conseguentemente annullato il provvedimento con cui la Motorizzazione civile
aveva disposto la revisione della patente di una persona dichiaratamente gay. 

La medesima vicenda è poi giunta dinanzi alla Corte di Cassazione che, con la sen-
tenza n. 1126/2015 ha riconosciuto che la parte lesa è stata vittima di un vero e pro-
prio comportamento di omofobia, che giustifica il diritto al risarcimento del danno.

In altri casi ancora, invece, la condanna giudiziale di discriminazioni di matrice
omofobica è stata possibile soltanto qualora la condotta tenuta dall’autore delle
stesse rientrasse in fattispecie sanzionate sul piano penalistico, quali l’ingiuria, la  147
diffamazione o lo stalking (v. a titolo esemplificativo Corte di Cassazione, sentenza
n. 10248/2010; Tribunale di Torino, sentenza n. 5009/2018; Tribunale di Milano,
sentenza n. 9393/2017).



È invece del tutto assente nel nostro ordinamento una disciplina chiara e univoca
che tuteli contro le discriminazioni legate all’identità di genere, al pari di quanto
accade, quanto meno in ambito lavorativo, per l’orientamento sessuale.

Ciò appare alquanto significativo, non soltanto perché all’accesso al lavoro e alla
stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica, ma anche perché si tratta
di un ambito particolarmente critico per le persone transessuali, le quali di sovente
subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e al mantenimento del
posto di lavoro, soprattutto in fase di “transizione” (ossia durante il passaggio da un
sesso all’altro).

Ciò nonostante, se spostiamo lo sguardo all’ordinamento europeo ed internazionale
scopriamo che una serie di pronunce giudiziali significative, prima fra tutte la sen-
tenza della Corte di giustizia UE P. vs. S. e Cornwall County Council del 1996, hanno
contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso
anche a chi abbia cambiato sesso, senza però prendere in considerazione la condi-
zione di chi stia ancora vivendo la transizione.
   L’orientamento seguito dalla Corte di giustizia UE è stato poi accolto dal Parlamento
   europeo con la Direttiva 2006/54/CE, in materia di parità di trattamento tra uomini
   e donne in ambito lavorativo. Tale intervento, tuttavia, rappresenta un’arma smus-
   sata poiché, pur considerando l’estensione delle tutele antidiscriminatorie di genere
   anche a favore delle persone transessuali operata dalla Corte di giustizia, non obbli-
   ga gli Stati membri ad adottare provvedimenti legislativi in tal senso.



   Le profonde lacune dell’ordinamento italiano a livello nazionale sono state parzial-
   mente colmate da alcune recenti leggi regionali che, non solo si impegnano a pre-
   venire e contrastare le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale in ambiti
   ulteriori rispetto a quello lavorativo (come l’istruzione e l’assistenza sanitaria), ma
   estendono lo stesso anche alle discriminazioni fondate sull’identità di genere.

   La prima regione italiana a muoversi in questa direzione è stata la Toscana con la
   legge n. 63 del 2004, seguita da Liguria (2009), Marche (2010), Piemonte (2016) e,
   infine, dall’Emilia-Romagna (2019).

   Questi piccoli passi avanti sono stati resi possibili grazie anche ad una serie di docu-
   menti internazionali giuridicamente non vincolanti (c.d. soft law), come i Principi di
   Yogyakarta adottati nel 2006, che hanno svolto un ruolo di persuasione non irrile-
148  vante nei confronti dei governi nazionali, sottolineando come i diritti delle persone
   omosessuali e transessuali debbano essere ricompresi nella più ampia categoria dei
   diritti umani. Ricordiamo, tra le altre, le Risoluzioni del Consiglio dei diritti uma-
   ni dell’ONU del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” e
   quella successiva del 2014, nonché la Raccomandazione del Comitato dei Ministri
   del Consiglio d’Europa del 2010, con la quale si invitava gli Stati membri ad approva-
   re misure volte a rafforzare la tutela delle discriminazioni fondate sull’orientamento
   sessuale e l’identità di genere.

   Tra le aree di intervento più volte indicate dalle istituzioni internazionali vi è il con-
   trasto all’omofobia, su cui, in particolare, si è più volte pronunciata l’Unione Euro-
   pea con le Risoluzioni del 2007, 2012 e 2014.

   Il contrasto all’omo-bi-transfobia è già in corso da persi anni in molti paesi europei
   e non (tra i quali però manca ancora l’Italia), i quali hanno adottato apposite norma-
   tive volte a combattere sia i crimini che i discorsi d’odio.

   A tal proposito, ricordiamo che crimini d’odio (o hate crime) sono reati nei quali la
   vittima viene colpita in ragione della sua identità di gruppo (come la razza, l’origine
   nazionale, la religione, l’identità di genere, l’orientamento sessuale o altra caratte-
   ristica di gruppo). Sono realizzati sulla base di pregiudizio e intolleranza e manife-
   stano spesso una natura particolarmente violenta, rappresentando, pertanto, una
   grave minaccia per le vittime e per le società intera.
Tali crimini, infatti, non si limitano a ledere i diritti fondamentali delle vittime ma
violano altresì l’eguale dignità dinanzi alla legge di tutti i membri di una comunità,
incrinando la pacifica convivenza sociale, scopo ultimo e supremo di ogni Stato de-
mocratico.

I crimini d’odio, quindi, colpiscono sempre gli appartenenti ad un gruppo che pre-
senta una caratteristica comune, una c.d. “caratteristica protetta”. Sono caratteri-
stiche protette quelle che creano un’identità comune, tipica del gruppo e che ri-
flettono un aspetto profondo e fondamentale dell’identità di una persona. Possono
essere più o meno palesi a terzi e sono quasi sempre immutabili, nel senso che non
possono essere modificate per decisione dell’interessato.

Sulla base di ciò, risulta chiaro come tra le caratteristiche meritevoli di protezione
da parte dell’ordinamento giuridico debbano essere ricomprese anche l’identità di
genere e l’orientamento sessuale, ossia due elementi immutabili, essenziali e im-
prescindibili della personalità di ciascun inpiduo e a cui la Costituzione riconosce
la massima tutela all’art. 2.

Tra i crimini d’odio, una particolare categoria è rappresentata dai c.d. “hate speech”,
ossia quei discorsi che incitano all’odio, alla paura, alla discriminazione o persino
alla violenza contro le persone appartenenti ad una determinata categoria.

Questa tipologia di discorsi costituisce una minaccia particolarmente grave per ogni      149
ordinamento democratico poiché non solo contribuiscono alla diffusione di astio,
paura e pregiudizi tra le perse compagini sociali ma creano un “noi” e un “loro”
all’interno di una stessa comunità, incrinando pericolosamente la coesione sociale.

In Italia, allo stato attuale, i crimini d’odio sono vietati e sanzionati dagli artt. 604-bis
e 604-ter del Codice penale soltanto per ragioni razziali, etniche, nazionali e religio-
se.

Il disegno di legge Zan, che proprio nei giorni in cui si scrive è in discussione alle Ca-
mere, prevede l’applicazione delle suindicate norme penalistiche anche per ragioni
legate all’orientamento sessuale, al genere e all’identità di genere. La sua approva-
zione andrebbe a colmare una pericolosa lacuna normativa, mettendo finalmente
l’Italia al passo con le legislazioni antidiscriminatorie già vigenti da anni in molti
paesi democratici.



Dall’analisi offerta si evince chiaramente come le misure di contrasto apprestate
dall’ordinamento italiano ed euro-unitario contro le discriminazioni basate sull’i-
dentità di genere e l’orientamento sessuale siano poche e terribilmente limitate.

Gli episodi di discriminazione che ogni giorno si verificano a danno di persone omo-
sessuali, bisessuali e transessuali, infatti, testimoniano l’urgenza di un intervento
   normativo più ampio, che non solo tuteli le categorie indicate attraverso misure
   repressive e sanzionatorie ma anche attraverso strumenti in grado di favorire la dif-
   fusione di una cultura fondata sul dialogo, il rispetto e la tolleranza reciproca.

   L’approvazione del disegno di legge Zan potrebbe rappresentare un ulteriore passo
   avanti in questa direzione, contribuendo ad accrescere la tutela effettiva della digni-
   tà e dell’eguaglianza dinanzi alla legge per ciascun inpiduo, indipendentemente
   dal genere con cui si identifica o che sente di amare.




150
Uguali senza distinzione di religione

Francesca Rescigno*



1. L’articolo 3 nella costruzione costituzionale. Brevi premesse
La nostra Carta costituzionale, come noto, si apre con l’affermazione dei Principi
fondamentali, la sequenza dei primi tre articoli non è certo casuale; l’articolo 1 po-
stula il principio democratico, l’articolo 2 si occupa dei diritti inviolabili e dei doveri
inderogabili mentre spetta all’articolo 3 cristallizzare il principio di eguaglianza. Con
questo percorso, le madri e i padri della Costituzione volevano affermare un quadro
di democrazia quale sistema politico in cui attraverso l’esercizio della libertà si ten-
dono a realizzare sempre più perfezionate condizioni d’eguaglianza. L’eguaglianza
è quindi il presupposto della democrazia e come ha affermato la Consulta “è un
principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”
ed è espressione di un “generale canone di coerenza dell’ordinamento normativo”1.                151
L’eguaglianza è un valore etico, sociale, religioso, un principio giuridico essenziale,
una “supernorma” destinata ad operare quale “norma di chiusura” dell’ordinamen-
to influenzando ed orientando l’interpretazione di tutte le altre disposizioni costi-
tuzionali2.

Il problema è quello di definire concretamente il contenuto, l’essenza dell’eguaglian-
za in quanto essa non è una condizione di fatto poiché gli esseri umani sono essen-
zialmente persi tra loro. Il principio di eguaglianza va dunque oltre le apparenze
per considerare uguale ciò che uguale non è, tuttavia tale operazione logico-giuri-
dica non può condurre ad un’omogeneizzazione che rende tutti uguali in tutto, a
tal fine la regola dell’eguaglianza per non dimostrarsi priva di contenuto ed inutile
deve preliminarmente determinare tra chi deve esserci eguaglianza e rispetto a che
cosa3. Eguaglianza non significa dunque identità, ma anzi il concetto di eguaglian-

1 Cfr. Sentenze Corte Costituzionale n. 25 del 1966; n. 175 del 1971 e n. 204 del 1982, rispettivamente
in Giurisprudenza Costituzionale 1966, 241; 1971, 2109; 1982, 2146.
2 Su tali definizioni cfr. C. Mortati, Lezioni di diritto pubblico, II, 9° ed., Padova, 1976, 1023; M. Maz-
ziotti Di Celso, Lezioni di diritto costituzionale, II, Milano, 1993, II, 71.
3 Sono le domande che formula Norberto Bobbio: “eguaglianza tra chi?” ed “eguaglianza rispetto a
che cosa?”. L’ambito soggettivo di applicazione si può ormai annoverare tra gli ‘pseudo-problemi’ nel
senso che ormai superata l’interpretazione letterale si assicura l’applicazione dell’eguaglianza non più
ai soli cittadini italiani, ma anche gli stranieri, agli apolidi, alle persone giuridiche private e pubbliche.
* Associata di Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto delle Pari Opportunità, Università di Bologna.
   za comporta necessariamente la persità. L’eguaglianza è un concetto relazionale,
   relativo rispetto a un parametro perso da sé, per cui ogni giudizio di eguaglianza
   ha sempre un grado di incertezza, l’eguaglianza è un concetto per sua natura fluido,
   dinamico, un concetto da riempire rispondendo alle domande: eguaglianza tra chi?
   eguaglianza rispetto a che cosa?, per andare al di là della proclamazione-base se-
   condo cui “tutti gli uomini nascono eguali”, che riecheggia in tutte le Carte dei diritti
   a partire dalla fine del Settecento.

   La previsione dell’articolo 3 comprende sia l’eguaglianza formale che quella sostan-
   ziale. La norma di eguaglianza formale, pur ripetendo ritmi tradizionali, presenta
   nel nostro ordinamento una razionalizzazione maggiore che in altre Costituzioni.
   L’articolo si apre con l’affermazione del principio di pari dignità sociale al quale pos-
   siamo attribuire un carattere più morale che giuridico, dato che nelle società con-
   temporanee una differenza di dignità sociale giuridicamente rilevante non esiste
   più: all’uopo peraltro la XIV disposizione finale dispone “che i titoli nobiliari non
   sono riconosciuti e che i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgo-
   no come parte del nome”4. L’articolo 3 sancisce l’eguaglianza davanti alla legge, per
   cui ai sensi della rule of law la legge si applica sia a quelli che governano che a coloro
   che sono governati senza eccezioni e il principio di eguaglianza si rivolge a tutte le
   funzioni dello Stato imponendo l’imparzialità del legislatore, dell’amministratore e
   del giudice nei loro rapporti con i soggetti privati, i cittadini e gli stranieri, così come
   con le persone fisiche e con quelle giuridiche5. Il principio di eguaglianza opera pri-
152
   ma di tutto a carico del potere legislativo e incide sul contenuto della legge oltre
   che sulla sua efficacia, evitando che precisi criteri vengano violati. I Costituenti non

   Dal punto di vista contenutistico il principio di eguaglianza si sostanzia nella soggezione di tutti ad
   un’unica legge, per cui sono normalmente da escludersi distinzioni fondate su caratteristiche soggetti-
   ve: si ricerca la massima universalità possibile delle norme anche se tale universalizzazione non può far
   trattare in modo uguale situazioni perse, ecco dunque come nello Stato pluriclasse le differenziazioni
   normative pentano possibili, anzi necessarie, se si presentano come non arbitrarie e appaiono tese
   alla realizzazione finale dello stesso principio di eguaglianza. Sul punto cfr. n. Bobbio, Eguaglianza
   ed egualitarismo, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1976, 322; A Cerri, L’eguaglianza,
   Roma-Bari, 2005; A. Celotto, Commento all’articolo 3, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (eds.)
   Commentario alla Costituzione, Vol. I, Milano, 2006, 66.
   4 Sui titoli nobiliari cfr. Sentenza Corte Costituzionale n. 101 del 1967 in Giurisprudenza Costituzionale
   1967, 1107 con nota di Bon Valvassina, e molto interessanti i dubbi espressi dall’Onorevole Calaman-
   drei quando affermava: “...attraverso il richiamo dei Patti lateranensi, si introducono di soppiatto nella
   Costituzione, mediante rinvio, quelle tali norme occulte, leggibili solo per trasparenza, che saranno in
   urto con altrettanti articoli palesi della nostra Costituzione, i quali in realtà ne rimarranno screditati
   e menomati. …così, ad esempio, mentre la nostra Costituzione ha abolito i titoli nobiliari, l’articolo 42
   del Concordato dice invece che «L’Italia ammetterà il riconoscimento, mediante decreto reale, dei titoli
   nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire».
   L’antitesi non potrebbe essere più categorica!”.
   5 La giurisprudenza costituzionale non ha dubbi sull’applicabilità del principio di eguaglianza anche per
   gli stranieri là dove si tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili della persona (cfr. Sentenze n. 120
   del 1967, n. 104 del 1969, n. 14 del 1970, n. 47 del 1977, rispettivamente in Giurisprudenza Costituzio-
   nale 1967, 1577; 1969, 1565; 1970, 134; 1977, 188). La Corte ha affermato la vigenza del principio di
   eguaglianza anche nei confronti delle persone giuridiche (cfr. Sentenze n. 25 del 1966, n. 2 del 1969,
   rispettivamente in Giurisprudenza Costituzionale 1966, 241; 1969, 16).
si sono limitati infatti a sancire indistintamente l’eguaglianza davanti alla legge ma
hanno voluto sottolineare una serie di parametri che non possono essere oggetto
di trattamenti differenziati, si sono quindi preoccupati di affermare che né il sesso,
la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, e le condizioni personali e so-
ciali, potranno essere utilizzate dal legislatore per applicare ai soggetti trattamenti
differenziati. Sostenere il principio di eguaglianza di fronte alla legge significa vie-
tare ogni discriminazione irragionevole, e si ha discriminazione irragionevole tutte
le volte che situazioni eguali vengono disciplinate in modo perso e che situazioni
perse vengono disciplinate in modo eguale. Dal principio di eguaglianza si ricava in
tal modo il principio di ragionevolezza ai sensi del quale ogni distinzione di discipli-
na effettuata in relazione a qualunque elemento, tra qualunque gruppo di soggetti,
penta suscettibile di un giudizio sulla sua ragionevolezza e cioè se tale discrimi-
nazione sia fondata su elementi obiettivi, rilevanti, giustificabili. Si dilatano così i
confini dell’eguaglianza che piene pieto di qualunque irragionevole disparità di
trattamento6.

L’elaborazione del criterio della ragionevolezza evolve con la società e con la sensibi-
lità della Corte costituzionale, ma è chiaro che l’applicazione di questo criterio deve
anche essere “prudente” nel senso che la Consulta deve, fin dove è possibile, rispet-
tare la volontà del Parlamento, quindi la ragionevolezza non può trasformarsi in un
criterio politico per giudicare le scelte dal Parlamento, e la Corte costituzionale deve
valutare con attenzione la flessibilità insita nell’eguaglianza prima di procedere con         153
l’incostituzionalità7. Accanto all’eguaglianza formale viene enunciata, come ricorda-
to, l’eguaglianza sostanziale ai sensi della quale il Legislatore, nel tentativo di rende-
re “più uguali” le situazioni di fatto, ha la facoltà di introdurre discipline differenziate
al fine di garantire la promozione dei gruppi sociali economicamente e socialmente
svantaggiati. Insomma, quello che il Costituente voleva era realizzare l’eguaglianza
almeno nelle situazioni di partenza, e tale proposito giustifica anche l’introduzione
di disuguaglianze di diritto. Tutto ciò si ricollega ai principi dello Stato sociale, uno
Stato che può e anzi deve intervenire nella vita economica e sociale anche crean-
do delle disuguaglianze legislative per contrastare ed equilibrare le disuguaglianze
esistenti di fatto. In ultima analisi ciò che appare dal disegno costituzionale è che il
principio di eguaglianza rappresenta un valore cardine dell’intero sistema giuridico,
un limite immanente all’esercizio della funzione legislativa, e per questo deve condi-
zionare e guidare l’intero ordinamento verso la coerenza e la ragionevolezza8.

2. L’eguaglianza e il dato religioso nella Carta costituzionale
Come già evidenziato, con l’articolo 3 i nostri Costituenti non si sono limitati ad

6 Cfr. Sentenza Corte Costituzionale n. 53 del 1958 in Giurisprudenza Costituzionale 1958, 601 con
osservazione di Esposito.
7 Per una ricostruzione completa del criterio della ragionevolezza cfr. A. Morrone, Il custode della
ragionevolezza, Milano, 2001.
8Cfr. Sentenza Corte Costituzionale n 175 del 1971, in Giurisprudenza Costituzionale, 1971, 2109.
   affermare in via generale l’eguaglianza davanti alla legge, ma hanno voluto sotto-
   lineare alcuni specifici parametri che non possono essere oggetto di trattamenti
   differenziati, e tra questi si evidenzia la religione, per cui siamo tutti uguali anche
   senza distinzione di religione. Il richiamo al dato religioso nell’ambito del principio di
   eguaglianza dimostra l’attenzione che il nostro ordinamento presta da sempre al fat-
   tore religioso sia perché l’esperienza religiosa viene considerata come un bene-va-
   lore che contribuisce alla crescita della persona umana9; ma anche perché, al di là
   dell’interiorità personale, la religione presenta una proiezione esteriore esprimen-
   dosi in una serie di atti che da sempre hanno inevitabili ricadute sulla sfera giuridi-
   ca sociale. È doveroso notare come il rapporto tra ordinamento giuridico e fattore
   religioso preceda e influenzi l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Già
   lo Statuto Albertino infatti non aveva certo ignorato la questione mostrando una
   teorica propensione alla confessionalità nel momento in cui affermava all’articolo 1,
   che: “la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione di Stato” mentre
   rispetto alle altre religioni si prevede che “gli altri culti ora esistenti sono tollerati
   conformemente alle leggi”10. Tuttavia, malgrado le apparenze, si trattava di un regi-
   me confessionale sui generis, un confessionismo di facciata perché la previsione sta-
   tutaria, peraltro contenuta in una Costituzione flessibile, non garantiva realmente
   alla religione cattolica una posizione privilegiata né tantomeno riuscì ad evitare gli
   scontri Stato-Chiesa legati a questioni politiche e patrimoniali, per cui, nonostante
   l’affermazione dell’articolo 1, lo Stato liberale sardo-piemontese, poi Regno d’Italia,
154  si caratterizzò per una decisa laicizzazione del proprio ordinamento giuridico11 rea-
   lizzando il paradosso di uno stato laico con una religione di stato.

   La situazione mutò radicalmente con la conclusione dei Patti Lateranensi dell’11
   febbraio 1929 firmati dal Capo del Governo italiano Benito Mussolini e dal Segreta-
   rio di Stato Vaticano Cardinale Pietro Gasparri12. I Patti Lateranensi rappresentano

   9 In tal senso cfr. Sentenza Corte costituzionale n. 440 del 1995 in Giurisprudenza Costituzionale, 1995,
   3475 con osservazioni di R. D’Alessio, 3482 e note di F. Ramacci, La bestemmia contro la Divinità: una
   contravvenzione delittuosa?, 3484 e M. D’Amico, Una nuova figura di reato: la bestemmia contro la
   “Divinità”, 3487.
   10 Tale statuizione si pone sostanzialmente in linea con le previgenti disposizioni del Codice civile del
   1837 in cui si disponeva che “la religione Cattolica Apostolica Romana era la sola religione dello Stato”
   (articolo 1) e che “gli altri culti attualmente esistenti nello Stato sarebbero stati semplicemente tollerati
   secondo gli usi e i regolamenti speciali che li riguardano” (art. 3). Tuttavia, già ad una prima lettura,
   si nota come lo Statuto Albertino sembri essere più tollerante nei confronti degli altri culti rispetto a
   quanto invece previsto dal Codice civile del 1837.
   11 Per una ricostruzione esaustiva cfr. F. Finocchiaro, Libertà di coscienza e di religione, in Enciclope-
   dia giuridica Treccani, vol. XIX, 1990.
   12 Tali accordi, resi esecutivi con la Legge del 27 maggio 1929, n. 810 con cui venne creato lo Stato Città
   del Vaticano e posto fine alla questione romana, constavano di tre distinti documenti: il Trattato che
   riconosceva l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede; la Convenzione Finanziaria, legata al Tratta-
   ti, che prevedeva un risarcimento di 750 milioni di lire a beneficio della Chiesa oltre all’esenzione per il
   nuovo Stato della Città del Vaticano dalle tasse e dai dazi sulle merci importate ed anche l’attribuzione
   di titoli di Stato consolidati al 5 per cento al portatore, per un valore nominale di un miliardo di lire, a
   compenso dei danni finanziari subiti dallo Stato pontificio in seguito alla fine del potere temporale; e il
   Concordato che definiva le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa e il Governo.
la volontà di conciliazione tra Stato e Chiesa attraverso la ‘riconfessionalizzazione’
dello Stato e la piena sovranità temporale della Santa Sede sullo Stato della Città
del Vaticano. Gli accordi lateranensi davano sostanza all’interpretazione confessio-
nale dell’articolo 1 dello Statuto, secondo una visione tradizionalista, conservatrice
e nazionale del regime, fortemente in contrasto con l’ideologia dello Stato liberale
sviluppatasi fino a quel momento13.

La svolta concordataria non appare indirizzata tanto a promuovere la libertà reli-
giosa personale quanto una libertà ecclesiastica che delaicizza e desecolarizza la
società italiana, che ai sensi dell’articolo 29 del Concordato si trova impegnata a
rivedere “la sua legislazione in quanto interessa la materia ecclesiastica, al fine di
riformarla e integrarla, per metterla in armonia colle direttive, alle quali si ispira il
Trattato stipulato colla Santa Sede ed il presente Concordato”. In linea con questa
nuova visione confessionale si pone il Codice Penale Rocco che criminalizza la be-
stemmia (art. 724) e il vilipendio contro la sola religione di Stato (art. 402), minando
decisamente la condizione delle altre confessioni religiose poiché, rispetto al ruolo
di assoluto privilegio accordato alla Confessione cattolica, gli altri culti si trovarono
ben presto in posizione di netta subordinazione; secondo la legge n. 1159 del 24
giugno 1929, infatti, risultavano ammissibili, nello Stato, i culti persi dalla religione
cattolica apostolica e romana purché “non professino principi e non seguano riti
contrari all’ordine pubblico o al buon costume”. In ogni caso, al di là delle norme
specificatamente dedicate alla regolamentazione dei culti, era l’intera produzione
                                                         155
giuridica dello Stato a restringere gli spazi di libertà religiosa e allo stesso modo
anche la giurisprudenza era incline ad estendere il più possibile i privilegi attribuiti
alla religione cattolica.

Le motivazioni che avevano indotto lo Stato fascista e la Chiesa cattolica a siglare i
Patti lateranensi erano simili ma opposte, in quanto ognuno dei due soggetti voleva
fare dell’altro il proprio braccio secolare o spirituale; tale distanza motivazionale,
unita ai tragici eventi bellici, allontanarono progressivamente i due sottoscrittori dei
Patti.

Il quadro che si presenta all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale ap-
pare dunque decisamente complesso, la difficile eredità lasciata dal fascismo ma
anche i complessi rapporti che avevano caratterizzato precedentemente le relazioni
Stato-Chiesa cattolica influenzarono l’atteggiamento dei Costituenti. L’Assemblea


13 Ancor prima della stipulazione dei Patti Lateranensi, il governo fascista si era mosso con partico-
lare determinazione nella direzione di un immediato riavvicinamento con la gerarchia cattolica: nel
1922 si riattivò la prassi dell’esposizione del crocifisso nei locali pubblici; nel 1923 la riforma Gentile
reintrodusse l’insegnamento della religione, sostanzialmente obbligatoria, nelle scuole elementari e,
nel 1926, si istituì il ruolo dei cappellani militari per il servizio religioso nelle forze armate. In sostanza
si stavano preparando le condizioni per quella che può essere considerata, a tutti gli effetti, una vera
svolta nel rapporto tra Stato e Confessione cattolica; nel breve spazio di un biennio, tra il 1929 e il 1931,
il complessivo sistema di relazioni si trasformò, infatti, da separatista a concordatario, caratterizzato da
una fortissima impronta confessionista.
   Costituente composta di forze e ideologie differenti, dalla Democrazia Cristiana
   (207 deputati su 556), ai partiti della sinistra (socialisti e comunisti), ai Repubblicani,
   ai Liberali, intendeva dare vita ad una Costituzione ispirata all’affermazione e alla
   difesa dei diritti inpiduali, delle libertà civili e politiche negate nell’ultimo venten-
   nio. Accanto alla comune ispirazione antifascista si trovava la volontà di superare lo
   Stato prefascista, limitato e colpevole di non aver saputo evitare l’affermazione del
   fascismo. La Costituente penne dunque il luogo dell’incontro, dell’intesa e della
   consacrazione dei valori democratici che avevano animato la Resistenza. Rispetto
   al dato religioso i Costituenti desideravano mantenere lo Stato e la Chiesa cattolica
   quali ordinamenti separati e indipendenti, salvaguardando la ‘pace religiosa’ fatico-
   samente raggiunta e garantendo al contempo una generale libertà religiosa, accom-
   pagnata dall’affermazione dell’eguaglianza e dalla tutela delle confessioni religiose,
   legittimando infine anche la libertà di non professare alcuna religione. In realtà si
   evidenzia come la Costituzione non fornisca una nozione di confessione religiosa
   ma si occupi solo dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e successivamente di
   quelli tra lo Stato e le altre confessioni religiose; mentre, nell’ottica di pacificazio-
   ne-separazione, i Costituenti sembrano aver perso di vista il principio di laicità che
   non appare tra i principi fondamentali del nuovo ordinamento costituzionale.

   Sono gli articoli 7 ed 8 ad occuparsi dei rapporti tra lo Stato, la Chiesa cattolica
   e le altre confessioni religiose, e fu soprattutto la genesi dell’articolo 7 a genera-
   re momenti di tensione tra i Costituenti. La definizione dello Stato e della Chiesa,
156
   contenuta nel primo comma dell’articolo 7, come due ordinamenti separati ed in-
   dipendenti non destò particolari problemi poichè la maggioranza riteneva che tale
   affermazione altro non rappresentasse se non la constatazione di un dato storico
   che non poteva arrecare alcun pregiudizio alla libertà dei non cattolici14 e tale
   comma mostra quindi un valore meramente programmatico comportando il gene-
   rale riconoscimento da parte dello Stato dell’organizzazione della Chiesa cattolica e
   dei suoi caratteri di sovranità ed indipendenza. Assai più articolata fu invece la di-
   scussione relativa alla seconda parte dell’articolo 7 rispetto all’opportunità o meno
   di richiamare nel testo costituzionale i Patti Lateranensi del 1929. Infatti da un lato
   vi era chi sottolineava l’inutilità di tale richiamo, considerando che normalmente
   i trattati internazionali o gli accordi con altri Stati non formano oggetto di rinvio
   costituzionale, ma soprattutto voleva evitare ogni possibile ‘deriva confessionale’
   della neo-nata Repubblica Italiana15, e dall’altro chi invece, muovendo proprio dal-
   la separatezza ed indipendenza dello Stato e della Chiesa cattolica, sottolineava la
   necessaria bilateralità dei rapporti assicurata dal mantenimento dei Patti con coper-


   14 Sull’articolo 7 Costituzione cfr. G. Catalano, Sovranità dello Stato e autonomia della Chiesa nella
   Costituzione repubblicana, Milano, 1968; F. Finocchiaro, Art. 7 e 8, in G. Branca (a cura di) Commenta-
   rio della Costituzione, Art. 1-12, Principi fondamentali, Bologna-Roma 1975, 321 ss; S. Lariccia, Diritto
   ecclesiastico, Padova 1978; P. Lillo, Commento all’articolo 7, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a
   cura di) Commentario alla Costituzione, Vol. I, Milano, 2006, 171.
   15 Decisamente contrario fu l’Onorevole Calamandrei. Cfr. Seduta del 20 marzo 1947, in Atti dell’As-
   semblea Costituente.
tura costituzionale che realizzava “quella pacificazione religiosa auspicata da tutti
gli italiani e quella soluzione di un conflitto storico che era già stata nel desiderio e
nell’opera degli ultimi governi democratici”16. I Patti sono entrati in Costituzione ma
le norme pattizie non sono norme costituzionalizzate potendo modificarsi con legge
ordinaria qualora vi sia l’accordo tra le parti; presentano comunque una resistenza
passiva all’abrogazione per la quale è percorribile unilateralmente la sola via della
revisione costituzionale; esse, inoltre, in quanto norme speciali, hanno la forza di
derogare alle norme costituzionali pur incontrando il limite invalicabile dei principi
supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato17.

L’unica revisione dei Patti Lateranensi avvenuta fino ad ora si è realizzata grazie
all’accordo tra Stato e Chiesa concluso nel febbraio 198418; le modifiche intervenute
hanno posto fine al principio, in realtà già da tempo considerato superato, della re-
ligione cattolica quale religione di Stato19. I nuovi accordi modificano il precedente
Concordato negli aspetti più evidenti di giurisdizionalismo statale o confessionale:
dalle restrizioni sulle attività politiche del clero, al controllo sulle nomine dei vescovi
e dei parroci, fino al loro obbligo di giuramento di fedeltà allo Stato. Significative
anche le modifiche in tema di insegnamento della religione cattolica nelle scuole
pubbliche rispetto al quale viene meno il riferimento all’insegnamento della religio-
ne cattolica quale ‘fondamento e coronamento’ dell’intera istruzione pubblica pur
permanendo comunque un privilegio rispetto alle altre religioni, in quanto anche se
certamente può riconoscersi al singolo un diritto soggettivo di avvalersi o meno di
tale insegnamento, non è al contempo riconosciuta alcuna possibilità a chi volesse              157
conoscere ed approfondire nella scuola pubblica i fondamenti di altre confessioni
religiose20.

16 Così si esprime l’Onorevole Dossetti in Assemblea Costituente, Atti della Commissione per la Costi-
tuzione, vol. II, Relazioni e proposte, Roma, 1947, 62.
17 La non costituzionalizzazione dei Patti del 1929 e la loro soggezione ai principi fondamentali è
stata successivamente confermata dalla Corte costituzionale che ha chiarito come il secondo comma
dell’articolo 7 “non sancisce solo un generico principio pattizio da valere nella disciplina dei rapporti
fra lo Stato e la Chiesa cattolica, ma contiene altresì un preciso riferimento al Concordato in vigore e,
in relazione al contenuto di questo ... tuttavia, giacché esso riconosce allo Stato e alla Chiesa cattolica
una posizione reciproca di indipendenza e di sovranità, non può avere forza di negare i principi supremi
dell’ordinamento costituzionale dello Stato”. Sono le Sentenze n. 30, 31 e 32 del 1971 (rispettivamente
in Giurisprudenza Costituzionale, 1971, 150, 154, 156) a risolvere la questione della presunta costitu-
zionalizzazione dei Patti lateranensi.
18 Cfr. Legge 25 marzo 1985, n. 121 contenente Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo
addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense
dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede. Il nuovo Concordato è piso in un Ac-
cordo di modificazioni, composto da quattordici articoli, e in un Protocollo Addizionale, composto da
ulteriori sette norme, che costituiscono le disposizioni esplicative dell’Accordo, fornendone in pratica
l’interpretazione autentica.
19 Il punto 1 del Protocollo addizionale all’Accordo precisa infatti: “Si considera non più in vigore il
principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione
dello Stato italiano”.
20 Sulla revisione degli accordi del 1929 cfr. G. Vegas, Il dibattito sulla revisione del Concordato 1965-
1984, Senato della Repubblica, Quaderno di documentazione, n. 13, Roma, 1984; F. Margiotta Bro-
glio, La riforma dei Patti Lateranensi dopo vent’anni, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
   Gli accordi del 1984 hanno dunque il merito di avere eliminato alcune norme di
   stampo decisamente confessionista risalenti al Concordato del 192921, tuttavia con-
   tinuano a permanere persi aspetti controversi rispetto ad esempio al trattamento
   finanziario delle confessioni religiose perse dalla cattolica, al già ricordato inse-
   gnamento scolastico della sola religione cattolica, allo status degli stessi insegnanti
   di religione, fino al tema (taciuto) dei simboli religiosi, questioni che incidono pro-
   fondamente sul concetto di eguaglianza rispetto al dato religioso. La definizione dei
   rapporti tra Stato e Chiesa cattolica attraverso l’esplicita menzione dei Patti Latera-
   nensi in Costituzione influenzò decisamente l’atteggiamento dei Costituenti nei con-
   fronti delle altre confessioni religiose; così, proprio per evitare che il riconoscimento
   offerto alla Chiesa cattolica si traducesse in una posizione di esclusività e privilegio
   si procedette in maniera analoga riconoscendo e garantendo in Costituzione anche
   le confessioni perse dalla cattolica, considerate non più quali meri ‘culti ammessi’,
   ma ‘confessioni religiose’ tutte egualmente libere davanti alla legge. L’articolo 8 rap-
   presenta il punto di arrivo di un lungo processo di trasformazione dell’ordinamento
   italiano passato da una posizione di mera tolleranza (poi trasformatesi in avversio-
   ne) verso le confessioni perse dalla cattolica all’affermazione della tutela effettiva
   dei loro diritti, costituendo una sorta di ‘antidoto’ rispetto ad una possibile deriva
   confessionale cattolica22.

   Gli articoli 7 e 8 della Carta fondamentale dimostrano quindi, seppure con declina-
   zioni differenziate, la volontà dei Costituenti di eleggere il metodo dell’incontro del-
158  le volontà quale strumento principe per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le
   perse Chiese23, indipendentemente dalla loro quantificazione numerica e dal loro
   reale appeal nella società. Il progetto costituzionale era dunque quello di affermare,
   attraverso l’accordo, il pluralismo confessionale, al fine di superare definitivamente
   lo Stato liberale e ancor più quello fascista.

   L’attenzione dedicata dalla nostra Carta costituzionale al legame tra lo Stato e la re-
   ligione non si limita alla disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni religiose orga-
   nizzata secondo il già citato metodo dell’incontro e della garanzia del pluralismo ma


   2004, 1, 5; C. Cardia, Concordato, intese, laicità dello Stato. Bilancio di una riforma, in Quaderni di
   diritto e politica ecclesiastica, 2004, 1, 23.
   21 Alcune modifiche hanno riguardato anche la disciplina matrimoniale con la previsione di celebrare
   il matrimonio secondo le disposizioni contenute nella riforma del diritto di famiglia del 1975 e le rela-
   tive restrizioni al riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica, mentre la Chiesa accetta il porzio,
   scompare il riconoscimento statale del matrimonio quale ‘sacramento’.
   22 In generale sull’articolo 8 della Costituzione cfr. F. Finocchiaro, Art. 8, in G. Branca (a cura di), Com-
   mentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 409; N. Colaianni, Confessioni religiose ed intese.
   Contributo all’interpretazione dell’articolo 8 della Costituzione, Bari, 1990; B. Randazzo, Commento
   all’articolo 8, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Vol.
   I, Torino, 2006,193.
   23 In questo senso S. Landolfi, L’intesa tra Stato e culto acattolico. Contributo alla teoria delle fonti del
   diritto ecclesiastico italiano, Napoli, 1962, 41, quando afferma: “mentre le antiche esperienze concor-
   datarie davano luogo ad un regime, per così dire, di bilateralità di fatto, quello stabilito dalle intese è
   un regime bilaterale di diritto, che conferisce ai culti, una vera e propria pretesa interna alla soluzione
   bilaterale”.
si sostanzia anche attraverso l’affermazione della libertà religiosa intesa quale vero
e proprio concetto giuridico espresso con chiarezza dagli articoli 19 e 20 (24). Libertà
di esprimere il proprio credo ma anche libertà di non avere un credo religioso anche
se dall’esame dei lavori preparatori dell’articolo 19 non si evince un’equiparazione
tra libertà religiosa e libertà di ateismo, ed effettivamente venne respinto il tentati-
vo di costituzionalizzare il pensiero non religioso25. Così, fino agli anni ‘60, si è rite-
nuto che se all’ateismo si doveva riconoscere tutela costituzionale, questa avrebbe
potuto discendere non dall’articolo 19, bensì dall’articolo 21 nella prospettiva della
libera espressione del pensiero e solo successivamente, anche grazie all’evoluzione
della giurisprudenza costituzionale, si è ampliata l’interpretazione dell’articolo 19
facendovi rientrare la possibilità di non esprimere alcuna fede religiosa dando al
non credente maggiori garanzie rispetto a quelle offerte dall’articolo 2126.

L’articolo 19 tutela il diritto di credere e quello di non credere, quello alla miscreden-
za e anche quello di non compiere alcuna scelta27, così come la facoltà di diffondere
e propagandare le proprie credenze di tipo negativo ed ateistico28. La previsione

24 In generale sugli articoli 19 e 20 della Costituzione cfr. F. Finocchiaro, Art. 19, in G. Branca (a cura
di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1977, 238; S. Ferrari, L’articolo 19 della Costitu-
zione, in Politica e diritto, 1996, 97; M. Ricca, Art. 19, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura
di), Commentario alla Costituzione, Vol. I, Torino, 2006, 420; A. Guazzarotti, Art. 19, in V. Crisafulli
- L. Paladin - S. Bartole - R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, II ed., Padova, 2008, 148. G.
Catalano, Osservazioni sull’articolo 20 della Costituzione, in Diritto Ecclesiastico, 1964, I, 353; F. Finoc-
chiaro, Art. 20, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1977, 302;
                                                          159
A. Bettetini, Art. 20, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione,
Vol. I, Torino, 2006, 441.
25 L’emendamento presentato dall’Onorevole Labriola prevedeva “sono pienamente libere le opinioni
e le organizzazioni dirette a dichiarare il pensiero laico o estraneo a credenze religiose”. Cfr. seduta del
12 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente,
1970, vol. I, 833.
26 Rispetto alla giurisprudenza costituzionale cfr. dapprima la Sentenza n. 58 del 1960 (in Giurispru-
denza Costituzionale, 1960, 752) in cui la Consulta sosteneva che ‘l’ateismo comincia dove finisce la
vita religiosa’ e quindi non risulta tutelato dall’articolo 19 della Costituzione, e successivamente il cam-
bio di giurisprudenza espresso nella Sentenza n. 117 del 1979 (in Giurisprudenza Costituzionale, 1979,
816) dove la Corte spiega invece: “l’opinione prevalente fa ormai rientrare la tutela della c.d. libertà di
coscienza dei non credenti in quella della più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’art. 19, il
quale garantirebbe altresì (analogamente a quanto avviene per altre libertà: ad es. gli articoli 18 e 21
Cost.) la corrispondente libertà “negativa”. Ma anche chi ricomprende la libertà di opinione religiosa
del non credente in quella di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. (norma parimenti
richiamata come parametro di giudizio nell’ordinanza del pretore di Torino) perviene poi alle stesse
conclusioni pratiche, e cioè che il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di
tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo, non assumendo rilievo le carat-
teristiche proprie di quest’ultimo sul piano teorico”.
27 Sul punto cfr. F. Finocchiaro, Art. 19, in G. Branca (a cura di) Commentario della Costituzione,
Bologna-Roma, 1977, 247.
28 Sull’ateismo cfr. A. Origone, La libertà religiosa e l’ateismo, in Studi di diritto costituzionale in me-
moria di L. Rossi, Milano, 1952, 417; C. Cardia, Ateismo e libertà religiosa, Bari, 1973; P. Floris, Atei-
smo e religione nell’ambito del diritto di libertà religiosa, in Foro Italiano, 1981, I, 5; P. Bellini, Ateismo,
voce Digesto discipline pubblicistiche, 1987, vol. I, 513; P. Bellini, L’ateismo nel sistema delle libertà
fondamentali, in P. Bellini, Saggi di diritto ecclesiastico italiano, Soveria Mannelli, 1996, Tomo I, 211; A.
Di Giovine, Garanzie costituzionali della libertà dei non credenti, in Rivista giuridica sarda, 2001, 599;
M. Novak, Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti, Roma, 2010; P. Floris, Ateismo
   dell’articolo 19 va letta nei due sensi della ‘libertà di’ e in quella ‘di non’, anche se
   il fenomeno ateistico certamente non può essere equiparato in tutto a quello reli-
   gioso, in quanto non risultano estendibili all’ateismo quelle garanzie tipiche delle
   confessioni religiose come la particolare autonomia organizzativa e la tutela di cui
   all’articolo 20 della Costituzione29.

   Rispetto alla libertà religiosa essa risulta composta da due aspetti principali forte-
   mente connessi: la libertà di coscienza e la libertà di culto, che non sono da inten-
   dersi quali fatti “puramente interiori dell’intimo sentimento religioso, o areligioso o
   magari antireligioso” bensì come “l’esteriore espressione” del sentimento religioso
   e le “pratiche visibili di tale adorazione”30. Insomma, la libertà religiosa ha una na-
   tura decisamente pratica, una libertà concreta di manifestazione del sentimento
   religioso inpiduale e collettivo che non incontra limiti se non nel dovere morale,
   nel rispetto dell’alterità, essa si sostanzia nella “libertà garantita dallo Stato a ogni
   cittadino di scegliere e professare la propria credenza in fatto di religione”31 e va
   considerata quale libertà giuridica, diritto inviolabile ai sensi dell’articolo 2, diritto
   soggettivo perfetto imponendosi sia nei confronti del privato che dei pubblici poteri,
   insomma la libertà religiosa rappresenta senza dubbio un fine costituzionale.

   3. Uguali senza distinzione di religione: la laicità quale paradigma di
      eguaglianza.
160  Come evidenziato la religione rientra tra gli specifici pieti di discriminazione sta-
   biliti dall’ultimo periodo del primo comma dell’articolo 3. La religione però è prota-


   e Costituzione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2011, n. 1, 87; G. Cimbalo, Ateismo e diritti
   di farne propaganda tra dimensione inpiduale e collettiva, in Quaderni di diritto e politica ecclesia-
   stica, 2011, 113; G. Filoramo, Trasformazioni del religioso e ateismo, in Quaderni di diritto e politica
   ecclesiastica, 2011, n.1, 3.
   29 In tal senso cfr. L. Musselli, Libertà religiosa e di coscienza, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche,
   1994, vol. IX, 226; S. Troilo, La libertà religiosa nell’ordinamento costituzionale italiano, in Anales de
   Derecho, 2008, n. 26, 353. L’aspetto organizzativo delle organizzazioni ateistiche sta assumendo con-
   torni peculiari soprattutto in seguito agli sforzi compiuti dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razio-
   nalisti (UAAR), associazione costituita nel 1991 per ‘tutelare i diritti civili degli atei e degli agnostici’ e
   per far valere l’uguaglianza ‘di fronte alla legge di religioni e associazioni filosofiche non confessionali’
   (art. 3 Statuto). Nel 2005 l’UAAR ha richiesto, ai sensi della normativa del 1929, il suo riconoscimento
   quale ente di culto, e più volte ha indirizzato al Governo la richiesta di avviare la procedura di stipu-
   la di un’intesa ai sensi dell’articolo 8. Tali richieste sono finora state respinte sulla base dell’assunto
   per cui l’articolo 8 si riferisce a fattispecie connotate da un contenuto religioso di tipo positivo non
   estendibile ad associazioni che non presentano natura religiosa e confessionale. E’ opportuno notare
   come tali richieste non presentino una mera connotazione polemica collocandosi nell’ambito di una
   prospettiva più ampia verso l’adozione di una nuova legge generale sulla libertà di religione. Sull’UAAR
   e il significato di una possibile intesa con lo Stato cfr. P. Floris, Ateismo e Costituzione, in Quaderni di
   diritto e politica ecclesiastica, 2011, n. 1, 102; N. Colaianni, Ateismo de combat e intesa con lo Stato,
   in AIC -Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 4/2014, www.rivistaaic.it, pubblicato il 6/12/2013.
   30 Cfr. F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano: libertà religiosa come diritto pubblico subbiet-
   tivo, Torino, 1924, 198.
   31 Per tale definizione cfr. P.A. D’Avack, Il problema storico-giuridico della libertà religiosa, Roma,
   1966; Idem, Libertà religiosa (diritto ecclesiastico), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, 1974.
gonista di molte altre disposizioni costituzionali già citate, mentre il grande assente
sembra essere il principio di laicità. È dunque necessario domandarsi se basti la sem-
plice affermazione dell’eguaglianza rispetto al fattore religioso per definire lo Stato
quale Stato laico32. Effettivamente la nostra Carta costituzionale da un lato afferma
l’eguaglianza senza distinzione di religione, ma dall’altro non opera alcun richiamo
esplicito alla laicità dello Stato come carattere necessario dello stesso ed il termine
laicità o laico non appare mai nell’intera Carta costituzionale. Tale omissione po-
trebbe avere due significati opposti, e cioè corrispondere all’idea che nel momento
in cui si afferma l’eguaglianza senza distinzione religiosa si dà vita ad uno stato laico
e quindi non è necessario richiamare la laicità quale carattere fondamentale del vi-
vere insieme, oppure che si può essere (o cercare di essere) uguali senza distinzione
di religione senza però dover essere laici. Nel caso italiano è evidente come i nostri
Costituenti abbiano privilegiato una soluzione compromissoria temendo probabil-
mente che un’esplicita affermazione del pensiero laico fosse strutturalmente votata
ad un relativismo vuoto e indifferente incapace di condurre ad argomenti e ragioni
credibili e coerenti in quanto la laicità sfugge a concezioni assolute e astratte so-
stanziandosi persamente a seconda del periodo storico e della società a cui ci si
riferisce. Così, si è preferito evidenziare la via del pluralismo religioso, lasciando alle
promesse dell’articolo 3 l’arduo compito di realizzare l’eguaglianza senza distinzione
di religione e con essa la laicità dello Stato. Resta però da domandarsi: quando è
possibile definire uno Stato come effettivamente laico? La risposta non può che es-
sere che uno Stato è laico quando non tende ad imporre i punti di vista di una parte                161

32 Rispetto alla dottrina in tema di laicità, senza pretesa di completezza cfr. L. Guerzoni, Note prelimi-
nari per uno studio della laicità dello Stato sotto il profilo giuridico, in Archivio giuridico, 1967, n. 1-2,
80; U. Pototschnig, La laicità dello Stato, in Jus, 1977, 247; C. Cardia, Stato laico, in Enciclopedia del
diritto, vol. XLIII, 1990, 876; G. Dalla Torre (a cura di), Ripensare la laicità. Il problema della laicità
nell’esperienza giuridica contemporanea, Torino, 1993; S. Lariccia, Laicità dello Stato e democrazia
pluralista in Italia, in Diritto ecclesiastico, 1994, I, 383; F. Rimoli, Laicità, in Enciclopedia Giuridica
Treccani, vol. XVIII, 1995; F. Finocchiaro, La Repubblica italiana non è uno Stato laico, in Diritto Ec-
clesiastico, 1997, 11; R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, a cura di, La laicità crocifissa? Il
nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004; G. Preterossi (a cura di), Le
ragioni dei laici, Roma-Bari, 2005; L. Elia, A proposito del principio di laicità dello Stato e delle difficoltà
di applicarlo, in Studi in onore di Giorgio Berti, vol. II, Napoli, 2005, 1063; F. Margiotta Broglio, La
laicità dello Stato, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Roma-Bari, 2005, 79; G. Long, Lai-
cità dello Stato, confessioni religiose e multiculturalismo, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
2006, 340; G. Casuscelli, Le laicità e le democrazie: la laicità della «repubblica democratica» secondo
la Costituzione italiana, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2007, n. 1, 183; B. Randazzo, Le
laicità. Alla ricerca del nucleo essenziale di un principio, in Filosofia e teologia, 2007, 273; A. Spadaro,
Libertà di coscienza e laicità nello stato costituzionale: sulle radici ‘religiose’ dello Stato ‘laico’, Torino,
2008; B. Randazzo, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, Milano, 2008; A. Di
Giovine, Laicità e democrazia, in Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Napoli, 2009, 255; G. Rolla
(a cura di), Libertà religiosa e laicità. Profili di diritto costituzionale, Napoli, 2009; M. Ainis, Chiesa pa-
drona. Un falso giuridico dai Patti Lateranensi ad oggi, Milano, 2009; S. Prisco, Laicità. Un percorso di
riflessione, Torino, 2009; S. Rodota’, Perchè laico, Roma-Bari, 2009-2010; A. Barba (a cura di), La laicità
del diritto, Roma, 2010; S. Lariccia, Battaglie di libertà. Democrazia e diritti civili in Italia (1943-2011),
Roma, 2011; P. Grassi, Laicità e pluralismo religioso, Villa Verucchio, 2013; L. Musselli - C. B. Ceffa,
Libertà religiosa obiezione di coscienza e giurisprudenza costituzionale, Torino, 2014; F. Rescigno, “Ite
missa est”. Laicità paradigma di eguaglianza, Napoli, 2015.
   della società al resto della popolazione, nemmeno se quella parte corrisponde alla
   maggioranza, lo Stato laico è quello capace di proclamare l’autonomia di coscien-
   za e svolge un ruolo di arbitro non affermando come obbligatoria una ‘concezione
   buona’ della vita, adoperandosi perché nessuno possa imporre la propria agli altri33.
   Lo Stato è effettivamente laico quando è separato da ogni cultura nella misura in cui
   riconosce il pieno valore delle differenze e, conformemente al carattere relativistico
   della democrazia, non ne assume alcuna in proprio ma è capace, in un quadro fon-
   damentale di valori conpisi o di principi supremi, che trovano espressione nella
   Costituzione, di rispettare tutte le culture e le posizioni in egual misura34.
   La laicità dunque non è separazione e indifferenza, ma riconoscimento pieno e ri-
   spettoso della dignità dell’altro attraverso la salvaguardia della sua persità cultura-
   le, religiosa e morale35. In questo senso il principio della democrazia che fa coesiste-
   re la pluralità delle idee, dei valori, degli stili di vita è necessariamente laico, laicità
   intesa non “come una filosofia tra le filosofie, come un’ideologia da opporsi ad altre
   ideologie”, ma piuttosto come “la regola di convivenza di tutte le possibili filosofie e
   ideologie”36. Il principio di laicità piene così, grazie alla sua neutralità assiologica,
   valore di tutti i valori, consentendo “a tutti l’espressione della propria personalità e
   dei propri convincimenti”37. Il binomio laicità-democrazia piene dunque caratte-
   ristica imprescindibile per la tradizione democratica occidentale, ciò non significa
   escludere totalmente l’universo religioso dallo spazio pubblico, bensì conferirgli il
   ruolo che gli compete, cioè il collocarsi nella dimensione di libertà della democra-
162
   zia non come verità di fede ma come un convincimento fra gli altri senza ambire
   di esserne il fondamento, in quanto la democrazia stessa è un insieme di valori in
   grado di fungere da solido supporto, etico e giuridico, alla dinamica convivenza fra
   i consociati38.
   Il nostro vuoto costituzionale rispetto alla laicità è stato colmato grazie ad una “ese-

   33 Sulla definizione di Stato laico cfr. G. Haarscher, La laïcité, Paris, 1996 e la bella ricostruzione effet-
   tuata da F. Margiotta Broglio, La laicità dello Stato, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici,
   Roma-Bari, 2005, 79.
   34 Così N. Colaianni, Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale,
   Bologna, 2012, 45 ss.
   35 Sullo Stato laico di fronte all’altro si vedano le interessanti riflessioni di F. Rimoli, Democrazia. Plu-
   ralismo. Laicità, Napoli, 2013, 296 ss.
   36 Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, Milano, 1969, 280; e ancora del medesimo autore, Un’dea di
   laicità, Bologna, 2013, 15, in cui afferma: “La mia tesi principale è che la connessione fra laicità, istitu-
   zioni e scelte democratiche è così stretta che si può concludere a proposito dei due termini, democrazia
   e laicità, che essi simul stabunt, simul cadent”. Così anche P. Rossi, Laicità in crisi?, in A. Roncaglia - P.
   Rossi - M. L. Salvadori (a cura di), Libertà, giustizia, laicità. In ricordo di Paolo Sylos Labini, Bari, 2008,
   59.
   37 Cfr. F. Rimoli, Laicità e pluralismo bioetico, Relazione al Convegno annuale dell’associazione italiana
   dei Costituzionalisti, Problemi della laicità agli inizi del secolo XXI, Napoli, 26-27 ottobre 2007, annuario
   2007, Padova.
   38 In tal senso cfr. P. Prodi, La questione laica nell’Italia di oggi, in Rivista del Grande Oriente d’Italia,
   2006, n. 4, in cui osserva che “l’Occidente nella sua storia ha imparato a tenere a bada il sacro senza
   scacciarlo e questa è la nostra conquista della laicità”, ancora A. Di Giovine, Laicità e democrazia, in
   Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Napoli, 2009, 255.
gesi creativa” effettuata dalla dottrina e ancor più dalla giurisprudenza costituzio-
nale, al fine di annoverare il principio di laicità tra i principi fondanti del nostro vi-
vere insieme. Il punto di partenza della creazione giurisprudenziale della laicità è
costituito dalla Sentenza n. 203 del 1989 con cui la Consulta ha elevato il concetto di
laicità a principio supremo dell’ordinamento costituzionale39. Tale pronuncia si oc-
cupa dell’annosa questione dell’insegnamento della religione cattolica rispetto alla
posizione degli studenti che non se ne avvalgono essendo esso, ai sensi della Legge
n. 121 del 1985, non più obbligatorio.

La Corte chiarisce la propria competenza nel verificare la costituzionalità della nor-
mativa impugnata in quanto il parametro è costituito da uno dei principi supremi
dell’ordinamento, poiché “i parametri invocati, artt. 2, 3 e 19. In particolare, nella
materia vessata gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà religiosa
nella duplice specificazione di pieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi
di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare
alcuna religione”, e ancora chiarisce che i “i valori richiamati concorrono, con altri
(artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità del-
lo Stato, che é uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale
della Repubblica”.

Se dobbiamo ringraziare la Corte per aver costituzionalizzato il principio di laicità
ponendolo tra i principi fondamentali del nostro ordinamento è anche doveroso
notare come l’esegesi della Sentenza del 1989 lasci alquanto perplessi poiché, se da              163
un lato la Corte afferma l’esistenza di uno Stato laico “entro un quadro normativo
rispettoso del principio supremo di laicità”, dall’altro, “proprio per la sua forma di
Stato laico”, inspiegabilmente conferisce solo ad una specifica religione una condi-
zione decisamente privilegiata, rendendola unica confessione oggetto di studio (sia
pur non obbligatorio) nelle scuole pubbliche. Così, la laicità riconosciuta dalla Corte
nasce viziata, con un innegabile favor nei confronti della religione cattolica, una lai-
cità che non può realizzare il principio di eguaglianza in quanto lo Stato non assume
una posizione di neutralità e garanzia nei confronti di tutte le confessioni religiose e
quindi non può definirsi quale stato veramente laico.

La ricostruzione della laicità operata dalla Sentenza del 1989, che richiama proprio
l’articolo 3 tra le disposizioni che concorrono a strutturare il principio supremo di
laicità dello Stato, lascia in ombra la rilevanza specifica che l’eguaglianza deve ne-
cessariamente assumere nella definizione dei caratteri e dei contenuti della laicità
statuale; insomma il principio di eguaglianza deve penire una ‘pregiudiziale’ della
stessa tematica della laicità in modo da salvaguardare effettivamente la libertà di
coscienza e religione di tutti e per tutti, in un reale regime di pluralismo confessio-


39 Cfr. Sentenza n. 203 del 1989 in Giurisprudenza Costituzionale, 1989, 890, con osservazioni di A.
Saccomanno, 903 e nota di L. Musselli, Insegnamento della religione cattolica e tutela della libertà
religiosa, 908 ed anche G. G. Floridia - S. Sicardi, Dall’eguaglianza dei cittadini alla laicità dello Stato,
ivi, 1086.
   nale e culturale40. Nella ricostruzione operata dalla Consulta invece il genus ‘valore
   della cultura religiosa’ e la species ‘principi del cattolicesimo nel patrimonio storico
   del popolo italiano’ concorrono a descrivere l’attitudine laica del nostro Stato-co-
   munità, ponendola al servizio delle concrete istanze della coscienza civile e religiosa
   dei cittadini. Manca il principio della neutralità dello Stato41, vero cardine della ri-
   flessione laica, e si considerano esistenti almeno due categorie di laicità42: la ‘laicità
   negativa o laicità-neutralità’ e la ‘laicità sana’43 o ‘positiva44 e la Sentenza del 1989
   non riconosce formalmente il principio di laicità, ma certifica una sorta di temibile
   “metamorfosi interpretativa” dello stesso, una mutazione in grado di metterne “in
   forse lo stesso contenuto originario ed essenziale, cioè il principio di neutralità reli-
   giosa e di conseguente imparzialità dello Stato”45, per cui la Corte prende le distanze
   da una concezione del fenomeno religioso quale elemento strettamente correlato
   alla sfera del privato, ponendosi in una prospettiva non di mera astensione, ma in
   quella di una ‘laicità positiva’ rispetto allo stesso fenomeno religioso.

   Se la ‘laicità negativa o neutrale’ comporta l’irrilevanza per la Repubblica del fe-
   nomeno religioso e il vincolo a carico dello Stato a mantenersi neutrale rispetto
   ai convincimenti religiosi dei cittadini restando conseguentemente equidistante ed
   imparziale nei riguardi delle varie confessioni; la ‘laicità positiva’ invece non si tra-
   duce in indifferenza e neutralità ma al contrario vede lo Stato garante della libertà
   religiosa, al servizio delle concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei citta-
   dini. In questo senso sembra dirigersi il primo articolo del Concordato riformato con
164
   cui la Repubblica e la Santa Sede si impegnano “alla reciproca collaborazione per la
   promozione dell’uomo e il bene del Paese”, per cui è evidente che la religione non
   corrisponde ad una dimensione inpiduale del singolo (o almeno non solo) bensì
   alla promozione della dimensione pubblica dell’uomo e al bene del Paese46.

   40 In tal senso cfr. le perplessità espresse da L. Guerzoni, Problemi della laicità nell’esperienza giuri-
   dica positiva: il diritto ecclesiastico, in G. Dalla Torre (a cura di), Ripensare la laicità. Il problema della
   laicità nell’esperienza giuridica contemporanea, Torino, 1993, 126.
   Il principio di eguaglianza non sembra assurgere a vera pregiudiziale della tematica della laicità nem-
   meno con le pronunce successive quando la Corte pur richiamando tale fondamentale principio in
   materia di confessioni religiose dimentica però di declinarlo in maniera compiuta. Cfr. Sentenza n. 329
   del 1997 in Giurisprudenza Costituzionale, 1997, 3335.
   41 La Corte parla di ‘equidistanza’ e ‘imparzialità’ ma non di ‘neutralità’ e a tale proposito nella Sen-
   tenza n. 329 del 1997 (in Giurisprudenza Costituzionale, 1997, 3335) afferma: “il principio costituzio-
   nale della laicità o non-confessionalità dello Stato, affermato in numerose occasioni da questa Corte
   (sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990 e n. 195 del 1993) ...non significa indifferenza di fronte
   all’esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le
   confessioni religiose”.
   42 Su tale distinzione cfr. G. Dalla Torre, Sana laicità o laicità positiva?, in Stato, Chiese e pluralismo
   confessionale, Rivista telematica, 2012.
   43 Parla di ‘sana laicità’ Pio XII in un discorso del 1958.
   44 Parte della dottrina parla anche di ‘laicismo estremo’ e ‘laicismo moderato’, su tale distinzione cfr.
   F. D’Agostino, Laicismo, costituzionalismo e religioni, in Aa.Vv., Costituzione e religione, Percorsi costi-
   tuzionale, 2/3, Trento, 2013, 15.
   45 Cfr. L. Guerzoni, Il principio di laicità tra società civile e Stato, in M. tedeschi (a cura di), Il principio
   di laicità nello Stato democratico, Napoli, 1996, 75.
   46 Questa impostazione, decisamente discutibile, viene confermata dalla Corte quando decide una
Il principio di laicità introdotto dalla giurisprudenza costituzionale mostra dunque
forti limiti mentre una definizione chiara della laicità nel nostro contesto costituzio-
nale e legislativo non appare più procrastinabile, i tempi moderni infatti ci pongono
dinanzi a sfide quotidiane che coinvolgono il principio di laicità: dal campo della
bioetica, a quello del multiculturalismo, all’accoglienza, ai fondamentalismi ed in-
tegralismi religiosi -pericolose deviazioni del principio del pluralismo religioso-, alle
‘nuove famiglie’, all’applicazione delle avanguardistiche tecnologie biomedicali alla
vita di relazione, alle profonde trasformazioni nel modo d’essere dello Stato e nel
rapporto tra società civile e Stato, all’uso dei simboli religiosi, fino ai ‘diritti di quarta
generazione’. Continuare a sostenere che il nostro principio di laicità non si sostan-
zia nell’indifferenza, nell’equidistanza e nella neutralità rispetto al fenomeno religio-
so ma costruisce una ‘laicità relativa’, un ‘pluralismo privilegiato’, una laicità pon-
derata alle concrete condizioni sociali, proporzionata all’importanza del patrimonio
cattolico47 dimostra solo che purtroppo “il principio di laicità non conforma la realtà
italiana, ma è da essa conformato, sia sul piano giuridico – la tenaglia dell’art. 7 e
del Concordato – che su quello sociale (l’imponente condizionamento da parte del-
la gerarchia cattolica, assecondata da un ceto politico “in ginocchio”)”48. Non può
infatti esistere una ‘laicità buona’ e una ‘laicità cattiva’, esiste solo lo Stato laico e
la laicità esprime il valore fondante del vivere insieme e come tale va riconosciuta e
realizzata. La laicità omessa dai nostri Costituenti ed introdotta dalla giurisprudenza
costituzionale è una “laicità battezzata e praticante” fondata “sulla norma implicita
che continua a riconoscere al cattolicesimo -e non ai principi costituzionali- un ruolo              165
pontificale nel processo d’integrazione societaria e, di conseguenza, un regime di
privilegio in perfetta continuità con la natura di Nazione Stato e non di Stato-Nazio-
ne dell’Italia” 49.

La mancanza di laicità quale fondamento dell’impianto costituzionale inficia, in par-
te, la democraticità dell’ordinamento poiché, almeno sul fronte religioso, non si ga-

seconda volta sulla legittimità dell’articolo 9, comma 2, della legge n. 121 del 1985 (cfr. Sentenza Corte
Costituzionale n. 13 del 1991, in Giurisprudenza Costituzionale, 1991, 77, con nota di A. Saccoman-
no, Insegnamento di religione cattolica: ancora una interpretativa di rigetto, 88), occasione in cui la
Consulta ribadisce decisamente l’orientamento maturato nella Sentenza del 1989 sostenendo che:
“l’insegnamento di religione cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari
dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte pattizia, non è causa di discriminazione e non
contrasta- essendone anzi una manifestazione col principio supremo di laicità dello Stato...”. L’insegna-
mento della sola religione cattolica nella scuola pubblica costituisce dunque (alquanto paradossalmen-
te) per il Giudice delle leggi attuazione del principio di laicità e chi decide di non avvalersene si trova in
uno stato di ‘non obbligo’. La definizione di laicità rimane ancorata all’idea di ‘buona laicità’ che ben si
concilia con i privilegi riconosciuti alla sola religione cattolica.
47 Per la dottrina in linea con tale impostazione cfr. M. Olivetti, Incostituzionalità del vilipendio della
religione dello Stato, uguaglianza senza distinzioni di religione e laicità dello Stato, in Giurisprudenza
costituzionale, 2000, 3978; R. Coppola, Ma la “laicità relativa” non l’ho inventata io… ovvero dell’u-
guaglianza delle confessioni religiose secondo Procuste; ed anche Il simbolo del crocifisso e la “laicità
relativa” o ponderata, in Forum di Quaderni costituzionali, 13 aprile 2002 e 9 giugno 2006.
48 Cfr. la lucida ricostruzione critica e le inevitabili e conpisibili conclusioni di A. Di Giovine, Laicità e
democrazia, in Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Napoli, 2009, 273.
49 Cfr. A. Ferrari, Laicità del diritto e laicità narrativa, in Il Mulino, 2008, n. 6, 1123 e ss.
   rantisce l’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge.
   La differenza di trattamento tra le religioni non appare infatti giustificabile ai sensi
   del principio di ragionevolezza, poiché le confessioni religiose (come chiarito dal-
   la stessa Corte) non possono essere considerate in maniera persa sulla base del
   dato numerico, antropologico o sociologico, e tale inattuazione non può giustificarsi
   nemmeno con il timore della pericolosità di una presunta deriva laicista. Il principio
   di laicità non può essere confinato al solo dibattito dottrinale, non è un semplice
   esercizio di stile, o il ‘sogno di un giurista’50, poiché la sua concreta affermazione
   influenza decisamente la vita di ogni soggetto e solo lo Stato laico è in grado di su-
   perare ogni weltanschauung caratterizzata dal c.d. integralismo, da certezze indimo-
   strabili, da pericolosi dogmi, insomma solo la laicità può ‘smascherare’ le ideologie
   perchè lo Stato penga effettivamente “il luogo di confronto ed integrazione di tut-
   te le verità, riconosciute e relativizzate come tali nella loro infinità varietà”51 e solo lo
   Stato laico può realizzare effettivamente ed efficacemente il principio di eguaglianza
   senza violare le scelte più intime, personali e anche confessionali che ognuno dei
   suoi consociati è libero comunque di compiere nella sua dimensione privata.

   La mancata previsione della laicità costituzionale così come la sua parziale e falsata
   introduzione ad opera della Corte costituzionale si ripercuotono negativamente su
   molti settori della nostra legislazione positiva, la mancanza di laicità ferisce dura-
   mente il principio di eguaglianza e giustifica un legislatore inerte o schizofrenico
   che troppo spesso quando si confronta con gli importanti temi etici che contraddi-
166
   stinguono i nostri tempi dimostra un’arretratezza giuridica realmente intollerabile
   o sceglie di non scegliere preferendo l’omissione legislativa alla legislazione laica
   fedele al principio di eguaglianza.

   In conclusione, se è pur vero che ‘non possiamo non dirci cristiani’ per il nostro pas-
   sato e la nostra storia52, allo stesso tempo deve essere altrettanto vero, anche per
   onorare e rispettare la rivoluzione operata dal Cristianesimo, che per il nostro futuro
   da cristiani è arrivato il momento di dimostrarci capaci di essere effettivamente laici
   ed egualitari nella gestione della cosa pubblica e della democrazia che oggi più che
   mai non può fare a meno di connotarsi in maniera egualitariamente laica. La laicità
   appare quindi quale strumento imprescindibile per realizzare la rivoluzione promes-
   sa dall’articolo 3.


   4. Il crocifisso di Stato che mortifica la laicità
   Il pluralismo religioso e confessionale riconosciuto dalla nostra Costituzione e il
   principio di laicità, seppure nella sua declinazione ‘buona’, emerso dalla giurispru-


   50 Così si esprime F. Margiotta Broglio, La laicità dello Stato, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni
   dei laici, Roma-Bari, Laterza, 2005, 93.
   51 Così V. Zanone, Laicismo, in N. Bobbio - N. Matteucci - G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politi-
   ca, Torino, 1976, 511; F. Rimoli, Laicità, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XVIII, 1995.
   52 B. Croce, Perchè non possiamo non dirci cristiani, in La Critica, 20 novembre 1942.
denza costituzionale non sembrano dunque sufficienti a definire l’eguaglianza senza
distinzione di religione: infatti malgrado tali affermazioni la religione cattolica con-
tinua a mantenere una posizione di privilegio che inficia il principio di eguaglianza.
Tale situazione appare in tutta la sua gravità anche nell’ambito della simbologia. In
un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla multiculturalità e dal pluralismo anche
religioso, non può stupire il fatto che la tematica dei simboli, da quelli “profani” a
quelli più specificatamente religiosi, risulti di forte impatto53. Il simbolo infatti può
avere effetti molto persi, da un lato è in grado di “sintetizzare messaggi e di comu-
nicarli con immediatezza”, è dunque uno strumento di richiamo identitario, ma così
come il simbolo può unire, al contempo esclude, ghettizza, discrimina: il simbolo
cioè unisce i “partecipi” della stessa credenza, fede o passione, e contemporanea-
mente li pide dai “non partecipi”54.

La questione dell’esposizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico presuppone,
da un punto di vista teorico, una riflessione sul ruolo che il principio di laicità rive-
ste nelle contemporanee società multiculturali55. Lo Stato laico e neutrale dovrebbe
infatti consentire a tutte le perse culture di partecipare e comunicare nello spa-
zio sociale e nei luoghi dell’interazione pubblica, nel rispetto dei principi essenziali
della democrazia e del moderno costituzionalismo in quadro di pluralismo religioso
e confessionale, tuttavia anche in questo ambito la nostra laicità non appare abba-
stanza convinta riparandosi all’ombra del crocifisso esposto nei luoghi dello Stato56.
                                                         167
53 In generale sull’importanza dell’uso dei simboli con particolare riferimento ai simboli religiosi cfr. G.
Ferrero, I simboli in rapporto alla storia e filosofia del diritto, alla psicologia e alla sociologia, Torino,
1892 (riedito a cura di Bruno Lauretano, Napoli, 1995); G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse.
Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Bologna, 1984; D. Kertzer, Riti e simboli del
potere, Roma, 1989; E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, 1993; L. Gattamorta, Teorie del simbolo:
studio sulla sociologia fenomenologica, Milano, 2005; L. Lombardi Vallauri, Simboli e realizzazione,
in E. Dieni - A. Ferrari - V. Pacillo (a cura di), Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa
multiculturale, Bologna, 2005, 13; E. Dieni - A. Ferrari - V. Pacillo (a cura di), Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, Bologna, 2005; M. Jasonni, Simbolo religioso e lai-
cità (Appunti a margine della rilettura apologetica di un frammento eracliteo), in Archivio giuridico
Filippo Serafini, 2005, 2; G. Casuscelli, Il crocifisso nelle scuole: neutralità dello Stato e «regola della
precauzione», in Diritto ecclesiastico, 2005, n. 1, 512; M. Parisi (a cura di); Simboli e comportamenti
religiosi nella società globale, Napoli-Roma, 2006; E. Dieni - A. Ferrari - V. Pacillo (a cura di), I simboli
religiosi tra diritto e culture, Milano, 2006; S. Mancini, Il potere dei simboli, i simboli del potere: laicità
e religione alla prova del pluralismo, Padova, 2008; F. Benigno - L. Scuccimarra (a cura di), Simboli
della politica, Roma 2010; A. De Oto (a cura di), Simboli e pratiche religiose nell’Italia «multiculturale».
Quale riconoscimento per i migranti?, Roma, 2010; G. Zagrebelsky, Simboli al potere: politica, fiducia,
speranza, Torino, 2012; F. La Camera, Il diritto ad esporre simboli religiosi nello spazio pubblico, in S.
Domianello (a cura di), Diritto e religione in Italia. rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà
religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Bologna, 2012, 215; L. P. Vanoni, Laicità e
libertà di educazione. Il crocifisso nelle aule scolastiche in Italia e in Europa, Milano, 2013; F. Rescigno,
“Ite missa est”. Laicità paradigma di eguaglianza, Napoli, 2015.
54 Cfr. A. Guazzarotti, Giudici e minoranze religiose, Milano, 2001.
55 Chiarisce con maestria gli effetti negativi del simbolo in termini di carica identitaria rispetto ai fon-
damentalismi di ogni religione L. Lombardi Vallauri, Simboli e realizzazione, in E. Dieni - A. Ferrari - V.
Pacillo (a cura di), Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, Bologna,
2005, 13.
56 L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è disciplinata dall’Ordinanza ministeriale
   Il problema rispetto all’esposizione del crocifisso è se debba essere considerato le-
   cito, e soprattutto rispondente ad uno Stato che afferma annoverare il principio di
   laicità tra i suoi principi fondamentali, esporre un crocifisso in un’aula scolastica,
   in un tribunale o in un ufficio pubblico; oppure se questa scelta, oltre a potere of-
   fendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad un’altra confessione
   religiosa, contraddica il principio di laicità e conseguentemente lo stesso principio
   di eguaglianza.

   L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici risponde ad alcune normative risalen-
   ti al periodo fascista, previsioni che né le successive novità legislative né, tantome-
   no, la Costituzione repubblicana che statuisce l’eguaglianza delle religioni di fronte
   alla legge sono riuscite a scalfire, così come non sembra esserci riuscita l’afferma-
   zione della Corte Costituzionale che sancisce la presenza del principio di laicità tra i
   fondamenti dello Stato.

   Rispetto alla collocazione del crocifisso nei tribunali è la Circolare del Ministro Rocco
   del 29 maggio 1926 a disporne la collocazione nelle aule di udienza57. Tale previ-
   sione, ancora oggi applicata, è stata contestata apertamente a partire dall’ottobre
   del 2003 da un magistrato di Camerino -il dottor Tosti- che decise, su richiesta di
   alcuni avvocati, di rimuovere il crocifisso presente nell’aula giudiziaria, gesto che
   causò un’inchiesta dell’allora Ministro della giustizia Castelli al fine di appurare se
   fosse necessario intervenire con un trasferimento d’ufficio o un’azione disciplinare
168  nei confronti del magistrato. Il giudice arrivò fino all’astensione dalle udienze con le
   naturali conseguenze derivate dall’interruzione di pubblico servizio, cioè una prima
   condanna nel dicembre del 2005 da parte del Tribunale dell’Aquila, a sette mesi di
   reclusione e all’interdizione dei pubblici uffici per un anno. Tale condanna veniva
   confermata dalla Corte di Appello dell’Aquila, e poi successivamente annullata nel
   2009 dalla Cassazione che accoglieva la non configurazione del reato di omissione
   di atti di ufficio, poiché le udienze erano state tenute comunque dai sostituti, omet-

   11 novembre 1923 n. 250; mentre l’esposizione nelle aule giudiziarie deriva dalla Circolare del Ministro
   Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione
   del crocifisso nelle aule di udienza”. Per quanto concerne la scuola si fa riferimento ad una serie di atti
   secondari su cui si avrà modo di soffermarsi nel prosieguo della trattazione. Più recentemente rispetto
   all’esposizione di simboli religiosi all’interno di uno spazio pubblico destinato ad uso privato è stata
   prevista -dall’articolo 58, comma 2, d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230- la possibilità al detenuto di “esporre
   nella propria camera inpiduale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti, imma-
   gini e simboli della propria confessione religiosa”. Infine, si ricorda la ‘Carta dei valori della cittadinanza
   e dell’integrazione’ approvata con Decreto del Ministro dell’Interno 23 aprile 2007, n. 26628, in cui
   si afferma tra l’altro che “l’Italia rispetta i simboli, e i segni, di tutte le religioni. Nessuno può ritenersi
   offeso dai segni e simboli di religioni perse dalla sua”. Peccato che i simboli delle altre religioni non
   trovino alcuno spazio nei luoghi dello Stato.
   57 Cfr. Circolare Ministero di Grazia e Giustizia - Div. III del 29/5/1926, n. 2134/1867: «Prescrivo che
   nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il
   Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità
   e di giustizia. I Capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni comunali
   affinché quanto ho disposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte, quale si conviene all’al-
   tissima funzione della giustizia».
tendo però di pronunciarsi sugli altri motivi relativi alla tutela della libertà religiosa.
In seguito all’assoluzione è stato riattivato il procedimento disciplinare che era stato
sospeso in attesa della definizione di quello penale e nel 2010 la Sezione discipli-
nare del CSM -pur ritenendo che l’imposizione dei crocifissi potesse configurare la
lesione dei diritti di libertà religiosa e di coscienza- rimuoveva comunque il giudice
Tosti dalla magistratura in quanto considerava i rimedi alternativi proposti sufficienti
a garantire i diritti dello stesso58. Nel luglio del 2012 la Corte di appello dell’Aquila
ha discusso l’appello contro la seconda sentenza di condanna nel frattempo già pro-
nunciata assolvendo il giudice dal reato di omissione di atti di ufficio (art. 328 Codice
Penale) per essersi rifiutato di tenere le udienze sotto l’imposizione dei crocifissi,
omettendo però anche in questo caso di soffermarsi sui profili più controversi della
vicenda e cioè quelli legati alla libertà religiosa e al principio di laicità59. La lunga
vicenda del giudice Tosti arriva anche dinanzi alla Corte costituzionale la quale con
l’Ordinanza n. 127 del 2006 dichiara inammissibile il conflitto tra poteri dello Sta-
to60 cogliendo l’occasione per aggiungere che in realtà il magistrato “esprime solo il
personale disagio di un lavoratore dipendente del Ministro di Giustizia per lo stato
dell’ambiente nel quale deve svolgere la sua attività” senza lamentare “alcuna me-
nomazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite agli appartenenti all’or-
dine giudiziario”.

Dopo condanne, assoluzioni e azioni disciplinari possiamo ben dire che la questione
non appare risolta e che, accanto al motto ‘La legge è uguale per tutti’, ancora oggi
                                                         169
trova posto nei nostri tribunali il simbolo della passione di Cristo, come a ricordarci
che una cosa è l’eguaglianza dinanzi alla legge e ben altro è invece l’eguaglianza sen-
za distinzione di religione. Se questa è la situazione nei luoghi deputati alla giustizia,
altrettanto pregiudizievole è quella nei luoghi del sapere: infatti, oltre all’insegna-
mento della sola religione cattolica, le nostre scuole veicolano il messaggio religioso
attraverso l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

Paradossalmente l’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche non deriva da

58 I giudici del CSM hanno scelto la sanzione estrema della rimozione dalla magistratura per motivi di
“prevenzione speciale” poichè se il giudice Tosti fosse stato riammesso in servizio avrebbe comunque
proseguito nella sua richiesta di difesa dei propri diritti inviolabili e quindi nella rimozione dei crocifis-
si, così l’unica soluzione concretamente praticabile appariva quella della rimozione del giudice e non
certo dei crocifissi.
59 La Corte d’Appello nella sua Sentenza sostiene: “che è meritevole di tutela, alla luce dei principi
costituzionali, il diritto dei difensori e dell’imputato a presenziare e ad esercitare le prerogative difen-
sive in un’aula di giustizia priva di espliciti simboli religiosi”, ma afferma anche che tale tutela di questi
diritti poteva “essere garantita mediante la celebrazione del processo in un’altra aula della Corte, che
era priva dei crocifissi”.
60 Si tratta del giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della circolare
del Ministro di grazia e giustizia – Div. III del 29 maggio 1926, n. 2134/1867, relativa alla «Collocazio-
ne del Crocefisso nelle aule di udienza» e consequenziale diniego dell’attuale Ministro della giustizia
alla rimozione dei crocifissi nelle aule giudiziarie promosso con ricorso di Luigi Tosti, nella qualità di
giudice monocratico del Tribunale di Camerino, nei confronti del Ministro della giustizia, depositato
in cancelleria il 5 dicembre 2005 ed iscritto al n. 43 del registro conflitti tra poteri dello Stato, fase di
ammissibilità. Cfr. Ordinanza n. 127 del 2006 in Giurisprudenza Costituzionale, 2006, 1192.
   una previsione legislativa ma è il risultato di una serie di atti secondari concernenti
   non tanto l’insegnamento della religione cattolica quanto piuttosto gli arredi scola-
   stici61. I Patti Lateranensi e le successive modifiche del 1984 non hanno infatti sta-
   bilito niente di specifico rispetto all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in
   generale negli uffici pubblici. È interessante notare come il Consiglio di Stato abbia
   però fornito parere negativo rispetto ad una abrogazione implicita dovuta al deca-
   dimento della previsione della religione cattolica quale religione di Stato avvenuto
   proprio con la modifica dei patti Lateranensi62.

   L’esposizione del crocifisso nelle nostre scuole ha dato vita ad una lunghissima vicen-
   da giudiziaria terminata, almeno fino ad ora, addirittura davanti alla Grand Cham-
   bre. Il caso è cominciato nel 2002 in seguito alla richiesta della signora Lautsi al
   Consiglio d’istituto della scuola media di Abano Terme frequentata dai propri figli, di
   rimuovere il crocifisso dalle aule. Al rifiuto della scuola la signora decide di rivolgersi
   al Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto che non entra nel merito della vi-
   cenda e rimette la questione di legittimità alla Corte Costituzionale fondando la pro-
   pria ordinanza di remissione sui due presupposti: che le norme regolamentari del
   1924 e del 1928 fossero tuttora vigenti in virtù dell’art. 676 del Decreto legislativo n.
   297 del 1994 e che quindi fosse possibile un controllo indiretto su di esse attraverso
   la proposizione di una questione di legittimità avente ad oggetto alcune disposizioni
   del testo unico sull’istruzione, così come «specificate» da tali norme secondarie63. Il
170
   61 L’esposizione dell’immagine del crocifisso (e del ritratto del Re) nelle scuole pubbliche è disposta
   dall’articolo 118, r.d. 30 aprile 1924, n. 965, in ogni aula delle scuole medie (del Regno d’Italia) e, per
   la scuola elementare, dal r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che all’allegato C (articolo 119) prevede il cro-
   cifisso nella tabella degli arredi e del materiale occorrente nelle varie classi. La vigenza di tali norme
   viene successivamente confermata dall’articolo 30 della Legge 28 luglio 1967, n. 641 in materia di
   edilizia scolastica (poi sostituito dall’articolo 6 della Legge 17 febbraio 1968, n. 106) e dalla Circolare
   del Ministero della Pubblica Istruzione 19 ottobre 1967, n, 367/2527 che prevede l’esposizione dell’im-
   magine del Presidente della Repubblica al posto di quella del Re. Il Decreto Legislativo 16 aprile 1994,
   n. 297 (T.u. delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione) non menziona espressamente
   gli elementi di necessario corredo delle aule scolastiche; la Circolare del Miur del 3 ottobre 2002, n.
   2667, dedicata proprio al crocifisso, ribadisce l’obbligo per i dirigenti scolastici di assicurare il rispetto
   dell’esposizione. Ancora, in merito all’esposizione di simboli religiosi persi dal crocifisso nelle scuole
   pubbliche è intervenuta la Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione dell’8 aprile 1923, n. 8823
   che accogliendo le richieste dei valdesi, prevede la possibilità di affiggere un’immagine del Redentore
   “in un’espressione significativa che valga a manifestare il medesimo altissimo ideale che è raffigurato
   nel crocifisso”.
   62 Con il Parere n. 63 del 1988, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile
   1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso
   nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regola-
   mentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica in quanto, premesso che “...il
   Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della
   civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente
   da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti
   Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare che
   la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive
   alcun pieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che
   evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”.
   63 Cfr. TAR Veneto, Sezione I, Ordinanza 14 gennaio 2004, n. 56, in Foro italiano, 2004, III, 235.
giudice delle leggi però ‘decide di non decidere’ e dichiara la manifesta infondatezza
della questione sollevata «sotto ogni profilo» ritenendo «erronei» i presupposti del
ricorso64. La questione è inammissibile, poiché non vi sarebbe un obbligo legislativo
all’affissione del crocifisso ma al massimo una previsione con fonte secondaria; in
tal modo la Consulta non sembra voler avallare il Parere del Consiglio di Stato del
1988 che sosteneva la vigenza e la costituzionalità delle disposizioni del periodo fa-
scista; in più, considerando che nel 2000 la Corte di Cassazione, Sezione IV penale,
con la Sentenza n. 439, dichiarava non necessaria e non legittima la presenza del
crocifisso nei seggi elettorali, allora si poteva pensare che la loro legittimazione a
rimanere nelle scuole dovesse essere rimessa sostanzialmente all’autonomia e alla
discrezionalità delle singole istituzioni scolastiche e, concretamente, alle decisioni
assunte dagli organi direttivi.

La prudenza della Consulta non appare conpisibile considerando l’importanza del-
la questione relativa all’esposizione del simbolo cattolico per eccellenza in un luogo
così rilevante quali le aule scolastiche. Il seguito della laconica Ordinanza della Corte
arriva con la Sentenza T.A.R. Veneto 17-22 marzo 2005, n. 1110, in cui il Tribunale
regionale, in maniera “dissociata” rispetto alla precedente ordinanza di rimessio-
ne – che poteva far supporre una propensione verso la caducazione delle norme
incriminate – decide di superare le perplessità precedenti e dopo avere affermato
la propria giurisdizione passa al giudizio nel merito in cui ricostruisce dapprima l’e-
voluzione storica della disciplina prendendo le mosse dalla normativa prevista dallo
                                                          171
Statuto Albertino e dalle modifiche sopravvenute; sottolineando come l’esposizione
del crocifisso nelle scuole sia perdurata tanto a lungo, anche dopo la caduta del
fascismo, che si potrebbe ipotizzare addirittura una consuetudine nel senso giuri-
dico del termine. Il TAR ricorda come il principio di laicità non rimanga confinato al
nostro ordinamento, ma costituisca altresì un tratto distintivo di tutti i sistemi de-
mocratici occidentali come confermato da numerose sentenze che in persi paesi
(anche non europei) si sono occupate di risolvere delicati conflitti sulla presenza
pubblica di simboli religiosi65. Il Tribunale amministrativo appare consapevole che

64 Cfr. Ordinanza n. 389 del 2004 in Giurisprudenza costituzionale, 2004, 4280 e ss. con osservazioni
di S. Lariccia, A ciascuno il suo compito: non spetta alla Corte costituzionale disporre la rimozione del
crocifisso nei locali pubblici; G. Gemma, Esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: una corretta
ordinanza di inammissibilità; F. Rimoli, La Corte, la laicità e il crocifisso, ovvero di un appuntamento
rinviato; A. Gigli - S. Gattamelata, Il crocifisso: valore universale di un arredo scolastico. Ancora su tale
pronuncia cfr. G. Gemma, Spetta al giudice comune, non alla Corte costituzionale, disporre la rimozione
del crocifisso, in R. Bin- G. Brunelli- A. Pugiotto- P. Veronesi (a cura di), La laicità crocifissa? Il nodo
costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino 2004, 161; A. Celotto, Il simbolo sacro
inserito tra gli arredi scolastici può mettere in discussione la laicità dello Stato, in Guida al diritto, 2004,
n. 8, 95; F. Margiotta Broglio, Obbligatorio o non obbligatorio? Il crocifisso per ora resta appeso, in
OLIR, Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, www.olir.it, dicembre 2004.
65 Per quanto concerne i riferimenti di diritto comparato il TAR respinge decisamente l’idea di un con-
cetto di laicità alla francese sostenendo: “Infine, risulta impossibile trasporre nel nostro sistema il con-
cetto di laicità francese, legato strettamente alla specifica storia di quel Paese e basato non già sulla
neutralità dello Stato, ma su di una sua precisa scelta di valori”, come se la Francia fosse caratterizzata
da principi, valori e da una storia che nulla ha in comune con la tradizione italiana.
   “il crocifisso…non può essere considerato semplicemente come un arredo, ma è un
   simbolo, un oggetto cioè che richiama significati persi rispetto alla sua materiali-
   tà,…ciò premesso, va osservato innanzi tutto come il crocifisso costituisca anche un
   simbolo storico-culturale, e di conseguenza dotato di una valenza identitaria riferi-
   ta al nostro popolo...esso indubbiamente rappresenta in qualche modo il percorso
   storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e ne
   costituisce un’efficace sintesi...il crocifisso non può, oggi, essere considerato come
   un mero simbolo storico e culturale, nemmeno nel contesto scolastico, ma deve
   essere valutato anche come un simbolo religioso. A tale proposito va evidenziato
   come la croce vada intesa quale simbolo del cristianesimo, non già semplicemente
   del cattolicesimo, e quindi riassuma in sé oltre al cattolicesimo stesso anche i valori
   delle altre confessioni cristiane presenti nel nostro Paese...In sostanza, la croce è un
   simbolo in cui si possono identificare numerose (anche se probabilmente non tutte)
   confessioni religiose che si rifanno alla figura del Cristo e che, in certo qual modo,
   costituisce quindi anche il segno del loro comune denominatore ... il crocifisso deb-
   ba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale,
   e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di
   valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche
   della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale”.

   Il ragionamento del giudice amministrativo lascia decisamente increduli. Il giudice
   si è avventurato su quello che lui stesso definisce essere un ‘terreno scivoloso’ ed è
172
   ‘scivolato’ non tanto perché sostiene l’esistenza di un’affinità tra i valori che costi-
   tuiscono l’architrave del pensiero cristiano e il nucleo portante della Carta repub-
   blicana, ma perché afferma che per questo il simbolo della croce piene simbolo
   di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana, tolleranza religiosa
   e dunque simbolo della laicità dello Stato. Il crocifisso ‘abbraccia’ tutti e ‘non può
   escludere nessuno senza negare sé stesso’, per cui tutti: credenti, non credenti e
   seguaci di altre religioni in esso devono riconoscersi; ben venga dunque la sua collo-
   cazione nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo esso non contrasta ma
   anzi afferma e conferma il principio della laicità dello Stato repubblicano66. La Sen-
   tenza sposa quindi l’idea di una laicità ‘attiva’ rispetto alla quale lo Stato svolge un
   ruolo di promozione non nel senso dell’eguaglianza tra le varie confessioni religiose,
   bensì in quello dell’esaltazione dei valori espressi dalla sola religione cattolica; infi-
   ne, in nessuna considerazione vengono tenute le libertà fondamentali degli alunni,
   considerando che tra le funzioni primarie della scuola dovrebbe invece esserci l’edu-

   66 Si evidenzia come l’ottica di riferimento della pronuncia è unicamente quella della oggettiva valenza
   del crocifisso alla luce del patrimonio storico e culturale della Nazione, tralasciando la percezione sog-
   gettiva del simbolo ad opera dell’alunno, cioè la prospettiva soggettivistica della libertà di coscienza.
   Sul dilemma tra ottica ‘soggetivistica’ e prospettiva ‘oggettivistica’ rispetto alla questione dell’esposi-
   zione del crocifisso nei luoghi pubblici e cioè se essa attenga in via esclusiva o primaria al tema della
   laicità dello Stato ovvero a quello della libertà di coscienza di quanti accedono in quei luoghi, cfr. M.
   Manco, Esposizione del crocifisso e principio di laicità dello Stato, in Quaderni di Diritto e Politica Eccle-
   siastica, 2005, n. 1, 33, dove l’autore si concentra sulla forma assiologica cui si conforma l’istituzione
   statale in sè.
cazione al pluralismo religioso e culturale ed alla tolleranza ed anche la protezione
della libertà di coscienza degli alunni stessi67.

La storia infinita dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche prosegue con
la Sentenza n. 556 del 2006 del Consiglio di Stato il quale conferma l’impostazione
relativa alla ‘laicità del crocifisso’ elaborata dal giudice amministrativo di I° grado e
chiarisce, preliminarmente, che il concetto di laicità non va inteso in senso generale
ed univoco, per cui se è pur vero che la laicità richiede la distinzione tra la dimensio-
ne temporale e quella spirituale è altrettanto vero che ogni Stato realizza la pro-
pria personale laicità68. Emerge quindi accanto alla ‘laicità buona’ e alla ‘laicità cat-
tiva’ una visione ‘territoriale’ della laicità, per cui si riconoscono tante laicità quanti
Paesi esistono, e il Consiglio di Stato afferma, tra l’altro, che il crocifisso deve restare
nelle aule scolastiche in quanto “simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento
dei valori civili” che hanno un’origine religiosa, ma “che sono poi i valori che deline-
ano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”. Ancora, il giudice amministrati-
vo rinviene nel crocifisso un simbolo unificante di grande portata poiché sarebbe
difficile trovare, «nel contesto culturale italiano», un altro simbolo più idoneo del
crocifisso ad esprimere «l’elevato fondamento dei valori civili»69.

La ricorrente decide allora di rivolgersi alla Corte europea per i diritti dell’uomo, che
con la Sentenza del 3 novembre 2009 (Procedimento n. 30814/06, Lautsi v. Italia)
capovolge l’impostazione delineata fino a quel momento dalla giustizia italiana sta-
bilendo che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche costituisce “una viola-           173
zione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto
degli alunni alla libertà di religione”70. La Corte dei diritti sottolinea infatti come

67 A tale proposito giova ricordare la Legge 27 maggio 1991, n. 176 contenente Ratifica ed esecuzione
della convenzione sui diritti del fanciullo,fatta a New York il 20 novembre 1989 e pure la Legge 20 marzo
2003, n. 77 contenente Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei
fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996.
68 Cfr. Sentenza n. 556 del 2006 del Consiglio di Stato.
69 Su tale affermazione non si può che dissentire in quanto esiste certamente un altro simbolo assai
più idoneo allo scopo indicato e pure chiaramente descritto dalla Carta repubblicana tra i suoi principi
fondamentali: si tratta della nostra bandiera unico dei simboli della Repubblica a trovare esplicita men-
zione nella Costituzione che non si riferisce né all’inno, né a feste nazionali, né tantomeno a simboli
religiosi o pseudo-tali.
70 Sulla Sentenza della Corte di Strasburgo cfr. S. Mancini, La supervisione europea presa sul serio:
la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti,
in Giurisprudenza Costituzionale, 2009, 4055; S. Bartole, Simbolo religioso, simbolo passivo, simbolo
civile: le metamorfosi forensi del Crocifisso, in Diritti umani e diritto internazionale, 2010, 65; N. Co-
laianni, Il crocifisso tra Roma e Strasburgo, in www.statoechiese.it., maggio 2010; J. H. H. Weiler, Il
crocefisso a Strasburgo: una decisione imbarazzante, in Quaderni Costituzionali, 2010, 148; D. Tega,
Cercando un significato europeo di laicità: la libertà religiosa nella giurisprudenza della Corte europea
dei diritti, in Quaderni Costituzionali, 2010, 799; M. Ruotolo, La questione del crocifisso e la rilevanza
della sentenza della Corte europea dal punto di vista del diritto costituzionale, in www.costituzionali-
smo.it, 11/01/2010; A. Guazzarotti, Il crocifisso visto da Strasburgo, in Studium Iuris, 2010, n. 5, 494;
F. Cortese - S. Mirate, La CEDU e il crocifisso: prodromi, motivi e conseguenze di una pronuncia tanto
discussa, in www.forumcostituzionale.it, 28 gennaio 2010; M. Ricca, Chi vuole il crocifisso? Domande
semplici, democrazia interculturale, fede personale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2010, 5;
   spetti principalmente all’istruzione pubblica salvaguardare e promuovere il plura-
   lismo educativo, essenziale alla preservazione della società democratica così come
   la concepisce la Convenzione, per cui “il rispetto delle convinzioni dei genitori deve
   essere reso possibile nel quadro di un’istruzione capace di garantire un ambiente
   scolastico aperto e favorendo l’inclusione piuttosto che l’esclusione, indipendente-
   mente dall’origine sociale degli allievi, delle loro credenze religiose o dalla loro origi-
   ne etnica”, infatti “la scuola non dovrebbe essere il teatro di attività di proselitismo
   o predicazione” bensì “un luogo di unione e confronto di varie religioni e convinzioni
   filosofiche, dove gli allievi possono acquisire conoscenze sulle perse tradizioni”. Il
   pluralismo per la Corte è assicurato dalla neutralità dello Stato, ancor più necessaria
   quando i protagonisti sono i giovani e giovanissimi che ancora non possono aver
   maturato quella capacità critica consona a prendere le distanze rispetto al messag-
   gio che deriva da una scelta preferenziale manifestata dallo Stato in materia religio-
   sa. Lo Stato è dunque tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione
   pubblica obbligatoria e l’esposizione nelle aule delle scuole pubbliche di un simbolo
   che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) non
   appare di alcun aiuto alla realizzazione del pluralismo educativo essenziale alla pre-
   servazione d’una società democratica come la concepisce la Convenzione, e alla
   preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto pure dalla Corte costituziona-
   le nel diritto nazionale. La Corte stabilisce che in questo caso c’è stata effettivamen-
   te violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 e dell’articolo 9 della Convenzione,
174  ma non potendo imporre la rimozione dei crocifissi dalle scuole italiane ed europee,
   condanna comunque il nostro Paese a risarcire la ricorrente per danni morali.

   Questa pronuncia suscitò forti reazioni e condusse a quella che per ora appare l’ul-
   tima tappa della vicenda e cioè la pronuncia della Grande Chambre del 18 marzo
   2011, con la quale (con quindici voti a favore e due contrari) viene ribaltata la pro-
   nuncia di primo grado e assolta l’Italia, perchè pur essendo vero che il crocifisso è
   essenzialmente un simbolo religioso, “non sussistono tuttavia nella fattispecie ele-
   menti attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa na-
   tura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni”; in altre parole,
   la Corte considera il crocifisso come un simbolo “passivo”, e le scelte relative alla
   sua esposizione o meno nelle aule scolastiche rientrano totalmente “nell’ambito del
   margine della discrezionalità dello Stato”71.

   C. Cardia, Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso, Torino, 2010; D. Scaffidi,
   L’esposizione di simboli religiosi nella scuola pubblica: la decisione della Corte e europea dei diritti
   dell’uomo del 3 novembre 2009 nel caso Lautsi c. Italia (ric. 30814/2006), in Persona e mercato, 2011,
   n. 2, 120; L. P. Vanoni, Laicità e libertà di educazione. Il crocifisso nelle aule scolastiche in Italia e in
   Europa, Milano, 2013.
   71 Sulla decisione cfr. A. Leoni, L’”Affaire Lautsi c. Italie”: la vicenda giudiziaria dell’esposizione del
   crocifisso nelle aule scolastiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, in Rivista telematica, www.
   statoechiese.it, aprile 2011; C. Pinelli, Esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e libertà di reli-
   gione (Oss. a Corte europea dei diritti dell’uomo- Grande Chambre, Lautsi contro Italia, 18 marzo 2011),
   in Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa (www.europeanrights.eu), 10 maggio
   2011; M. Toscano, La sentenza Lautsi e altri c. Italia della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in Stato,
L’ultimo atto di questa annosa vicenda non pare risolvere la ‘questione crocifisso’
in maniera convincente, mostra infatti una Corte prudente che, pur ritenendo che il
crocifisso sia innanzitutto un simbolo religioso, non ravvede però specifici elementi
che attestino l’eventuale influenza negativa dell’esposizione di un simbolo religioso
sui muri delle aule scolastiche; lasciando unicamente alla valutazione dello Stato
convenuto la scelta se affiggerlo o meno sostenendo che comunque il nostro siste-
ma di istruzione pubblica sembra ispirato al pluralismo e al rispetto di ogni convin-
zione religiosa (come emerge da quanto allegato dal Governo italiano). Così il cro-
cifisso che nella sentenza del 2009 era un ‘simbolo forte’ si trasforma in un‘simbolo
essenzialmente passivo’, che si concilia con il principio di neutralità, in quanto non
è possibile attribuirgli un’influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere
ad esempio un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose. La Corte
sembra così aver accantonato la sua giurisprudenza precedente in cui neutralità e
laicità camminavano insieme perché “laicità significa neutralità; lo dice la Corte eu-
ropea, lo dice la dottrina: neutrale è, e deve essere, lo spazio pubblico di convivenza,
in primo luogo la scuola, sede primaria di formazione del cittadino. Non va confuso
ciò che rientra nella libertà dei singoli e ciò che è consentito allo Stato”72.

Il crocifisso rimane dunque in classe e la scuola che dovrebbe essere uno dei luoghi
per eccellenza laici penta invece una ‘scuola prepotente’ fonte di pisione, una
scuola che perde la possibilità di educare a superare gli egoismi al fine di inpiduare
interessi generali unificanti73.
                                                       175
È triste e fa pensare un paese che ha bisogno di ricorrere a simboli religiosi per
‘unire’, dovrebbero invece essere i principi fondamentali, la Costituzione e i diritti
inviolabili a testimoniare la nostra identità culturale, la nostra storia e il nostro per-
corso democratico e non certo il crocifisso, simbolo di estrema importanza per la
religione cattolica, ma che non può certo realizzare il principio di eguaglianza senza
‘senza distinzione di religione’, ma anzi suo malgrado, contribuisce a mortificare la
laicità e l’eguaglianza, venendo utilizzato quale strumento di intolleranza e pisio-
ne. Il cammino verso la realizzazione del principio di laicità in Italia appare quindi
ancora molto lungo e faticoso.




Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, www.statoechiese.it, ottobre 2011; I. Ruggiu,
Il crocifisso come “simbolo passivo” nella Lautsi II: riflessioni sulle tecniche argomentative dei giudici
nei conflitti multiculturali e religiosi, in Diritti Comparati, www.diritticomparati.it, 28 luglio 2011; A.
Errante Parrino, La decisione della “grande chambre” sul caso del crocifisso nelle scuole italiane,
in Persona e mercato, 2011, n. 2, 129; S. Mancini, La sentenza della Grande Camera sul crocifisso: è
corretta solo l’opinione dissenziente, in Quaderni costituzionali, 2011, 2, 425.
72 Cfr. L. Carlassare, Crocifisso: una sentenza per l’Europa ‘non laica’, in Costituzionalismo.it, 2011,
n.2 (www.costituzionalismo.it/articoli/384), ed ora anche in Nuova giurisprudenza civile commentata,
2011, n. 6, parte II, 291.
73 In tal senso cfr. le riflessioni di S. Rodotà, Perchè laico, Bari, 2009-2010, 63 ss.
   Breve bibliografia ragionata
   Ainis M., Chiesa padrona. Un falso giuridico dai Patti Lateranensi ad oggi, Milano, 2009;
   Barba A. (a cura di), La laicità del diritto, Roma, 2010;
   Barbera A., Il cammino della laicità, in S. Canestrari (a cura di), Laicità e diritto, Bologna,
   2007, 33;
   Bin R. - Brunelli G. - Pugiotto A. - Veronesi P. (a cura di), La laicità crocifissa? Il nodo costi-
   tuzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004;
   Canestrari S. (a cura di), Laicità e diritto, Bologna, 2007;
   Cardia C., Stato laico, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII, 1990, 876;
   Cardia C., Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso, Torino, 2010;
   Carlassare L., Crocifisso: una sentenza per l’Europa ‘non laica’, in Nuova giurisprudenza
   civile commentata, 2011, 6, parte II, 291;
   Croce B., Perchè non possiamo non dirci cristiani, in La Critica, 20 novembre 1942;
   Croce M., La libertà religiosa nell’ordinamento costituzionale italiano, Pisa, 2012;
   Dalla Torre G., Il fattore religioso nella Costituzione, Torino, 1988;
   Dalla Torre G. (a cura di), Ripensare la laicità. Il problema della laicità nell’esperienza giuri-
   dica contemporanea, Torino, 1993;
   Dalla Torre G., Europa. Quale laicità?, Cinisello Balsamo 2003;
   Di Giovine A., Garanzie costituzionali della libertà dei non credenti, in Rivista giuridica sarda,
176  2001, 599;
   Di Giovine A., Laicità e democrazia, in Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Napoli,
   2009, 255;
   Elia L., A proposito del principio di laicità dello Stato e delle difficoltà di applicarlo, in Studi in
   onore di Giorgio Berti, vol. II, Napoli, 2005, 1063;
   Gigli A. - Gattamelata S., Il crocifisso: valore universale di un arredo scolastico, in Giurispru-
   denza costituzionale, 2004, 4280;
   Grassi P., Laicità e pluralismo religioso,Villa Verucchio, 2013;
   Guerzoni L., Il principio di laicità tra società civile e Stato, in M. tedeschi (a cura di), Il prin-
   cipio di laicità nello Stato democratico, Napoli, 1996, 75;
   Lariccia S., Laicità dello Stato e democrazia pluralista in Italia, in Diritto ecclesiastico, 1994,
   I, 383;
   Lariccia S., La laicità in Italia, oggi, in Carcano R. (a cura di), Le voci della laicità, Roma,
   2006, 23;
   Lariccia S., Battaglie di libertà. Democrazia e diritti civili in Italia (1943-2011), Roma, 2011;
   Lombardi Vallauri L., Simboli e realizzazione, in E. Dieni - A. Ferrari - V. Pacillo (a cura di),
   Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti
   Luzzatto S., Il crocifisso di Stato, Torino, 2011;
   Mancini S, Il potere dei simboli, i simboli del potere: laicità e religione alla prova del plurali-
   smo, Padova, 2008;
   Mancini S., La sentenza della Grande Camera sul crocifisso: è corretta solo l’opinione dissen-
   ziente, in Quaderni costituzionali, 2011, 2, 425;
Margiotta Broglio F., La protezione internazionale della libertà religiosa nella Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, Milano, 1967;
Margiotta Broglio F., La riforma dei Patti Lateranensi dopo vent’anni, in Quaderni di diritto
e politica ecclesiastica, 2004, 1, 5;
Margiotta Broglio F., Obbligatorio o non obbligatorio? Il crocifisso per ora resta appeso, in
OLIR, Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, www.olir.it, dicembre 2004;
Musselli L., Insegnamento della religione cattolica e tutela della libertà religiosa, in Giuri-
sprudenza Costituzionale, 1989, 908;
Nania R., Il Concordato, i giudici, la Corte, in Giurisprudenza Costituzionale, 1982, 147;
Parisi M., Il diritto alla scelta di insegnamenti di religione nella scuola pubblica, in S. Domia-
nello, Diritto e religione in Italia. rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa
in regime di pluralismo confessionale e culturale, Bologna, 2012, 139;
Pinelli C., Esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e libertà di religione (Oss. a Corte
europea dei diritti dell’uomo- Grande Chambre, Lautsi contro Italia, 18 marzo 2011), in Os-
servatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa (www.europeanrights.eu), 10 mag-
gio 2011;
Pototschnig U., La laicità dello Stato, in Jus, 1977, 247;
Prisco S., La laicità. Un percorso di riflessione, Torino, 2007 (ult. ed. 2009);
Pugiotto A., Sul crocifisso la Corte costituzionale pronuncia un’ordinanza pilatesca, in www.
forumcostituzionale.it, 23 dicembre 2004;
Pugiotto A., Verdetto pilatesco sul crocifisso in aula. Dopo l’ordinanza si naviga a vista, in
Diritto & Giustizia, 2005, n. 3, 80;
Randazzo B., Commento all’articolo 8, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di),
Commentario alla Costituzione, Vol. I, Torino, 2006,193;                         177
Randazzo B., Le laicità. Alla ricerca del nucleo essenziale di un principio, in Filosofia e teolo-
gia, 2007, 273;
Randazzo B., Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, Milano, 2008;
Rescigno F., Se non ora quando? Principio di eguaglianza e laicità all’italiana, in IANUS (Ri-
vista telematica), n. 12 - 2015;
Rescigno F., “Ite missa est”. Laicità paradigma di eguaglianza, Napoli, 2015;
Rescigno P., Il Crocifisso dopo Strasburgo, in Corriere giuridico, 2011, n. 7, 894;
Ricca M., Commento all’articolo 19, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di) Com-
mentario alla Costituzione, Vol. I, Milano, 2006, 425;
Ricca M., Chi vuole il crocifisso? Domande semplici, democrazia interculturale, fede persona-
le, in Diritti umani e diritto internazionale, 2010, 5;
Rimoli F., Laicità (dir. cost.), in Enciclopedia giuridica Treccani, IV volume di aggiornamento,
1995;
Rimoli F., Tutela del sentimento religioso, principio di eguaglianza e laicità dello Stato, in
Giurisprudenza Costituzionale, 1997, 3343;
Rimoli F., La Corte, la laicità e il crocifisso, ovvero di un appuntamento rinviato, in Giurispru-
denza costituzionale, 2004, 4280;
Rimoli F., I diritti fondamentali in materia religiosa, in P. Ridola - R. Nania (a cura di), I diritti
costituzionali, Torino, 2006, vol. III, 877;
Rodotà S., La battaglia su un simbolo, in La Repubblica, 4 novembre 2009;
Rodota’ S., Perchè laico, Roma-Bari, 2009-2010;
   Rodota’ S., Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012;
   Ruffini F., La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna, 1924 (riedizione del
   volume del 1992);
   Ruffini F., Relazioni tra Stato e Chiesa, Bologna, 1974;
   Scalfari E., Perchè non possiamo non dirci laici, in La Repubblica, 7 novembre 2004;
   Spadaro A., Libertà di coscienza e laicità nello stato costituzionale: sulle radici religiose dello
   Stato laico, Torino, 2008;
   Tega D., L’addio al celibato (e nubilato) dei militari, in Giurisprudenza Costituzionale, 2002,
   3652;
   Tega D., Cercando un significato europeo di laicità: la libertà religiosa nella giurisprudenza
   della Corte europea dei diritti, in Quaderni Costituzionali, 2010, 799;
   Tornielli A., La fragile concordia. Stato e cattolici in centocinquant’anni di storia italiana,
   Milano, 2011;
   Tortarolo E., Il laicismo, Roma-Bari, 1998;
   Vanoni L. P. , Laicità e libertà di educazione. Il crocifisso nelle aule scolastiche in Italia e in
   Europa, Milano, 2013;
   Veca S., Laicità e democrazia: “simul stabunt, simul cadent”, in MicroMega, Almanacco di
   filosofia, Roma, 2009, 98;
   Veca S., Un’idea di laicità, Bologna, 2013;
   Vegas G., Il dibattito sulla revisione del Concordato 1965-1984, Senato della Repubblica,
   Quaderno di documentazione, n. 13, Roma, 1984;
178  Weiler J. H. H., Il crocefisso a Strasburgo: una decisione imbarazzante, in Quaderni Costitu-
   zionali, 2010, 148;
   Zagrebelsky G., Principi costituzionali e sistema delle fonti di disciplina del fenomeno religio-
   so, in Aa.Vv., Studi per la sistemazione delle fonti in materia ecclesiastica, Salerno, 1993, 108;
   Zagrebelsky G., La virtù del dubbio, Roma -Bari, 2007;
   Zagrebelsky G., Contro l’etica della verità, Bari, 2008;
   Zagrebelsky G., Il problema della laicità nella Costituzione, in Aa.Vv., Costituzione, laicità e
   democrazia, Quaderni laici, n. 0, Torino, 2009, 59;
   Zagrebelsky G., Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010;
   Zagrebelsky G., Simboli al potere: politica, fiducia, speranza, Torino, 2012;
   Zanone V., Laicismo, in N. Bobbio - N. Matteucci - G. Pasquino (a cura di), Dizionario di
   politica, Torino, 1976, 511 (2° ed. 1983).
Le politiche xenofobe in Italia continuano a essere
incostituzionali

Diletta Tega*



Nel 2018, quasi contemporaneamente agli inusuali avvenimenti istituzionali e po-
litici che hanno portato al varo del “governo giallo-verde”, la Corte costituzionale
ha reso pubbliche le sentenze nn. 106, 107 e 166, ribadendo che nell’ordinamento
italiano non c’è posto per normative discriminatorie1.

Le prime due decisioni sanzionano le politiche regionali in tema di accesso per i
cittadini extracomunitari all’edilizia residenziale pubblica e agli asili nidi, mentre la
terza colpisce il dettato normativo nazionale in relazione al sostegno al pagamento
del canone di locazione degli alloggi: tutte dimostrano come il diritto antidiscrimi-
natorio comunitario, recepito dal legislatore nazionale, in combinato disposto con
il dettato costituzionale, in primis con l’art. 3, costituisca un baluardo nei confronti              179
di scelte politiche che strumentalizzano il requisito del radicamento nel territorio,
trasformandolo in una mal celata forma di xenofobia. La Corte riconosce che le si-
tuazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale,
costituiscono l’unico presupposto principale di fruibilità delle provvidenze sociali.
A questa regola generale, si accompagnano dei distinguo che però devono sempre
rispettare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza, come si vedrà di seguito.

Queste decisioni rivestono un’importanza non secondaria anche perché costitui-
scono il riferimento per valutare se l’inpiduazione dei beneficiari fatta nel discusso
decreto sul cd. reddito di cittadinanza (decreto-legge 4/2019, conv. l. 26/2019) sia
conforme a Costituzione. In base all’art. 2, comma 1, lett. a), del decreto-legge, in-
fatti, può farne richiesta chi associ, al possesso della cittadinanza italiana o comuni-
taria o del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, la residenza
in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo2.

1 Sugli sviluppi giurisprudenziale del 2019 cfr. F. Corvaja, Straniero e prestazioni di assistenza sociale: la
Corte costituzionale fa un passo indietro ed uno di lato, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 3/2019,
244 ss.
2 L’art. 2, lett. b) e c), inpidua rispettivamente gli ulteriori necessari requisiti reddituali/patrimoniali e
relativi all’intestazione o alla piena disponibilità di beni durevoli.


* Associata di Diritto costituzionale, Università di Bologna.
   Il ricorso del governo che ha provocato la decisione n. 106 ha avuto ad oggetto la
   legge ligure n. 13 del 2017 che, all’art. 4, comma 1, prevedeva che i cittadini ex-
   tracomunitari dimostrassero, per accedere all’edilizia residenziale pubblica (ERP),
   la regolare residenza «da almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale».
   L’Avvocatura dello Stato, attraverso una motivazione molto sintetica, denunciava la
   lesione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 4 e 11 della Direttiva
   2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di
   lungo periodo, recepita con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3. In base alla
   normativa comunitaria il cittadino di paese terzo che, sulla base di un permesso di
   soggiorno in corso di validità, risieda nello Stato per almeno cinque anni, può ac-
   quistare, nel concorso degli altri requisiti di legge, lo status di soggiornante di lungo
   periodo (che gli viene riconosciuto dal questore mediante il rilascio di uno specifico
   permesso di soggiorno), e con esso, anche il diritto all’assegnazione degli alloggi ERP
   in condizioni di parità con i cittadini. La normativa ligure impugnata è stata ritenuta
   in contrasto con i parametri evocati dall’Avvocatura (parametri che, a differenza dei
   precedenti giurisprudenziali, non annoveravano l’art. 3 Cost.).

   La Corte costituzionale non è nuova a tali decisioni. Da tempo infatti si oppone al
   tentativo delle Regioni di rendere più difficile per gli stranieri extracomunitari l’as-
   segnazione di una casa popolare, in un’ottica di solidarietà sociale, specificando il
   significato e il peso del criterio della residenza e concludendo, di norma, per la vio-
   lazione dell’art. 3 Cost.
180
   In base ai precedenti3, confermati nella decisione n. 106, il criterio della residenza
   non è irragionevole4. Può esserlo invece la richiesta della protrazione per un de-
   terminato periodo di tempo di essa: se è vero che l’elemento del radicamento nel
   territorio è significativo sotto molteplici aspetti – potendo arrivare sino a rappresen-
   tare non più di una mera regola di preferenza – è altrettanto vero che esso non può
   assumere carattere generale e dirimente, senza violare i principi di ragionevolezza e
   di uguaglianza, principi cui non si può abdicare nemmeno in nome di limitate risorse
   economiche.

   Il legislatore regionale dunque può richiedere una residenza ‘prolungata’, benché la
   giurisprudenza costituzionale non perda occasione per qualificare il diritto sociale
   all’abitazione come diritto attinente alla dignità e alla vita di ogni persona e, quindi,

   3 Ci si riferisce all’importante sentenza n. 432 del 2005: in quel frangente, la questione di legittimità
   costituzionale sollevata davanti alla Corte riguardava una normativa lombarda – art. 8, comma 2, della
   legge della Regione Lombardia 12 gennaio 2002, n. 1 (Interventi per lo sviluppo del trasporto pubblico
   regionale e locale), come modificato dall’art. 5, comma 7, della legge regionale 9 dicembre 2003, n. 25
   (Interventi in materia di trasporto pubblico locale e di viabilità) – che non includeva i cittadini stranieri,
   residenti nella Regione, fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico
   di linea, riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili. Sulla scia cfr. anche le pronunce
   nn. 2, 4 e 133 del 2013 e la n. 168 del 2014.
   4 Proprio a partire dalla sent. n. 432 del 2005, la Corte ha iniziato a squalificare il ricorso alla cittadinan-
   za quale criterio di selezione degli aventi diritto a prestazioni sociali, valorizzando progressivamente le
   esigenze di parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini.
anche dello straniero presente nel territorio dello Stato. Nella decisione n. 168 del
2014 – richiamata dalla pronuncia n. 106 – si precisa che la residenza prolungata per
un certo periodo di tempo potrebbe essere giustificata, al fine di evitare che gli al-
loggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame sufficientemente
stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi, rendendoli inutilizzabili
per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con la funzione socio-assistenziale
dell’edilizia residenziale pubblica, solo se non avesse una durata troppo prolungata.

La Corte si sforza di circoscrivere questa accezione di residenza in particolare nella
decisione n. 222 del 2013 in cui si puntualizza che si può prendere in considerazione
un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto
entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli: «L’accesso a un bene di pri-
maria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per
un verso si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la
comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’am-
bito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti
troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone
l’efficacia». La decisione n. 107 dichiara l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 1, del-
la legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6, in base al quale hanno titolo
di precedenza per l’ammissione all’asilo nido i figli di genitori residenti in Regione,
anche in modo non continuativo, da almeno quindici anni o che prestino attività
lavorativa in Veneto, ininterrottamente, da almeno quindici anni, compresi even-
                                                181
tuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione. Il
ricorso evidenziava svariati profili di incostituzionalità, relativi ai parametri rappre-
sentati dagli artt. 3, 31, comma 2, 117, comma 1, e 120 Cost. La Corte, richiamando
i precedenti utilizzati anche nella pronuncia n. 106, ha riconosciuto la violazione di
tutti i parametri denunciati con un argomentare articolato e, al contempo, molto
stringente. Molto opportunamente la Corte, in primo luogo, chiarisce la funzione
degli asili nido: essa è sia socio-assistenziale, a vantaggio dei genitori che lavorano
e non hanno mezzi economici per provvedere privatamente ai bisogni dei propri
figli, sia educativa, a vantaggio dei bambini. Si ricorda che il primo intento della
legislazione sul tema era stato quello di favorire l’accesso delle donne al lavoro e
che la Costituzione stessa garantisce la possibilità per la donna di conciliare il lavoro
con la «funzione familiare» (art. 37, comma 1). In secondo luogo, si specifica che la
normativa veneta stabilisce un titolo di precedenza che, pur non essendo un vero
e proprio requisito di accesso, persegue un risultato talmente escludente da essere
paragonabile alle norme che considerano la residenza prolungata come requisito di
accesso. In terzo luogo, si riconosce la violazione dell’art. 3 Cost. perché la norma
impugnata, neutralizzando tanto la funzione sociale, quanto quella educativa degli
asili, riduce all’ineffettività il principio di eguaglianza sostanziale e viola il principio
di ragionevolezza: il servizio degli asili nido dovrebbe avere quali utenti privilegiati
le famiglie in condizioni di disagio economico o sociale.

La decisione mette in luce, correttamente, che norme di questo tenore rischiano
   di privare «certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di
   aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di
   residenza»: chi si muove tra Regioni non avrà contribuito al welfare del territorio
   nel quale approda, ma ha pagato i tributi nella Regione dalla quale proviene. Come
   è possibile che sia costituzionalmente ammissibile sfavorirlo nell’accesso ai servizi
   pubblici solo per aver esercitato il proprio diritto costituzionale di circolazione?

   La penna del redattore si fa assai lucida quando smaschera un argomento, utilizzato
   dalla Regione Veneto a sostegno dell’infondatezza della questione e assai caro alla
   propaganda leghista ossia che la norma impugnata darebbe la precedenza «a coloro
   che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed eco-
   nomico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia».
   Assai ragionevolmente infatti, la Corte, dapprima, afferma che «nessuno dei due
   criteri utilizzati dalla norma impugnata […] assicura che i genitori abbiano pagato
   tributi in Veneto per un lungo periodo (la residenza può non essere coincisa con
   un periodo lavorativo e l’occupazione prolungata in Veneto non implica necessaria-
   mente la residenza in Veneto)». La Corte segnala argutamente che «L’argomento si
   presenta opinabile anche alla luce dell’effettivo assetto delle fonti di finanziamento
   degli asili nido, dato che le risorse necessarie per la costruzione degli edifici e lo
   svolgimento del servizio possono essere di origine non regionale (gli artt. 8 e 12 del
   citato d.lgs. n. 65 del 2017 prevedono finanziamenti statali, e la stessa legge reg.
182  Veneto n. 32 del 1990 menziona «contributi statali» all’art. 32, comma 1), e che,
   per quanto riguarda le risorse provenienti dai bilanci dei comuni e delle regioni,
   si dovrebbe distinguere fra finanza “propria” e “derivata”. E ciò senza contare che,
   sotto un profilo più generale, l’argomento del contributo pregresso tende inammis-
   sibilmente ad assegnare al dovere tributario finalità commutative, mentre esso è
   una manifestazione del dovere di solidarietà sociale, e che applicare un criterio di
   questo tipo alle prestazioni sociali è di per sé contraddittorio, perché porta a limi-
   tare l’accesso proprio di coloro che ne hanno più bisogno». In quarto luogo, risulta
   fondata la questione relativa all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 21 del TFUE sulla
   base del quale i cittadini dell’Unione hanno il diritto di circolare e di soggiornare
   liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni
   previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. Da ul-
   timo, nell’ambito di un giudizio in via incidentale, i giudici di palazzo della Consulta
   hanno accolto la prospettazione del giudice rimettente, dichiarando incostituziona-
   le per contrasto con l’art. 3 Cost. la norma statale5 che subordina per i soli immigrati
   l’accesso alla misura di sostegno del pagamento del canone di locazione al possesso
   del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ov-
   vero da almeno cinque anni nella medesima Regione.


   5 Si tratta dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo
   sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
   perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133.
Molto opportunamente la Corte ricorda che tale sostegno (e il Fondo ad esso col-
legato) venne istituito nel 1998 allo scopo di rivolgersi a situazioni di così grave
bisogno da compromettere la fruizione di un bene di primaria importanza qual è
l’abitazione. I destinatari del contributo erano tutti i titolari di un contratto di loca-
zione registrato, che versavano in una situazione di indigenza tale da non disporre di
risorse sufficienti a sostenere l’onere del pagamento dell’ammontare dovuto, senza
distinzioni tra cittadini e stranieri. Solo nel 2008 sono stati introdotti i requisiti le-
gati alla durata della residenza sul territorio nazionale e regionale per i soli cittadini
di Stati non appartenenti all’Unione europea e per gli apolidi, introducendo così –
come afferma ora la Corte – una irragionevole discriminazione. La norma impugnata
risulta, in base ai precedenti che abbiamo discusso e, in primo luogo, alle sentenze
nn. 106 e 107 del 2018, in contrasto con gli obblighi europei (in particolare la Di-
rettiva 2003/109/CE) che, anche per quanto riguarda le prestazioni sociali, esigono
la parità di trattamento tra i cittadini italiani ed europei e i soggiornanti di lungo
periodo. Essa viola anche, come si è anticipato, l’art. 3 Cost. perché il requisito dei
dieci anni di residenza sul territorio nazionale o dei cinque su quello regionale indi-
vidua una durata irragionevole e arbitraria. La Corte è molto efficace quando, per
evidenziare gli estremi di irrazionalità intrinseca e di sproporzionalità della norma
impugnata, ricorda che il requisito della residenza protratta per dieci anni sul ter-
ritorio nazionale è esattamente il medesimo necessario e sufficiente per chiedere
la cittadinanza italiana. Trattandosi di una provvidenza che, alla luce della scarsità
delle risorse disponibili, viene riservata a casi di vera e propria indigenza, anche in   183
questo la Corte non ravvisa alcuna ragionevolezza nel legare il soddisfacimento dei
bisogni abitativi primari di chi versi in condizioni di povertà e sia insediato nel ter-
ritorio regionale alla lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale.
Questa pronuncia porta con sé importanti conseguenze: la norma dichiarata incosti-
tuzionale infatti è la stessa alla cui ombra i consigli regionali hanno potuto varare le
normative che abbiamo visto essere al centro della valorizzazione del criterio della
cd. residenza prolungata, tanto che è stata invocata anche dalla difesa regionale
ligure nel ricorso deciso con la sentenza n. 106 del 2018.

Ho scelto di commentare insieme queste decisioni, ponendo l’accento sulla loro ca-
rica anti-discriminatoria, perché mi sono apparse una (stra)ordinaria rassicurazione
all’opinione pubblica su quanto fortemente: i) la Corte costituzionale interpreti il
ruolo di garante della Costituzione; ii) la Costituzione ripudi le normative discrimina-
torie (xenofobe); iii) la normativa antidiscriminatoria dell’Unione europea eserciti la
sua influenza, in quanto norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost.

La pubblicazione di queste sentenze è venuta a cadere in settimane connotate da
agitazione politica e preoccupazioni per la tenuta, in Italia, della leale partecipa-
zione all’Ue e della garanzia dei diritti di migranti, rifugiati, minoranze etniche e
religiose. Letto dall’estero, il cd. contratto di governo ha portato qualcuno a temere
   che ci stiamo avviando sulla strada già tracciata dalla Polonia e dall’Ungheria6. Viste
   su questo sfondo, contro il quale sono venute a stagliarsi in gran parte per caso, le
   tre pronunce sono davvero rassicuranti. Dimostrano non solo la forza della Corte e
   della Costituzione, ma anche l’importanza della normativa antidiscriminatoria Ue,
   capace, per i contenuti che esprime, di un dialogo fecondo e profondo con i principi
   fondamentali dell’ordinamento repubblicano. Ricordano una parte importante del
   patrimonio di valori comune all’Italia repubblicana e all’Europa unita: un legame che
   nessuna delle due può rinnegare, senza mettere in crisi la propria stessa identità.

   Si diceva all’inizio di questa breve riflessione che le sentenze del 2018 offrono argo-
   menti per ragionare se l’imposizione della residenza decennale all’immigrato lungo
   soggiornante che vuole usufruire del reddito di cittadinanza possa costituire una
   forma di discriminazione malcelata.

   Tre domande richiedono riflessione:

   1. rispetto alle norme censurate nelle sentenze 106 e 166/2018, la residenza pro-
     lungata è richiesta anche ai cittadini italiani e comunitari, questa sorta di inedito
     livellamento basta ad evitare l’effetto sproporzionato sugli stranieri prodotto dal
     requisito?

   2. la residenza decennale – dieci sono richiesti, come ricordava la Corte nella pro-
184    nuncia 166/2018, per acquisire la cittadinanza italiana – potrebbe considerarsi
     intrinsecamente irragionevole?

   3. il reddito di cittadinanza, concetto multidimensionale che sembra voler essere
     sia una misura per combattere la povertà sia uno strumento di avviamento al
     lavoro, rientra nelle provvidenze sociali per la quali la Corte ritiene doverosa
     l’equiparazione del cittadino con l’immigrato lungo soggiornante?




   6 Si veda l’allarmato editoriale del Verfassungsblog dal titolo Festa della Repubblica, 2 giugno 2018,
   verfassungsblog.de/festa-della-repubblica/
Discriminazioni per ragioni politiche e sindacali

Alberto Piccinini*



Per parlare delle discriminazioni politiche e sindacali dobbiamo partire dal 1966 l’an-
no in cui, per la prima volta una legge - la n. 604 che disciplina i licenziamenti - pre-
vede una forma di tutela antidiscriminatoria, riferita a quelle posizioni che all’epoca
si riteneva necessitassero di maggiori protezioni. Secondo l’art. 4 della legge 604/66
il licenziamento determinato da credo politico o fede religiosa (tutte le religioni, dal
momento che non c’è alcuno esplicito riferimento alla sola religione cattolica, per
quanto i patti lateranensi non fossero ancora stati modificati) dall’appartenenza a
un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo indipendentemente
dalla motivazione. Annotiamoci la rilevanza attribuita alla questione del credo poli-
tico o dell’adesione al sindacato o alle sue forme di lotta.

Analogamente, pochi anni dopo, nello Statuto dei Lavoratori del 1970 troviamo            185
l’art. 15 che allarga l’ambito della tutela, estendendola al momento dell’assunzione
e rafforzandola in costanza di rapporto (in caso di assegnazione di qualifiche o man-
sioni, di trasferimento, di esercizio del potere disciplinare) e in occasione della sua
cessazione, sempre con riferimento all’affiliazione, all’attività sindacale ovvero alla
partecipazione ad uno sciopero. Nel ‘70 ci fermiamo qua, perché evidentemente la
sensibilità sociale era quella che era, ancora fortemente condizionata dai licenzia-
menti e dalle discriminazioni subite presso la Fiat negli anni 50 motivate da quelle
sole ragioni. Poi nel ‘77 arriva un primo “innesto” all’art. 15 dello Statuto con l’esten-
sione della tutela anche rispetto a patti od atti finalizzati a discriminazione politica,
religiosa, razziale, di lingua o di sesso. Dobbiamo attendere 25 anni per avere infine
l’ultima integrazione su quel testo di legge: il d.lgs 216/2003 sulla parità di tratta-
mento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recependo la Direttiva
comunitaria 78/2000, aggiunge anche le ipotesi di handicap, età, orientamento ses-
suale, convinzioni personali.

Il quadro quindi è abbastanza chiaro: l’ultima integrazione di cui ho parlato – che
recepisce la Direttiva del 2000 – nell’estendere la protezione ad ulteriori fattispecie
e nel richiamarle tutte, non lo fa, espressamente, per la discriminazione sindacale.
È vero che, se ci limitiamo ad esaminare la tutela del licenziamento discriminatorio,
dobbiamo riconoscere che essa non è venuta meno né con la legge Fornero (che pur

* Avvocato giuslavorista del Foro di Bologna e presidente Associazione Comma 2 - Lavoro e dignità.
   ha ridimensionato le possibilità di reintegrazioni dell’art. 18) né con il cd. Jobs Act,
   il decreto legislativo n. 23 del 2015, che ha eliminato la possibilità di reintegrazione
   in quasi tutte le ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato moti-
   vo, ha pur tuttavia continuato a tutelare il lavoratore dalle discriminazioni elencate
   nell’art. 15.

   Quindi la tutela antidiscriminatoria esiste ed è forte nel nostro ordinamento, anche
   se non ha impedito comportamenti datoriali per i quali si è reso necessario l’inter-
   vento della magistratura.

   Ma quali strumenti processuali abbiamo a disposizione? L’analisi di due casi concreti
   fornisce un esempio pratico di come l’intervento di tutela giudiziaria possa essere
   persamente modulato1. Uno strumento “classico” è il ricorso all’art. 28 dello Statu-
   to dei Lavoratori, sostanzialmente invariato da oltre cinquant’anni, che prevede uno
   speciale procedimento sommario che può essere promosso dal sindacato di cate-
   goria territoriale presso il Tribunale del luogo dove si è realizzata l’antisindacalità. Il
   Giudice in tempi rapidissimi deve prendere dei provvedimenti che facciano cessare
   il comportamento antisindacale e rimuoverne gli effetti. A questo si è aggiunto un
   ulteriore strumento di tutela: mi riferisco, in particolare, all’art. 28 (stesso numero,
   ma persa legge) del decreto legislativo n. 150/2011 che richiama il procedimento
   sommario di cognizione disciplinato dall’art. 702 bis c.p.c. per le controversie in ma-
   teria di discriminazione. Si riprendono formule e rito analoghi all’art. 28 Stat. Lav.
186  rivelatisi particolarmente efficaci e celeri.

   Veniamo al primo caso. Nell’estate del 2010 tre delegati della Fiom dello stabili-
   mento Sata2 di Melfi sono stati licenziati perché accusati di aver impedito, durante

   1 Non sarà oggetto di questo intervento un terzo caso giudiziario, riguardante sempre la FIAT, unica-
   mente perché non concerne specificatamente la discriminazione. Ma poiché esso è strettamente con-
   nesso con il secondo caso trattato (stabilimento di Pomigliano d’Arco) si ritiene opportuno riportarlo
   in nota.
   Il fatto si svolge nello stabilimento di Pomigliano d’Arco quando la FIAT pone in essere un’operazione
   quasi diabolica tanto sofisticata dal punto di vista giuridico: dopo essere uscita da Confindustria e Fe-
   dermeccanica, disdiceva tutti gli accordi aziendali e nazionali sottoscritti, incluso anche l’accordo inter-
   confederale che prevedeva le RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie) ripristinando la vecchia forma
   di rappresentanza prevista dallo Statuto dei Lavoratori, le RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali).
   Qual è la differenza? Mentre le RSU sono elette, le RSA sono nominate ai sensi dell’art. 19 Stat. Lav. da
   sindacati che abbiano firmato i contratti collettivi applicati in azienda, e dato che la FIOM non era tra
   i firmatari degli stessi il gioco è fatto. Sono stati promossi 30 ricorsi per comportamento antisindacale
   in tutta Italia dal collegio difensivo della FIOM. Molti giudici hanno dato un’interpretazione costituzio-
   nalmente orientata dell’art. 19 considerando che la FIOM era ed è a livello nazionale il sindacato com-
   parativamente di gran lunga più rappresentativo ed evidenziando come fosse ingiusto che non avesse
   le sue rappresentanze. Altri giudici hanno interpretato l’art. 19 in modo letterale respingendo i ricorsi.
   Infine, quattro giudici hanno sollevato la questione di costituzionalità della norma, sulla quale si è poi
   pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 231/2013 “additiva”, che ha modificato l’art. 19
   dello Statuto dei Lavoratori sancendo che per nominare una RSA non è necessaria la sottoscrizione del
   contratto applicato ma è sufficiente aver partecipato alle trattative.
   2 La Fiat, poi FCA, oggi STELLANTIS, in ogni stabilimento assume una persa ragione sociale, ma è (era)
   sempre la FIAT.
uno sciopero notturno, il passaggio di un carrello che doveva portare del materiale
ai lavoratori che non scioperavano. Il caso è finito su tutti i giornali ed ha avuto un
lungo e tormentato iter processuale. Con decreto ai sensi dell’art. 28 dello Statuto
dell’agosto 2010 il Tribunale di Melfi ha disposto un ordine di reintegrazione: i tre
licenziamenti sono stati ritenuti non solo antisindacali, ma anche discriminatori, in
quanto - a seguito di istruttoria - è emerso che il carrello si era fermato davanti ad
un assembramento di circa 50 lavoratori di tutte le sigle sindacali, ma casualmente
gli unici tre licenziati sono stati quelli della FIOM... Il Tribunale di Melfi in veste di
giudice dell’opposizione (perché questa procedura prevede che il decreto venga im-
pugnato davanti a un perso giudice dello stesso Tribunale) ha dato invece ragione
all’azienda riformando il decreto con sentenza, che però veniva a sua volta ribaltata
dalla Corte d’Appello di Potenza e poi confermata definitivamente dalla Corte di
Cassazione dopo 3 anni.

Il secondo caso che vorrei presentarvi è relativo ad una discriminazione di tipo
collettivo posta in essere nei confronti di centinaia di lavoratori iscritti alla FIOM: vi
consiglio sin d’ora, per un approfondimento, di leggere l’ordinanza di primo grado
del Tribunale di Roma e la sentenza della Corte d’Appello, ove sono stati meglio
sviluppati gli argomenti ai quali ora farò un breve cenno. I fatti: nel 2010 la FIAT di-
sdettava tutti gli accordi aziendali e nazionali sottoscritti, e sottoscriveva un accordo
separato (senza la FIOM) che in vista di un forte investimento nello stabilimento di
Pomigliano d’Arco per la produzione di nuovi autoveicoli tipo Panda, prevedeva la
                                               187
costituzione di una NewCo (denominata Fabbrica Italia Pomigliano – FIP S.p.A.) che
avrebbe gestito lo stabilimento con l’assunzione progressiva del personale addetto
già dipendente di FGA (Fiat Group Automobilies S.p.A.) avente ad organico circa
5000 dipendenti quasi tutti in cassa integrazione e praticamente destinata a morire.
Le modalità di questo passaggio erano state disciplinate da un accordo che preve-
deva che i singoli dipendenti rassegnassero le dimissioni dalla FGA per essere poi
progressivamente riassunti a partire dal marzo 2011. Da marzo 2011 partono quindi
le nuove assunzioni. Un anno dopo, nel marzo 2012 gli assunti a FIP ammontava-
no a 1893, di cui nessuno iscritto alla FIOM. A questo punto il collegio di avvocati
della FIOM ha promosso un ricorso al Tribunale di Roma in rappresentanza di 19
lavoratori nonché dal segretario Nazionale della FIOM, Maurizio Landini che agiva
anche come rappresentante delle persone che non potevano essere inpiduate.
Veniva utilizzato il rito antidiscriminatorio previsto dall’art. 28 d.lgs. 150/2011 (e
quindi non l’art 28 dello Statuto dei Lavoratori) invocando il summenzionato d.lgs.
216/2003 – di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - anche allo scopo di utilizzare
una serie di agevolazioni processuali che attribuiscono rilevanza al dato statistico. In
giudizio fu prodotta una relazione del Prof. Olson (docente di statistica presso l’U-
niversità di Birmingham) che dimostrava che in una selezione casuale le probabilità
che nessun iscritto FIOM venisse assunto era una su dieci milioni. Ma un punto su
cui vorrei soffermarmi riguarda un aspetto particolare relativo alla discriminazione
sindacale che, come abbiamo visto, non è espressamente ricompresa tra le tante
   fattispecie elencate nel d.lgs. 216/2003. È quanto infatti ha eccepito la difesa della
   FIAT, sostenendo che la libertà sindacale non rientrasse tra le previsioni tutelate
   dall’art. 2 del d.lgs. 216/2003 secondo il quale “Ai fini del presente decreto e salvo
   quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamen-
   to si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della
   religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento
   sessuale”.

   Dov’è finita la libertà sindacale e la discriminazione per ragioni politiche o sindacali?
   Che abbia ragione la FIAT?

   Nella memoria di controparte, scritta da bravi avvocati, si fa ricorso ad argomen-
   ti molto suggestivi. Uno di questi è quello per cui nel testo inglese della Direttiva
   (come nella sua traduzione) “religion or belief” vengono accorpati da una “o” men-
   tre tutte le altre ipotesi di discriminazione tutelate ( es. disabilità, età ecc..) vengono
   pise da una virgola. Dal momento che religion or belief sono accorpati, secondo
   la difesa della società belief dovrebbe intendersi come un “credo” particolarmente
   forte (es. quello dei seguaci di Scientology) e quindi non assimilabile a ragioni sin-
   dacali3. Il tema è stato particolarmente sviscerato e approfondito dalla Corte D’Ap-
   pello - che ha in parte riformato la sentenza di primo grado – con argomentazioni
   molto forti per replicare a tutte le varie eccezioni che vi invito ad andare a leggere
   ed approfondire.
188
   Mi sia concessa un’ultima considerazione sul concetto di Religion or belief. Barack
   Obama, in un discorso tenuto nel 2008 per le primarie dell’Iowa, così si esprime:
   «Hope is the bedrock of this nation. Hope is the belief that destiny will not be written
   for us, but by us», ossia la speranza è il fondamento della nostra nazione. La speran-
   za è la convinzione che il nostro destino non è scritto per noi, ma da noi. Al di là della
   bellezza e della retorica di questa frase, vi faccio notare come in essa l’espressione
   belief non può che essere tradotta con “convinzione”: una convinzione certo pro-
   fonda, ma non certo riducibile al solo credo religioso. Mi sono quindi, a mia volta,
   convinto definitivamente della capziosità delle argomentazioni avversarie4.

   3 Su questo specifico punto recentemente la Corte di Cassazione, con sentenza del 2 gennaio 2020 n.
   1/2020, richiamando l’art. 13 del trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i
   trattati che istituiscono le Comunità Europee e alcuni atti connessi, si è così pronunciata “La contiguità
   dei due termini, religione e convinzioni personali, separati dalle altre definizioni da una virgola, pone in
   rilievo l’affinità dei due concetti, senza tuttavia confonderli.”
   4 Sempre Cass .n. 1 del 2020, dopo aver fatto riferimento all’art 21 La Carta dei diritti fondamentali
   dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e richiamando lo spirito della Direttiva 2000/78, di cui il
   decreto legislativo costituisce attuazione, (in particolare l’art. 4 d.lgs.216/03, ha così definitivamente
   (seppur in un perso procedimento) statuito: Accedendosi ad una interpretazione delle norme coeren-
   te con la ratio della norma comunitaria letta alla luce dei principi fondamentali del Trattato, nel caso
   specifico può senz’altro ritenersi che la Direttiva 2000/78/CE, tutelando le convinzioni personali av-
   verso le discriminazioni, abbia dato ingresso nell’ordinamento comunitario al formale riconoscimento
   (seppure nel solo ambito della regolazione dei rapporti di lavoro) della libertà ideologica il cui ampio
   contenuto materiale può essere stabilito anche facendo riferimento all’art. 6 del TUE e, quindi, alla
   Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, se il legislatore comunitario avesse voluto compren-
Merita infine di essere menzionata un’eccezione subordinata di controparte che,
dopo aver negato per 40 pagine di aver in qualche modo voluto discriminare que-
sti lavoratori (ha ad esempio affermato di aver assegnato l’incarico di decidere chi
assumere a società esterne; ha dichiarato di non essere neppure a conoscenza di
chi fosse o meno iscritto alla FIOM, eccetera) alla fine ha invocato l’esimente di cui
all’art. 3 co. 3 del d.lgs. 216/20035 per giustificare la mancata assunzione dei lavo-
ratori iscritti alla FIOM. Negli scritti difensivi, la mancata assunzione dell’operaio
iscritto alla FIOM viene equiparata a quella dello stuart che non vuole indossare la
pisa della compagnia aerea o a quella del musulmano che non vuole lavorare di
sabato: “Volendo ricorrere ad un esempio la mancata assunzione di una o più do-
mestiche extracomunitarie o di religione islamica non è discriminatoria se consegue
alla dichiarazione di indisponibilità a lavorare il sabato” e “la mancata assunzione di
uno o più assistenti di volo iscritti a partiti politici o sindacati che rifiutano la pisa..”

In buona sostanza la FIAT “getta la maschera”, ammettendo – candidamente, sep-
pur… subordinatamente – di ritenere l’adesione alla FIOM un’inaccettabile mancata
adesione alle regole aziendali: “Il pregiudiziale fermissimo rifiuto ribadito anche nel
ricorso introduttivo di accettare i regolamenti e i contratti collettivi appare incompa-
tibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa che deve collocarsi in un contesto ag-
gregato coordinato e retto da regole peraltro negoziati necessariamente uguali per
tutti”. In tal modo la FIAT mostra di esigere non solo che le proprie regole vengano
rispettate ma anche che esse siano conpise ed approvate. Siamo alla pretesa del
                                                          189
controllo delle opinioni da parte del datore di lavoro, unita alla rivendicazione del
diritto di estromettere i dissidenti… Ma questa eccezione subordinata ha anche una
sua particolarità sotto il profilo tecnico-giuridico, e dal momento che vedo in sala
giovani avvocati mi permetto di tenere una lezioncina su come graduare le difese.

Se mi accusano di aver rotto un vaso io posso dire: a) che il vaso non è stato rotto; b)

dere nelle convinzioni personali solo quelle assimilabili al carattere religioso, non avrebbe avuto alcun
bisogno di differenziare le ipotesi di discriminazione per motivi religiosi da quelle per convinzioni per
motivi persi. Il contenuto dell’espressione “convinzioni personali” richiamato dall’art. 4 d.lgs. 216/03
non può perciò che essere interpretato nel contesto del sistema normativo speciale in cui è inserito,
restando del tutto irrilevante che in altri testi normativi l’espressione “convinzioni personali” possa
essere utilizzata come alternativa al concetto di opinioni politiche o sindacali. Sicuramente l’affilia-
zione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia di natura persa da quella
religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente
qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili
atti discriminatori vietati.
5 Art. 3 co. 3 d.lgs. 216/2003 Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito
del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione
ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religio-
ne, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora,
per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristi-
che che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività me-
desima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette
ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i
servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare.
   che è stato qualcun altro; c) che non l’ho fatto apposta. Ebbene: se dico che è stato
   qualcun altro riconosco che il vaso è rotto contraddicendo la prima affermazione;
   mentre se dico che non l’ho fatto apposta riconosco addirittura di averlo rotto io.
   Nel nostro caso la difesa della FIAT, nel richiedere l’applicazione dell’esimente, ha
   infine confessato di aver volutamente rotto il vaso...

   Concludendo: l’affiliazione sindacale, che un tempo rappresentava lo zoccolo duro
   delle tutele contro le discriminazioni datoriali, ora è tutelata in quanto riconducibile
   alle convinzioni personali (nozione che racchiude una serie di categorie di ciò che
   può essere definito il “dover essere” dell’inpiduo che vanno dall’etica alla filosofia,
   dalla politica - in senso lato - alla sfera dei rapporti sociali, cfr. Corte D’Appello di
   Roma del 19.10.2012). Ma ciò è pacifico solo a seguito dei pregevoli sforzi interpre-
   tativi della giurisprudenza (da ultimo Cass. n. 1/2020).

   Il dato non è, a parere di chi scrive, di poco rilievo: il fatto che ora la discriminazione
   antisindacale e politica debba essere ricavata per interpretazione ci dà la misura
   dell’epoca in cui viviamo. Da un lato, il corposo pacchetto di regole antidiscrimina-
   torie rappresenta certamente la realizzazione di un obiettivo di civiltà. Dall’altro lato
   però, l’aver “dimenticato” - non elencandola espressamente - la tutela dalla discri-
   minazione sindacale, può essere segno dell’obsolescenza in cui vengono confinati
   i corpi intermedi (la cui massima espressione storica sono stati propri i sindacati)
   della società. Infatti, se è vero che il tasso di affiliazione alle organizzazioni sindacali
190  è in calo, ciò non significa affatto che sia venuta meno la necessità del loro ruolo
   o men che meno che non vi siano più discriminazioni dettate da motivi sindacali.
   Come dimostrano i casi citati.
Discriminazioni basate sulla nazionalità e sulla
condizione personale
Nazzarena Zorzella*



Premessa
Attualmente siamo in un contesto sociale in cui alle pur già diffuse discriminazioni
“ordinarie” ai danni di cittadini stranieri sono venute ad aggiungersi le differenzia-
zioni tra stranieri basate sulla specifica condizione personale.

È nota l’ampia platea di decisioni della Corte costituzionale che, soprattutto nell’am-
bito delle azioni antidiscriminazione, hanno censurato i requisiti di “lunga residen-
za” poiché escludevano (da misure di welfare) i cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti, valorizzando (la Corte) il bisogno sotteso alla prestazione anziché la
durata del soggiorno. L’intervento della prof. Diletta Tega illustra bene la questione
e ad essa si rinvia per un approfondimento.
                                                    191
Oggi ci troviamo di fronte ad una nuova serie di differenziazioni basate sulla nazio-
nalità, coniugata con la condizione personale e sociale. Ad essere intaccati, oggi,
sono i diritti fondamentali e i diritti sociali “di base” del cittadino straniero, giu-
stificati, implicitamente o esplicitamente, da un’esigenza di priorità per gli italiani.
Restrizione che comporta anche ingiustificate discriminazioni, perché non assistite
da adeguata giustificazione.

Tra i primi, possiamo annoverare:
• la iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale; cd. richiedenti
  asilo) e ciò che ne consegue;
• la cittadinanza e la sua revoca per una specifica categoria di cittadini (quelli non
  nati cittadini ma che hanno acquistato lo status successivamente.

Tra i secondi:
• il reddito di cittadinanza.

Si tratta di disposizioni che differenziano le persone in base alla condizione persona-
le, alla nazionalità e alla specifica condizione giuridica.


* Avvocata del Foro di Bologna e socia ASGI, Associazione per gli Studi Giuridici sulla Immigrazione.
   L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo
   L’art. 13 d.l. 113/2018 (conv. in legge 132/2018, cd. decreto sicurezza) ha modifica-
   to alcune disposizioni del d.lgs. 142/2015 (disciplina del sistema di accoglienza dei
   richiedenti asilo), modificando la disciplina dell’iscrizione anagrafica per i soli richie-
   denti asilo. L’art. 4, co. 1.bis d.lgs 142 modificato stabilisce, infatti, che il permesso di
   soggiorno per richiesta asilo NON costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica.

   Nel contempo, l’art. 4, co. 1 stabilisce che il permesso di soggiorno è documento di
   riconoscimento ai sensi dell’art. 1 lett. c) d.p.r. 445/2000 (documento munito di fo-
   tografia, rilasciato da una pubblica amministrazione “che consenta l’identificazione
   personale del titolare”).
   La residenza non è, di per sé, un diritto fondamentale, ma un diritto sociale che,
   tuttavia, è presupposto per l’esercizio di una serie di diritti fondamentali, quali l’as-
   sistenza sanitaria, il lavoro, l’istruzione. L’art. 14 d.P.R. 223/89 (Regolamento ana-
   grafico) stabilisce che colui che trasferisce dall’estero la residenza deve comprovare
   la propria identità mediante esibizione di passaporto o documento equipollente. I
   richiedenti asilo, tuttavia, quasi mai posseggono un passaporto e, se lo posseggono,
   esso deve essere ritirato dalla questura all’atto della presentazione della domanda
   di riconoscimento della protezione internazionale.
   Per tale ragione, sin dal 2006, il Ministero dell’interno (titolare della funzione demo-
192  grafica) ha emanato una circolare in cui si afferma che il richiedente asilo è esentato
   dalla presentazione del passaporto. Del resto, l’art. 9, co. 6 d.P.R. 394/99 (Regola-
   mento di attuazione del TU immigrazione d.lgs. 286/98), che non è stato modificato
   dal d.l. 1134/2018, dispone che il/la richiedente asilo non deve esibire il passaporto
   per il permesso di soggiorno.

   Se, dunque, il permesso di soggiorno è un documento di riconoscimento, cioè iden-
   tifica il/la richiedente asilo, ma nel contempo non è ritenuto dal legislatore titolo
   idoneo per l’iscrizione anagrafica, come può garantirsi il diritto soggettivo alla resi-
   denza?


   Ipotesi alternative
   1. In mancanza di passaporto, il titolo equipollente è il Modello C3, cioè il verbale
     compilato dalla questura al momento della formalizzazione della domanda di
     riconoscimento della protezione internazionale, che contiene l’identificazione
     del/della richiedente asilo ed è munito di fotografia. Va, infatti, considerato che
     l’art. 6, co. 7 TU immigrazione d.lgs. 286/98 – non modificato dal decreto sicu-
     rezza – stabilisce la parità di accesso all’iscrizione anagrafica tra cittadini stra-
     nieri ed italiani, con l’unica ulteriore condizione che il primo sia regolarmente
     soggiornante. Pertanto, il titolo utile per l’iscrizione anagrafica sarà il Modello
     C3 che attesta l’identità del/della richiedente asilo. Oppure, si potrà esibire un
     atto notorio (con 2 testimoni) che attesti l’identità del/della richiedente asilo
  (alla pari di ciò che avviene per la persona riconosciuta rifugiata politica). Chi,
  invece, è entrato in Italia con passaporto, pur se gli è stato ritirato dalla questura
  al momento della domanda di asilo, potrà esibire la copia certificata conforme.
2. Se il Comune rifiuta l’iscrizione anagrafica, si può impugnare il provvedimento
  davanti al Tribunale e chiedere un’interpretazione costituzionalmente orientata
  delle disposizioni o, in alternativa, il rinvio alla Corte costituzionale per violazio-
  ne ingiustificata dell’art. 3 Cost., adducendo che la differenza di trattamento,
  basata sulla condizione personale, è irragionevole ed ingiustificata.

Non può, infatti, essere giustificata la “precarietà” del permesso di soggiorno per
richiesta asilo in quanto:
• la procedura amministrativa, ed eventualmente giudiziale, per il riconoscimen-
  to del diritto alla protezione internazionale, ha tempi molto lunghi (anni);
• altri permessi di soggiorno temporanei, cioè rinnovabili, non sono esclusi dalla
  iscrizione anagrafica (ad esempio: quello per lavoro stagionale, quello per cure
  mediche, quello per calamità, ecc.).

Va, tuttavia, tenuto presente che il d.l. 113/2018 riconosce al richiedente asilo, an-
che in assenza di iscrizione anagrafica, il diritto di accesso a tutti i servizi erogati sul
territorio sulla base del solo DOMICILIO (art. 5, co. 3 d.lgs. 142/2015); pertanto va
prestata attenzione a che essi non vengano negati a causa dell’assenza di iscrizione      193
anagrafica.


La cittadinanza
Il d.l. 113/2018 ha modificato la legge sulla cittadinanza (legge 91/1992) introdu-
cendo l’art. 10-bis, che impone la revoca in determinate ipotesi di condanna.
«La cittadinanza italiana acquisita ai sensi degli articoli 4, comma 2, 5 e 9, è revocata
in caso di condanna definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera
a), n. 4), del codice di procedura penale, nonché per i reati di cui agli articoli 270-
ter e 270-quinquies.2, del codice penale. La revoca della cittadinanza è adottata,
entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di
cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del
Ministro dell’interno ». La revoca riguarda TUTTE le ipotesi di acquisto della cittadi-
nanza, ad eccezione di quella jus sanguinis (nati da genitori italiani). Pare evidente
la violazione dell’art. 3 Cost. in quanto viene differenziata la condizione del cittadino
a seconda di come abbia acquisito lo status, ovverosia discrimina in base alla nazio-
nalità originaria.
Inoltre, la disposizione è ritenuta una violazione anche dell’art. 22 Cost. perchè pri-
va della cittadinanza per motivi (indirettamente) politici, in quanto i reati per i quali
interviene la revoca (reati con finalità di terrorismo) hanno comunque alla base un
motivo politico (pur non conpisibile).
   Infine, la disposizione pare violare anche obblighi internazionali (e dunque anche
   costituzionali, ex art. 10, co. 2 Cost.) perché non si fa carico di verificare se, a seguito
   della revoca, la persona penti apolide, in violazione della Convenzione di New York
   del 1961 sulla riduzione dell’apolidia, ratificata con legge 162/2015.

   Il d.l. 113/2018 ha allungato anche il termine di definizione del procedimento – da
   735 gg. a 48 mesi -, applicabile anche ai procedimenti in corso; ha altresì previsto
   che i documenti per la cittadinanza siano rilasciati dalla PA entro 6 mesi. Tutte tali
   disposizioni violano il principio di parità di trattamento, previsto dall’art. 2, co. 2
   TU 286/98, senza giustificazione alcuna, comportando la violazione dell’art. 3 Cost.
   sulla base della condizione personale.


   Il reddito di cittadinanza
   Tra i destinatari/beneficiari del reddito di cittadinanza il d.l. 4/2019 indica anche il
   cittadino straniero, non solo titolare di PSUE (permesso di lungo periodo), ma che
   sia anche residente in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi 2 continuativi.

   Il reddito di cittadinanza è una misura che rappresenta un LIVELLO ESSENZIALE
   delle PRESTAZIONI da garantire (cfr. Dossier del Senato) e la sentenza Corte cost.
   106/2018 ha dichiarato illegittime le prestazioni condizionate alla residenza, per di-
   scriminazione dissimulata.
194
   Del resto, tutta la giurisprudenza costituzionale va nel senso di censurare le disposi-
   zioni che, relativamente a misure di carattere assistenziale essenziale, differenziano
   a seconda della tipologia del permesso di soggiorno di cui sia titolare la persona
   straniera.

   Infatti il criterio della residenza è irragionevole perché non c’è alcuna correlazione
   tra essa e situazioni di bisogno (Corte cost. 40/2011 – 222/2013, ecc.).

   Alla luce dei principi espressi dalla Corte costituzionale, è ragionevole sospettare
   che le previsioni del d.l. 4/2019 siano illegittime costituzionalmente, richiedendo un
   requisito che dissimula la discriminazione sulla base della nazionalità. E questo vale
   anche per i cittadini dell’Unione europea.
Le discriminazioni fondate sulla disabilità: aspetti
teorici e casi pratici

Paolo Addis* – Maria Giulia Bernardini**



1. Premessa
All’interno di questo contributo, ci proponiamo di fornire al lettore una panoramica
relativa alla declinazione che assume il diritto antidiscriminatorio quando viene ri-
ferito ad una specifica soggettività, quella delle persone con disabilità. Negli ultimi
tempi, anche in seguito all’entrata in vigore della Convenzione Onu sui diritti delle
persone con disabilità (d’ora in avanti, CRPD), la riflessione giuridica ha rivolto con
sempre maggiore frequenza la propria attenzione a soggetti che la dottrina ha rico-
nosciuto diffusamente essere “nuovi” per il mondo del diritto1, in ragione del fatto
che l’approccio culturale con il quale, oggi, ci si accosta alla disabilità e al tema dei
diritti delle persone con disabilità è sensibilmente mutato, come si avrà modo di                195
riscontrare nel prosieguo di questo saggio.

Per approfondire il tema delle discriminazioni fondate sulla disabilità, abbiamo
scelto di avvalerci dell’analisi di alcuni casi pratici relativi a due ambiti della vita
quotidiana (istruzione e lavoro), e abbiamo altresì tentato di dare conto dell’ottica
multilivello in cui, come è noto, ormai da qualche tempo le fonti si strutturano, e in
relazione alla quale le Corti si trovano a dover reperire il materiale rilevante per le
proprie decisioni2. Infatti, come ha evidenziato anche la Corte di Cassazione, la con-
dizione delle persone con disabilità va inquadrata in una «logica di integrazione tra
fonti di protezione dei diritti fondamentali interne, convenzionali, sovranazionali ed
internazionali [...] senza rotture con il dato letterale delle norme nazionali [...] [ma]
1 Si tratta di una dinamica su cui si innesta un processo evolutivo che vede il passaggio dall’idea di
soggetti di diritto a quella di persone: cfr S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012
(in particolare pp. 149-178).
2 Sul problema del reperimento delle fonti, che caratterizza l’attività dell’interprete, ex multis cfr. B.
Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, CEDAM, Padova, 2014.



* Assegnista di ricerca di Diritto Costituzionale, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa.
** Ricercatrice di Filosofia del diritto, Università di Ferrara.
I due Autori hanno costantemente collaborato nella fase di ideazione e revisione del saggio e hanno
scritto congiuntamente la premessa. Sono da attribuire a Paolo Addis i §§ 2, 3, e a Maria Giulia Ber-
nardini i §§ 4 e 5.
   in modo che sia coerente con i vincoli liberamente assunti dal nostro Paese in sede
   europea e internazionale»3.

   Prima di procedere con l’analisi specifica delle forme di discriminazione fondate sul-
   la disabilità, è necessario formulare alcune osservazioni preliminari, al fine di chia-
   rire meglio in cosa consista il mutamento dell’approccio culturale al quale si è fatto
   cenno poc’anzi. La vita delle persone con disabilità è stata storicamente connotata,
   pur non in termini assoluti, da una condizione di minorità ed esclusione: la maggior
   parte delle società, nel confrontarsi con le persone che presentavano delle meno-
   mazioni (fisiche, ma non solo) ha tendenzialmente adottato atteggiamenti (più o
   meno consapevoli4) di rigetto, rifiutandosi di riconoscere in loro esseri umani “a
   pieno titolo”, e dunque negandone l’eguaglianza rispetto a coloro che erano consi-
   derati “normali”, o “normodotati”. Ed è a partire dal presupposto della titolarità di
   una soggettività “mancante” e deficitaria che ha tratto giustificazione l’adozione di
   meccanismi di esclusione e discriminazione strutturale, che nelle parole delle stes-
   se persone con disabilità hanno assunto sovente il carattere di una vera e propria
   “oppressione”5.

   Tale premessa risulta fondamentale qualora si voglia studiare la condizione delle
   persone con disabilità: prima di affrontare il tema dei diritti ed interrogarsi sull’uti-
   lità degli strumenti antidiscriminatori via via elaborati al fine di garantire una loro
   maggior tutela, è infatti indispensabile comprendere le concezioni culturali ad essi
196  sottese e, dunque, approfondire brevemente la distinzione tra il “modello medico”
   e il “modello sociale” della disabilità, intesi come paradigmi euristici che consento-
   no di definire la disabilità stessa. Invero, ormai da qualche decennio si è diffusa la

   3 Cfr. Cassazione Civ. n. 12911 del 23/05/2017. Cfr. altresì, per quel che concerne le decisioni del
   Supremo consesso, le sentt. n. 2210/2016 e n. 17867/2016; le decisioni qui menzionate relative alla
   tutela della condizione della persona con disabilità in ambito lavorativo, su cui si tornerà specificamen-
   te infra.
   Il tema della tutela multilivello dei diritti è ampiamente trattato in letteratura; per un’introduzione,
   cfr. almeno A. Ruggeri, La tutela “multilivello” dei diritti fondamentali, tra esperienze di normazione e
   teorie costituzionali, in “Politica del diritto”, 3/2007, pp. 317-346; specificamente sulla disabilità, cfr.
   anche G. Simoneschi, Il diritto al lavoro della persona disabile: tutela multilivello e progetto di vita, in
   “Minorigiustizia”, 3/2010, pp. 179-193, nonché la parte monografica della rivista “Questione giustizia”,
   3/2018, dedicata al tema del rapporto tra giustizia e disabilità.
   4 La letteratura psicoanalitica relativa alle ragioni del rifiuto dell’alterità è ampia: si vedano, ad esem-
   pio, J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano, 2006 e M.C. Nussbaum, Na-
   scondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 2007. Specificamente sulla di-
   sabilità, cfr. J. Kristeva, J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente
   e un credente sull’handicap e la paura del perso, Donzelli, Roma, 2011 e M. Shildrick, Dangerous
   Discourses of Disability, Subjectivity and Sexuality, Palgrave, MacMillan, Londra, 2009.
   5 Sull’oppressione nell’ambito della riflessione disability oriented, cfr., per tutti P. Abberley, The Con-
   cept of Oppression and the Development of a Social Theory of Disability, in “Disability & Society”, 2,
   1987, 1, pp. 5-19. Per un inquadramento di carattere storico del trattamento riservato alle persone con
   disabilità cfr. ex multis M. Schianchi, Storia della disabilità: dal castigo degli dèi alla crisi del welfare,
   Carocci, Roma, 2012, nonché il più recente Id., Il debito simbolico: una storia sociale della disabilità
   tra Otto e Novecento, Carocci, Roma, 2019, H.-J. Stiker, Corps infirmes et sociétés, III ed., Dunod, Paris,
   2013 e M. Fioranelli, Il decimo cerchio: appunti per una storia della disabilità, Laterza, Roma-Bari, 2011.
consapevolezza della relatività storico-geografica del concetto in questione, il quale
non è definibile in astratto né in termini assoluti; al contrario, per essere compreso,
deve essere contestualizzato e inquadrato usando coordinate di tipo culturale, so-
ciale, politico e giuridico, nonché tenendo ben presente che l’approccio da utilizzare
deve essere dinamico e – come vedremo – aperto a continue revisioni e risignifica-
zioni6. Solo adottando questa prospettiva si può capire come mai la situazione delle
persone con disabilità sia stata considerata prima una condizione di persità che
relegava il soggetto che ne fosse interessato ad una “radicale alterità” rispetto alla
normalità normodotata, poi una specificità meritevole di integrazione, infine una
specificità che vanta il diritto all’inclusione sociale.

Questa traiettoria, tra l’altro, non può ancora dirsi conclusa, atteso che retaggi del
trattamento escludente sono ancora riscontrabili in pressoché ogni contesto, e che
la stessa inclusione degli inpidui con disabilità non ne garantisce ancora, allo stato
attuale, il loro pieno ed effettivo riconoscimento quali soggetti, in un rapporto di
eguaglianza con coloro che, nei persi contesti, sono considerati “normodotati”.

In base ad un’ottica escludente, in un primo momento le persone con disabilità sono
state considerate incapaci di provvedere a sé stesse e, come tali, destinatarie di as-
sistenza caritatevole da parte del resto della società, “oggetti di cura” da custodire
o segregare. Invero, solo in tempi recenti si è approdati a una prospettiva in cui tali
inpidui meritano “eguale considerazione e rispetto”7, ossia devono essere consi-
derati soggetti eguali rispetto agli altri consociati: persone alle quali va riconosciu-             197
ta pari dignità sociale, in linea con i principi costituzionali che informano il nostro
ordinamento giuridico e che si pongono alla base del nostro patto di cittadinanza8.

La differenza tra le prospettive appena inpiduate può essere resa attraverso il ri-
chiamo ai due modelli della disabilità summenzionati, ossia quello medico e quello
sociale. In base al primo, a lungo dominante e ad oggi non ancora definitivamente
tramontato, la disabilità va letta come condizione di “svantaggio”, “mancanza” o
“anormalità” che deriva da una menomazione fisica o mentale, spesso considera-
ta un malfunzionamento; si tratta di una condizione intrinsecamente negativa, in
quanto preclude ad un inpiduo che ne sia “vittima” la possibilità di condurre una
vita normale. Chi è disabile dovrà allora prendere atto della propria minorazione e
affrontare i propri problemi da solo (o avendo accanto la propria famiglia, dato che


6 Per un’introduzione al tema, cfr. almeno S. Grech, K. Soldatic (eds.), Disability in the Global South.
The Critical Handbook, Springer, Dordrecht, 2016.
7 Rimandiamo alla nota tesi del filosofo del diritto Ronald Dworkin, che faceva ricorso al principio
dell’equal concern and respect per generare il principio dell’eguaglianza approssimativa. Per appro-
fondimenti, cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge, 1978. Taluni
hanno ritenuto che questo principio sia alla base delle azioni positive: cfr. J. Marshall, The Right to
Equal Concern and Respect: The Foundation of Affirmative Action, in “Brigham Young University Prelaw
Review”, 9, article 9, https://scholarsarchive.byu.edu/byuplr/vol19/iss1/9.
8 In una prospettiva costituzionale, cfr. C. Colapietro, Diritti dei disabili e Costituzione, Editoriale Scien-
tifica, Napoli, 2011.
   l’attività di caregiving è primariamente a base familiare, o al più riconducibile alla
   sfera del volontariato).

   Al contrario, sulla società non grava (e non deve gravare) alcun onere. Ad occuparsi
   della persona con disabilità saranno innanzitutto i familiari e, per quanto attiene la
   cura e la presa in carico, chi ha ricevuto un’adeguata formazione scientifica e profes-
   sionale per curare gli anormali9 nel corpo e nella psiche, primo fra tutti il personale
   medico. L’obiettivo – perseguito essenzialmente secondo i ritmi fissati e scanditi
   dal terapeuta – è il ritorno alla normalità perduta: la persona con disabilità deve
   recuperare ciò che non ha più in termini funzionali, o avvicinarsi al grado che sia
   più prossimo a tale condizione. Solo dopo che il processo di “normalizzazione” avrà
   avuto compimento, il soggetto potrà far parte a pieno titolo della società10.

   Questo approccio reca con sé notevoli conseguenze di carattere politico e giuridico.
   In primo luogo, come già anticipato, la disabilità finisce per essere una questione
   privata: lo scorrere della vita sociale può continuare imperturbato, in attesa della
   guarigione di chi era infermo. Infatti, la persona con disabilità piene visibile al più
   o come oggetto di compassione o – se si dimostra particolarmente determinata –
   come figura esemplare, una sorta di fonte d’ispirazione per affrontare le piccole o
   grandi difficoltà11.

   Al contrario, se la normalità è impossibile da riottenere, è ben più probabile che la
   persona con disabilità venga considerata come un fardello, un “peso” sociale, innan-
198
   zitutto sul versante economico. E, se questa è la retorica che ammanta la condizione
   disabile, allora ben si comprende la scelta, effettuata ripetutamente nel corso della
   storia e di recente nuovamente riproposta anche all’interno di numerosi Stati eu-
   ro-unitari12, di isolare le persone con disabilità, segregandole all’interno di luoghi
   deputati alla loro specifica cura, e così allontanandole dalla società per difenderla13.



   9 L’impiego di tale termine, volutamente provocatorio, rimanda al noto testo di M. Foucault, Gli anor-
   mali. Corso al Collège de France (1974-75), Feltrinelli, Milano, 2000.
   10 Sulle logiche sottese al processo di normalizzazione si rinvia a W. Wolfensberger, The Principle of
   Normalization in Human Services, National Institute on Mental Retardation, Toronto, 1972.
   11 Tra gli altri, mette in guardia circa l’effetto di esclusione che l’esaltazione del cosiddetto “disability
   hero” produce nei confronti delle persone con disabilità che non abbiano compiuto gesta straordina-
   rie Matteo Schianchi, in Id., La terza nazione del mondo: i disabili tra pregiudizio e realtà, Feltrinelli,
   Milano, 2009.
   12 Sull’istituzionalizzazione, cfr. almeno D.L. Braddock, S.L. Parish, An Institutional History of Disability,
   in G. Albrecht et al. (eds.), Handbook of Disability Studies, Sage, Thousand Oaks, 2001, pp. 11-68. Le
   “grandi istituzioni” sono notoriamente quelle cui si riferiscono J. Bentham, Panopticon ovvero la casa
   d’ispezione, a cura di M. Foucault, M. Perrot, Marsilio, Padova, 2002; M. Foucault, Storia della follia
   nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1973; E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino, 1978;
   F. Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968. Per uno sguardo alla contemporaneità, ed un
   invito a superare la logica segregante attuando i principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone
   con disabilità e, dunque, promuovendo il diritto alla vita indipendente, cfr. i tre report della Fundamen-
   tal Rights Agency (FRA) del 2017.
   13 Il richiamo è ancora a Foucault e, in particolare, a M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltri-
   nelli, Milano, 1998.
A ben vedere, infatti, in questa prospettiva la condizione di tali soggetti può e deve
essere affrontata facendo riferimento a sostegni appropriati, da rendicontare e tra-
durre in flussi di denaro che lo Stato del benessere elargirà loro, direttamente o
indirettamente; i diritti di tali inpidui sono dunque essenzialmente relativi alla cura
e all’assistenza. Infine, è da notare un’ulteriore e rilevante conseguenza giuridica
relativa a tale condizione di “minorità” ed esclusione: nell’ottica “medica”, l’accer-
tamento della presenza di una menomazione o di una difficoltà relazionale in capo
ad un soggetto giustifica l’operare di una presunzione concernente la sua incapacità,
nonché la conseguente limitazione (più o meno rilevante a seconda dello strumento
di tutela prescelto e/o resosi necessario) della sua capacità d’agire. Come è noto,
tale fattore si traduce nell’ostacolo al compimento di attività giuridicamente rilevan-
ti (prime fra tutte, l’esercizio dei diritti politici e gli atti di disposizione del diritto di
proprietà), quando non nel loro totale pieto. Anche in termini giuridici, pertanto,
la persona con disabilità avrà bisogno di “assistenza” e di “tutela”: le norme del no-
stro Codice civile relative agli istituti dell’interdizione e inabilitazione (artt. 414-432)
sono il logico corollario di una costruzione politica e valoriale come quella appena
delineata.

A questa impostazione se ne è contrapposta, ormai da alcuni decenni, un’altra, già
evocata il modello sociale della disabilità, messo a punto fra America ed Europa fra
gli anni Sessanta e Ottanta del XX secolo e più volte riformulato, propone infatti una
chiave di lettura inconciliabile con quella appena illustrata. Ciò perché nel modello
sociale la disabilità non scaturisce dalla menomazione, ma trae origine nella società          199
e consiste nella reazione manifestata dalla società in relazione a quella che, adot-
tando una prospettiva medica, è considerata un’anomalia (anziché una specificità,
una persità che merita una piena valorizzazione). Solitamente, per rinvenire una
formulazione dell’idea fondante del modello sociale della disabilità, si fa riferimento
a quanto elaborato in seno a un’associazione fondata da un attivista inglese, Paul
Hunt, nel 1972, la Union of the Physically Impaired against Segregation (UPIAS).
In un documento, pubblicato nel 1976 e intitolato Principles of Disability, si legge
che «In our view, it is society which disables physically impaired people. Disability
is something imposed on top of our impairments, by the way we are unnecessarily
isolated and excluded from full participation in society. Disabled people are therefore
an oppressed group in society. It follows from this analysis that having low incomes,
for example, is only one aspect of our oppression. It is a consequence of our isolation
and segregation, in every area of life, such as education, work, mobility, housing,
etc. Poverty is one symptom of our oppression, but it is not the cause. […]. We
shall clearly get nowhere if our efforts are chiefly directed not at the cause of our
oppression, but instead at one of the symptoms».

Le poche righe riportate consentono di mettere bene a fuoco i tratti fondamentali del
modello sociale, che troverà poi ulteriori rielaborazioni, a opera di autori come – fra
gli altri – Mike Oliver e Colin Barnes14: la disabilità non nasce da un deficit, ma è una

14 Si vedano, nell’ampia letteratura, M. Oliver, C. Barnes, The New Politics of Disablement, Palgrave
Macmillan, Londra, 2012.
   forma di oppressione che trae origine dalla società, che esclude e discrimina coloro
   che hanno una menomazione, restringendone il campo di azione e la possibilità
   di partecipazione, sulla base di radicati stereotipi relativi all’incapacità e alla sub-
   umanità di tali inpidui15.

   Non è questa, ovviamente, la sede adatta per rievocare il clima politico-culturale in
   cui il modello sociale ha visto la luce, sull’una o sull’altra sponda dell’Atlantico, né la
   sua evoluzione nel corso degli ultimi quarant’anni e le differenti, varie formulazioni
   che ne sono state date (si tenga presente che ne sono state contate perse decine).
   Quello che va evidenziato è come il modello sociale si sia affermato come strumen-
   to utile per trasformare il quadro politico.

   Giuridicamente, le conseguenze derivanti dall’adozione di tale prospettiva sono no-
   tevoli. Citando un famoso attivista statunitense, Ed Roberts, il punto cruciale messo
   a fuoco grazie al modello sociale consiste nella presa di consapevolezza che non è
   possibile affrontare le questioni attinenti all’ambito della disabilità (soltanto) in ter-
   mini di carità, benevolenza fraterna, assistenza e compassione. Al contrario, si tratta
   di fare appello alla giustizia e ai diritti16: «la soluzione ai problemi legati alla disabilità
   passa non da un percorso di risanamento di una “deviazione dalla norma”, ma dalla
   rimozione di ciò che nega alle persone con menomazioni il pieno godimento delle
   pari opportunità»17. Le regole giuridiche sono appunto deputate a rimuovere quelle
   barriere che ostacolano o impediscono l’esercizio dei diritti (producendo la disabi-
200  lità), al fine di garantire l’eguaglianza delle persone con disabilità. A tal riguardo, il
   diritto antidiscriminatorio riveste indubbiamente un ruolo fondamentale, come si
   avrà modo di verificare nel prosieguo, dopo il preliminare e necessario inquadra-
   mento delle fonti rilevanti in tema di tutela dei diritti delle persone con disabilità.



   2. La condizione giuridica delle persone con disabilità nel quadro
     giuridico internazionale, nell’Unione europea e nel Consiglio
     d’Europa
   2.1.1. I diritti delle persone con disabilità e il diritto internazionale (I fase:
   1945-2000)
   Si è detto, in apertura, come la condizione giuridica delle persone con disabilità,
   oggi, debba essere letta in una prospettiva articolata su più piani. Il primo a venire
   in considerazione, in questa nostra analisi, è quello relativo al diritto internazionale,
   oggetto di una notevole evoluzione nel corso dei decenni. Come rilevato da Theresia
   Degener, in questo ambito le persone con disabilità sono state a lungo pressoché in-

   15 In particolare, si tratta degli stereotipi che vanno a comporre il modello medico, e che abbiamo
   sinteticamente riportato in precedenza.
   16 Sia permesso rimandare a M.G. Bernardini, Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari tra filosofia del
   diritto e Disability Studies, Giappichelli, Torino, 2016.
   17 Così A.D. Marra, Società, Disabilità, Diritti. Come i disability studies hanno attecchito nella giurispru-
   denza italiana, Key editore, Vicalvi, 2018, p. 15.
visibili: esse non vengono menzionate né nello Statuto delle Nazioni unite del 1945,
né nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 194818. Non sono presen-
ti riferimenti alle persone con disabilità neppure nella Convenzione internazionale
sull’eliminazione di ogni discriminazione razziale del 196519, né nel Patto internazio-
nale sui diritti civili e politici e nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali
e culturali, entrambi del 196620. In seguito, nel decennio che va dal 1970 al 1980, in
seno alle Nazioni Unite si registra l’approvazione di due documenti, non vincolanti,
la Dichiarazione dei diritti delle persone con ritardo mentale nel 197121 e la Dichia-
razione dei diritti delle persone disabili nel 197522.

Si trattava – rileva ancora Degener – di atti conformi al modello medico della disabi-
lità. La Dichiarazione del 1971 si apre con l’affermazione che «The mentally retarded
person has, to the maximum degree of feasibility, the same rights as other human
beings»: il riferimento al «maximum degree of feasibility» (ovvero, al miglior risul-
tato ottenibile) pare dar per inteso che in molti casi sia naturale l’irraggiungibilità
d’una piena eguaglianza nel godimento e nell’esercizio dei diritti23.

Ancora, la Dichiarazione del 1975 ha come incipit la statuizione secondo cui «The
term “disabled person” means any person unable to ensure by himself or herself,
wholly or partly, the necessities of a normal inpidual and/or social life, as a result
of deficiency, either congenital or not, in his or her physical or mental capabilities»;
seppure non manchino, nel testo della Dichiarazione, importanti affermazioni di
principio (al punto 3, ad esempio, si legge che «Disabled persons have the inherent               201
right to respect for their human dignity. Disabled persons, whatever the origin, na-

18 Cfr. sul punto T. Degener, From Invisible Citizens to Agents of Change: A Short History of the Struggle
for the Recognition of the Rights of Persons with Disabilities at the United Nations, in V. Della Fina, R.
Cera, G. Palmisano (a cura di), The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities.
A Commentary, Springer, Cham, 2017, pp. 1-39.
19 Per quel che concerne l’Italia, l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine d’esecuzione alla Convenzione
in questione sono stati dati con la l. n. 654 del 13 ottobre 1975.
20 Per quanto concerne l’Italia, l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine d’esecuzione dei Patti del 1966
sono stati dati con la l. n. 881 del 25 ottobre 1977.
21 Il testo della Dichiarazione del 1971, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20
dicembre 1971 (Res. Ass. Gen. 2856 (XXVI), è disponibile online all’indirizzo https://www.ohchr.org/
EN/ProfessionalInterest/Pages/RightsOfMentallyRetardedPersons.aspx. A conferma di quanto appena
esposto, si noti come al punto 5 s’affermi che «The mentally retarded person has a right to a qualified
guardian when this is required to protect his personal well-being and interests» e, al punto 7, che
«Whenever mentally retarded persons are unable, because of the severity of their handicap, to exer-
cise all their rights in a meaningful way or it should become necessary to restrict or deny some or all of
these rights, the procedure used for that restriction or denial of rights must contain proper legal safe-
guards against every form of abuse. This procedure must be based on an evaluation of the social capa-
bility of the mentally retarded person by qualified experts and must be subject to periodic review and
to the right of appeal to higher authorities.». Il modello di intervento nei confronti delle persone con
disabilità intellettive è quindi quello della custodia e della tutela, ma in caso di necessità è del tutto am-
missibile la compressione o la privazione dei diritti, purché con le debite precauzioni per evitare abusi.
22 Il testo della Dichiarazione del 1975 è reperibile all’indirizzo web https://www.ohchr.org/Documen-
ts/ProfessionalInterest/res3447.pdf
23 Cfr. T. Degener, From Invisible Citizens to Agents of Change, cit., p. 4
   ture and seriousness of their handicaps and disabilities, have the same fundamental
   rights as their fellow-citizens of the same age, which implies first and foremost the
   right to enjoy a decent life, as normal and full as possible»), è sempre presente una
   tensione al raggiungimento di una normalità perduta (al punto 9 si legge che «Dis-
   abled persons have the right to live with their families or with foster parents and
   to participate in all social, creative or recreational activities» ma, subito dopo, si
   afferma che «If the stay of a disabled person in a specialized establishment is indis-
   pensable, the environment and living conditions therein shall be as close as possible
   to those of the normal life of a person of his or her age»). Nonostante il riferimento
   al principio di normalizzazione possa essere interpretato come un passo per una
   lettura dei diritti delle persone con disabilità come diritti umani, il documento del
   1975 è ancora radicato nel paradigma medico24.

   Il ventennio che va dal 1980 al 2000 registra numerosi ed evidenti passi in avanti.
   L’ONU proclama il 1981 “Anno internazionale delle persone con disabilità” e vara un
   ampio programma di azione; l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 1983,
   approva una Convenzione (n. 159) sull’inclusione lavorativa delle persone con di-
   sabilità; nel 1986 vengono stilati dei Principi e delle linee guida e garanzie per la
   protezione delle persone private della libertà personale per problemi connessi alla
   salute mentale, unitamente a un rapporto dello Special Rapporteur della Sottocom-
   missione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze.
   Ma il passaggio più significativo è dato dall’approvazione, nel 1993, delle Regole
202  Standard delle Nazioni unite sulle pari opportunità per le persone con disabilità25. Si
   tratta di un atto non vincolante, ma rilevante nel contribuire alla realizzazione di un
   cambio di prospettiva: della condizione delle persone con disabilità si discute non
   più in termini di tutela, ma di non discriminazione nel godimento dei diritti.



   2.1.2. L’emergere dei diritti delle persone con disabilità come diritti umani e
   la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (II fase: 2000-oggi)
   All’inizio del nuovo millennio, però, si fece strada l’idea che i diritti delle persone con
   disabilità dovessero trovare collocazione anche all’interno di uno strumento di ca-
   rattere vincolante. Era un’esigenza avvertita all’interno del movimento globale per
   i diritti delle persone con disabilità, ma non solo: quando il presidente messicano
   Vicente Fox Quesada rilanciò, in seno alle Nazioni unite, l’idea di una Convenzione
   internazionale che definisse il tema dei diritti delle persone con disabilità come di-
   ritti umani, la proposta, pur con resistenze e attriti, venne accolta.

   Non è ovviamente possibile, in questa sede, ripercorrere passo per passo il com-

   24 Cfr. ancora T. Degener, cit., pp. 5-6: Degener sottolinea anche come, nonostante i suoi numerosi
   limiti, la Dichiarazione in questione «was one of the first documents of the United Nations that ac-
   knowledged the importance of consultations with organizations of disabled persons» (ibidem).
   25 Sulle Regole Standard del 1993 cfr., nella dottrina italiana, M.R. Saulle, Le norme standard sulle pari
   opportunità dei disabili, ESI, Napoli, 1998.
plesso iter negoziale che ha condotto all’approvazione della Convenzione ONU; ma
essa, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel dicembre del 2006,
rappresenta oggi il più aggiornato e completo strumento di garanzia dei diritti delle
persone con disabilità a livello internazionale.

Gli spunti d’interesse che la Convenzione offre al giurista sono molteplici e nume-
rosissimi sono stati i lavori tesi a metterne in luce gli aspetti più interessanti26: essa,
al di là dei suoi primati (si tratta del primo trattato sui diritti umani del XXI secolo, è
stata elaborata in tempi eccezionalmente brevi ed è stata ratificata rapidamente da
un numero molto elevato di Paesi, sin dal primo giorno di apertura alla firma da par-
te degli Stati), ha in sé un valore intrinseco, dato dal fatto che è stata messa a punto
con il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità e, pur non attribuendo alle
persone con disabilità nuovi diritti, rilegge quelli esistenti, dando loro una coloratu-
ra nuova e chiarendone l’applicabilità alle persone con disabilità, con l’obiettivo di
rafforzarne effettività e potenzialità inclusive27.

Il testo della Convenzione, cui l’Italia ha dato ratifica ed esecuzione con la l. 18/2009,
è lungo e complesso; essa consta di un Preambolo e 50 articoli. Alla Convenzione,
inoltre, s’accompagna un Protocollo opzionale, composto da 18 ulteriori articoli; il

26 Cfr. ex multis, A.S. Kanter, The Promise and Challenge of the United Nations on the Rights of Per-
sons with Disabilities, in “Syracuse J. Int’l L. & Com.”, 34, 2007, p. 287 e ss.; R. Kayess, P. French, Out of
Darkness into Light? Introducing the Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in “HRLR”, 8,    203
2008, 1, pp. 1-34; G. Quinn, The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities:
Toward a New International Politics of Disabilities – Jacobus tenBroek Disability Law Symposium, April
17 2009, in “Texas Journal on Civil Liberties & Civil Rights”, 15, 2009-2010, 1, pp. 33-52; M.A. Stein, J.E.
Lord, Future Prospects for the United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in
O.M. Arnadóttir, G. Quinn (eds.), The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities. Europe-
an and Scandinavian Perspectives, Martinus Nijhoff, Amsterdam, 2009; A. Lawson, The United Nations
Convention on the Rights: the New Era or False Dawn?, in “Syracuse J. Int’l L. & Com.”, 2007, p. 563 ss.;
F. Seatzu, La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone disabili: i principi fondamentali, in
“Diritti umani e diritto internazionale”, 3, 2008, pp. 535-559, nonché Id., La Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti delle persone disabili: diritti garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in “Diritti
umani e diritto internazionale”, 3, 2009, pp. 259-280.
Per un commento sistematico all’articolato della CRPD, cfr. V. Della Fina, R. Cera, G. Palmisano (eds.),
The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities. A Commentary, Springer,
Cham, I. Bantekas, M. A. Stein, D. Anastasiou (eds.), The UN Convention on the Rights of Persons with
Disabilities. A Commentary, OUP, Oxford, 2018.
27 In questo senso, si è ricordato come la Convenzione, in molti ambiti, vada a definire le condizioni
minime perché il godimento di diritti altrove sanciti sia assicurato anche alle persone con disabilità.
Ciò non impedisce, però, di rinvenire nelle previsioni contenute nella CRPD anche tratti spiccatamente
innovativi: «Despite the “official fiction” that the CRPD creates no new rights, it does contain articles
bearing entirely novel titles, and introduces many innovative measures and mechanisms». Al riguardo,
si ponga attenzione al fatto che «articles concerning accessibility (Article 9), living independently and
being included in the community (Article 19), personal mobility (Article 20), habilitation and rehabili-
tation (Article 26), speak to specific concerns for disabled people»: così L. Series, Disability and Human
Rights, in N. Watson, S. Vehmas (eds.), Routledge Handbook on Disability, II ed., Routledge, Londra,
2019, pp. 72-88 (il passo qui citato è a pp. 77-78); la stessa A., di seguito, però scrive che «Whether
these are “new rights”, or simply rights that are so securely (and thereby invisibly) enjoyed by most
non-disabled people as not to attract specific protection in human rights treaties, is a matter for de-
bate» (ibidem).
   Protocollo opzionale delinea i tratti essenziali di un sistema di monitoraggio e con-
   trollo, a sua volta non privo di aspetti di rilevante novità28.

   Dopo aver enunciato il proprio scopo (art. 1), definito alcuni concetti e princìpi fon-
   damentali (artt. 2 e 3) e obblighi generali (art. 4), il testo della Convenzione affronta
   il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione. È un passaggio fondamenta-
   le, ai fini di questa nostra analisi: all’art. 5 si legge che «Gli Stati Parti riconoscono
   che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna
   discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge.». Il comma
   successivo recita che «Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione
   fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva
   protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento.».
   Poi, si chiarisce che «Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discrimi-
   nazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che
   siano forniti accomodamenti ragionevoli» e che «Le misure specifiche che sono ne-
   cessarie ad accelerare o conseguire de facto l’uguaglianza delle persone con disa-
   bilità non costituiscono una discriminazione ai sensi della presente Convenzione.».
   Per intendere correttamente il testo dell’art. 5 è necessario richiamare le nozioni
   tratteggiate all’art. 2, ove si specifica che per «“discriminazione fondata sulla disa-
   bilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della
   disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento,
   il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani
204
   e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile
   o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il
   rifiuto di un accomodamento ragionevole»; e per quest’ultimo «[…] si intendono le
   modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere
   sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per
   garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza
   con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

   I concetti definiti all’art. 5, “eguaglianza” e “non discriminazione”, sono due volti di
   una stessa medaglia e costituiscono uno dei princìpi-cardine del diritto internazio-
   nale dei diritti umani29; per quanto concerne la Convenzione, «Rights to equality
   and non-discrimination in Article 5 are conceived as free-standing provisions since
   their application is not confined to the rights contained in the Convention»30. Si trat-
   ta, quindi, di una disposizione che di per sé, anche da sola, vincolerebbe gli Stati
   parti della CRPD a quanto appena sopra richiamato. Ma fra gli articoli della Conven-
   zione – che non possiamo analizzare puntualmente ce ne sono alcuni che regolano
   gli ambiti di vita di cui ci occuperemo nella parte del lavoro destinata all’esame delle

   28 Cfr. M.A. Stein, J.E. Lord, Monitoring the Convention on the Rights of Persons with Disabilities: Inno-
   vations, Lost Opportunities, and Future Potential, in “Human Rights Quarterly”, 32, 2010, pp. 689-728.
   29 Cfr. R. Cera, Article 5 [Equality and Non-Discrimination], in V. Della Fina, R. Cera, G. Palmisano (a cura
   di), The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities, cit., pp. 157-174.
   30 Ibidem, p. 160.
sentenze relative a casi di discriminazione: l’art. 24 sul diritto all’istruzione e l’art. 27
sul diritto al lavoro. Ma è importante aver ben presente che la lotta alle discrimina-
zioni e la tensione verso l’uguaglianza non solo permeano tutta la Convenzione e ne
informano l’interpretazione, ma costituiscono una vera e propria stella polare per
gli ordinamenti giuridici contemporanei vincolati dalla CRPD, nel loro rapportarsi a
chi si trovi in una condizione di disabilità.



2.2. Un secondo piano normativo: il diritto dell’Unione europea
Un altro dei livelli di tutela per la condizione giuridica delle persone con disabilità è
costruito a partire dal diritto dell’Unione europea. In prospettiva diacronica, si può
dire che l’interesse delle (allora) Comunità europee nei confronti dei diritti delle
persone con disabilità è maturato con una certa lentezza. Attorno alla metà degli
anni Settanta vide la luce una risoluzione del Consiglio, che recava come titolo “Pro-
gramma di azione per l’integrazione occupazionale e sociale delle persone portatrici
di handicap”; l’obiettivo delle istituzioni comunitarie, nella prima fase del proprio
agire, non riguardava l’inclusione sociale delle persone con disabilità, ma, piuttosto,
la loro integrazione come lavoratori che dovevano muoversi e operare all’interno di
un mercato comune.

Come debitamente sottolineato da chi ha ricostruito l’evolversi della posizione oc-
cupata dalle persone con disabilità all’interno delle politiche e della normativa delle              205
Comunità europee prima e dell’Unione europea poi, il punto di svolta è rappresen-
tato dall’entrata in vigore, nel 1999, del Trattato di Amsterdam31. È con questo atto,
infatti, che viene introdotto all’interno dell’ordito normativo dei Trattati, il principio
secondo cui è compito delle istituzioni euro-unitarie impegnarsi per combattere la
discriminazione anche nei confronti delle persone con disabilità. Come recita l’at-
tuale art. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, «Nella definizione
e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discrimi-
nazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni per-
sonali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale», mentre all’art. 19 si legge che
«Fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell’ambito delle competenze da essi
conferite all’Unione, il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura
legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere
i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la
razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o
l’orientamento sessuale». Il primo frutto tangibile di questo mutare di sensibilità e
di orientamento di politica del diritto è rappresentato dalla Direttiva 2000/78/CE, su
cui ci soffermeremo in maniera più puntuale più avanti, nell’analisi della tutela con-

31 Si rinvia, per una ricostruzione sintetica, a D. Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disa-
bilità: brevi riflessioni a vent’anni dalla prima “Strategia”, in “Prospettive sociali e sanitarie”, 17, 2016,
2, pp. 118-123; v. anche A. Waldschmidt, Disability policy of the European Union: The supranational
level, in “Alter – Revue européenne de recherche sur l’handicap”, 3, 2009, 1, pp. 8-23.
   tro le discriminazioni in ambito lavorativo. Ulteriori modifiche, per quanto riguarda
   le fonti con cui adottare gli atti normativi necessari per combattere le discriminazio-
   ni sono state poi introdotte dal Trattato di Lisbona, particolarmente con riguardo al
   ruolo del Parlamento europeo32.

   L’approccio antidiscriminatorio – ispirato al modello statunitense dell’Americans
   with Disabilities Act33 – ha rappresentato un importante elemento di novità per la
   condizione delle persone con disabilità e, in termini più generali, un contributo ori-
   ginale del diritto dell’Unione alla regolazione dei rapporti fra privati34.

   Un ulteriore punto significativo, nel panorama del diritto dell’Unione riguardan-
   te la condizione giuridica delle persone con disabilità, è segnato dall’introduzio-
   ne, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di alcune disposizio-
   ni direttamente rilevanti ai fini della nostra analisi35. Se all’art. 21 è ribadito che
   «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la
   razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche,
   la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi
   altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita,
   la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale», la condizione delle persone con
   disabilità è affrontata, specificamente, dall’art. 26. La disposizione in questione af-
   ferma che «L’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di
   beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e profes-
206  sionale e la partecipazione alla vita della comunità». Anche tenendo conto dei limiti
   di quanto disposto nella Carta, pare indubbio che alcune delle disposizioni in essa

   32 Cfr. ancora D. Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disabilità, cit., p. 120; in termini
   più generali, per l’impatto del Trattato di Lisbona, si vedano, volendo, le considerazioni esposte in M.G.
   Bernardini, L’Europa dopo Lisbona: cosa cambia, in “Federalismi.it”, n. 11/2010; Ead., L’Unione euro-
   pea ed il Trattato di Lisbona: nuove frontiere per la tutela multilivello dei diritti, in “Diritto e società”,
   3/4, 2010, pp. 407-445.
   33 Cfr. M. Priestley, In Search of European Disability Policy: Between National and Global, in “ALTER –
   Revue européenne de recherche sur l’handicap”, 2007, 1, pp. 61-74. Il collegamento fra il diritto antidi-
   scriminatorio statunitense e quello europeo non equivale, ovviamente, a non riconoscerne i differenti
   percorsi; cfr. al riguardo G. De Búrca, The Trajectories of European and American Antidiscrimination
   Law, in “American Journal of Comparative Law”, 60, 2012, 1, pp. 1-22.
   34 Come sottolineato da autorevole dottrina, «In turn, anti-discrimination law is an original EU con-
   tribution to regulatory private law»; e se inizialmente il pieto di discriminazione riguardava la nazio-
   nalità di provenienza dei lavoratori, dei servizi e delle merci, nell’ottica di un aumento dell’efficienza
   del mercato comune, «However, its subsequent destiny was to provide the constitutional basis for
   gradually widening anti-discrimination case law and secondary legislation. Constitutionally anchored
   anti-discrimination law is a primary example of social constitutional law severing its roots in the eco-
   nomic constitution and adopting a more independent teleology. Differing from labour law, the main
   credit for this development is due not to the political legislator, but to the ECJ. This fact may balance
   an over-straightforward view of the ECJ as a champion of negative integration and economic consti-
   tutionalization» (così K. Tuori, European Constitutionalism, Cambridge University Press, Cambridge,
   2015, pp. 259-260).
   35 La Carta dei diritti fondamentali è stata adottata a Nizza nel dicembre del 2000 e poi solennemente
   riproclamata a Strasburgo, con alcune a modifiche, nel 2007; nel diritto dell’UE essa si colloca, sul pia-
   no delle fonti del diritto, allo stesso livello dei Trattati.
contenute siano dotate di un certo grado di innovatività; ma la disposizione appena
sopra riportata, per quanto appaia «accattivante l’idea che […] non si limiti a rico-
noscere il diritto dei disabili di beneficiare delle misure funzionali alla loro autono-
mia e inclusione già previste dai singoli Stati, ma attribuisca il diritto a pretenderne
l’istituzione, ove manchino», sembra piuttosto avere una portata essenzialmente
programmatica36; e ciò pare trovare conferma nella giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione Europea37.

Non si può poi tacere il fatto che l'ordinamento dell'UE, circa l’aspetto che rileva in
questa sede, abbia conosciuto un ulteriore sviluppo, anche in una dimensione co-
stituzionale38, a seguito del fatto che la CRPD, a partire dal 2010, è parte del diritto
dell’Unione; ma va sottolineato come, avendo riguardo al quadro delle fonti del
diritto, essa vada collocata in una posizione inferiore a quella dei Trattati. L’influenza
della Convenzione delle Nazioni Unite è apprezzabile sotto più profili; vedremo fra
poco come essa abbia spinto la Corte del Lussemburgo a un rilevante revirement
per quel che concerne la nozione di disabilità da utilizzare nell’applicazione della
Direttiva 2000/78/CE. Ciò premesso, la Corte stessa ha chiarito che la CRPD ha – nel
quadro del diritto euro-unitario – valenza programmatica39. Ma essa funge comun-


36 In questo senso, D. Izzi, Articolo 26, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O.
Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffré, Milano, 2017, pp. 498-
510 (il passo citato è a p. 502). Per quel che riguarda un commento alla disposizione de qua si vedano
                                                        207
anche M. Olivetti, Articolo 26, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti.
Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Mulino, Bologna, 2001, pp. 202 ss.
e C. O’Brien, Article 26, in S. Peers, T. Hervey, J. Kenner, A. Ward (eds.), The EU Charter of Fundamental
Rights: A Commentary, Hart, Oxford, 2014, pp. 707-748.
37 «Tuttavia, sebbene l’articolo 26 della Carta prescriva dunque all’Unione di rispettare e riconoscere
il diritto dei disabili di beneficiare di misure di inserimento, il principio così consacrato non implica che
il legislatore dell’Unione sia tenuto ad adottare questa o quella misura particolare. Affinché produca
pienamente effetti, l’articolo deve essere concretizzato da disposizioni del diritto dell’Unione o del dirit-
to nazionale. Esso non può, quindi, conferire di per sé ai singoli un diritto soggettivo autonomamente
azionabile […]»: così la Corte del Lussemburgo, nel caso Glatzel c. Freistaat Bayern (C-352/14, 22 mag-
gio 2014); il passaggio qui riportato è al punto 78 della sentenza; il corsivo è aggiunto.
38 Si veda, sul punto, D. Ferri, The Conclusion of the UN Convention on the Rights of Persons with
Disabilities by the EC/EU: A Constitutional Perspective, in L. Waddington, G. Quinn (eds.), European
Yearbook in Disability Law, Intersentia, Antwerp-Oxford-Portland, 2010, pp. 47-72.
39 «Quindi, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 114 delle conclusioni, [la CRPD], impo-
nendo obblighi agli Stati contraenti, presenta un carattere programmatico. Di conseguenza, le dispo-
sizioni della Convenzione dell’ONU sono subordinate, quanto ad esecuzione o a effetti, all’intervento
di atti ulteriori che competono alle parti contraenti. […]. Pertanto, senza che occorra esaminare la
natura e la struttura della Convenzione dell’ONU, si deve dichiarare che le sue disposizioni non sono,
dal punto di vista del contenuto, incondizionate e sufficientemente precise […], e mancano dunque di
effetti diretti nel diritto dell’Unione. Ne consegue che la validità della Direttiva 2000/78/CE non può
essere esaminata in riferimento alla Convenzione dell’ONU»: così i punti 88-90 della sentenza Z. c. A
Government department – The Board of management of a community school (C-363/12, 18 marzo
2014). Non può essere poi trascurato il piano relativo all’intersezione fra la CRPD e la Carta dei diritti
fondamentali: al riguardo si veda, da ultimo, F. Venade de Sousa, The Charter of Fundamental Rights
of the European Union and the United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities: a
Dynamic Pro Unione and Pro Homine with Particular Reference to the CJEU Case-Law, in “UNIO – EU
Law Journal”, 5, 2019, 1, pp. 109-120.
   que da chiaro riferimento normativo per quanto concerne l’elaborazione di fonti
   primarie incidenti sulla condizione delle persone con disabilità. Un esempio, piut-
   tosto recente, è dato dall’approvazione – a lungo attesa – di una Direttiva europea
   “ad ampio raggio” riguardante l’accessibilità. Si tratta della Direttiva (UE) 2019/882
   del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, relativa ai requisiti di
   accessibilità dei prodotti e dei servizi. Essa ribadisce, nei suoi considerando iniziali,
   che la definizione di “persone con disabilità” usata dalla Direttiva stessa è plasmata
   su quella della CRPD, che «Da quando l’Unione è penuta parte della UNCRPD,
   le disposizioni di tale convenzione sono penute parte integrante dell’ordinamen-
   to giuridico dell’Unione e vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri»40,
   che «L’entrata in vigore dell’UNCRPD nell’ordinamento giuridico degli Stati mem-
   bri comporta la necessità di adottare disposizioni nazionali supplementari sull’ac-
   cessibilità dei prodotti e dei servizi. In assenza di interventi da parte dell’Unione,
   tali disposizioni porterebbero a un ulteriore aumento delle disparità fra le dispo-
   sizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri»41 e che «È
   pertanto necessario agevolare l’attuazione dell’UNCRPD nell’Unione prevedendo
   regole comuni dell’Unione. La presente Direttiva contribuisce altresì agli sforzi degli
   Stati membri volti a rispettare, in modo armonizzato, i rispettivi impegni nazionali e
   obblighi in materia di accessibilità derivanti dall’UNCRPD»42.

   Il diritto antidiscriminatorio dell’Unione trova spazio anche in strumenti di soft
   law. Nella Strategia europea sulla disabilità 2010-2020, a tal proposito, si sottoli-
208  nea come la lotta alle discriminazioni subite dalle persone con disabilità sia un pun-
   to-cardine della Strategia stessa43; dopo aver menzionato il già richiamato art. 21
   della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Strategia afferma che
   «Conformemente agli articoli 1, 21 e 26 della Carta dell’UE e agli articoli 10 e 19 del
   TFUE, la Commissione favorirà la parità di trattamento delle persone disabili». Tale
   azione – sottolinea il documento in questione – si articolerà su due fronti: «Essa
   si fonderà sulla legislazione attuale dell’UE per assicurare la protezione contro la
   discriminazione nonché sull’attuazione di misure attive destinate a lottare contro
   la discriminazione e a promuovere le pari opportunità nelle politiche dell’UE»; se
   da un lato, quindi, non si può fare a meno di misure di carattere reattivo, dall’altro
   è necessario fare ricorso a misure proattive, che corroborino le spinte inclusive
   presenti nella società europea e intervengano a monte; prima, cioè, che le misure
   antidiscriminatorie – deputate, intrinsecamente, a scattare al cospetto di un qualco-
   sa di patologico – entrino in azione.

   È poi interessante notare come la Strategia faccia cenno al cumulo di possibili cause
   di discriminazione44 e all’opportunità di sostenere «il lavoro delle ONG attive in que-

   40 Così il considerando 12.
   41 Cfr. il considerando 15.
   42 Cfr. il considerando 16.
   43 Sulla Strategia in questione, cfr. D. Hosking, Staying the Course: the European Disability Strategy
   2010-2020, in L. Waddington, G. Quinn, E. Flynn (eds.), European Yearbook on Disability Law, 4, In-
   tersentia, Cambridge, Antwerp, Portland, 2013, pp. 73-98.
   44«La Commissione esaminerà inoltre con attenzione l’effetto cumulativo della discriminazione di cui i
sto settore a livello UE» e riconosca che si tratta di una lotta da combattere – pena
la sconfitta – anche a livello nazionale45.

Il più recente e completo strumento di soft law messo in campo dall’Unione euro-
pea è il Pilastro europeo dei diritti sociali, proclamato a Göteborg nel novembre del
2017. Al di là delle (conpisibili) valutazioni critiche sul documento in questione46,
limitiamoci qui a sottolineare come esso contenga un punto (il n. 17) specificamente
dedicato alle persone in condizione di disabilità. Esso recita che «Le persone con
disabilità hanno diritto a un sostegno al reddito che garantisca una vita dignitosa,
a servizi che consentano loro di partecipare al mercato del lavoro e alla società e a
un ambiente di lavoro adeguato alle loro esigenze»; ma dal nostro punto di vista è
maggiormente rilevante quanto previsto dal punto 3 del Pilastro, ove si prevede
che «A prescindere da sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni persona-
li, disabilità, età o orientamento sessuale, ogni persona ha diritto alla parità di trat-
tamento e di opportunità in materia di occupazione, protezione sociale, istruzione
e accesso a beni e servizi disponibili al pubblico. Sono promosse le pari opportunità
dei gruppi sottorappresentati».



2.3. Le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità e il Consiglio
d’Europa
Non può essere poi trascurata l’azione antidiscriminatoria posta in essere all’interno                 209
del Consiglio d’Europa, avendo riguardo a quanto realizzato a partire dai suoi due
documenti di maggiore importanza, la Carta europea dei diritti sociali e la Conven-
zione europea dei diritti umani.

2.3.1. La Carta sociale europea (1996) e la disabilità
La Carta europea dei diritti sociali, come rilevato in dottrina47, è uno strumento rile-
vante per la tutela dei diritti delle persone con disabilità; esso opera già da anni ed è
dotato di un suo meccanismo di controllo. Va sottolineato che la Carta, sin dalla sua
versione del 1961, contiene una previsione relativa ai diritti delle persone con disabi-


disabili possono soffrire per altre ragioni quali la nazionalità, l’età, la razza o l’etnia, il sesso, la religione,
le convinzioni personali o l’orientamento sessuale».
45 «L’Unione sosterrà e completerà le politiche e i programmi nazionali volti a promuovere l’uguaglian-
za, ad esempio incoraggiando gli Stati membri ad adeguare la loro legislazione in materia di capacità
giuridica in conformità alla Convenzione dell’ONU».
46 Cfr. al riguardo S. Giubboni, L’insostenibile leggerezza del Pilastro europeo dei diritti sociali, in “Politi-
ca del diritto”, 4, 2018, pp. 557-578, e A.O. Cozzi, Perché il Pilastro europeo dei diritti sociali indebolisce
la Carta europea dei diritti fondamentali, in “Quad. cost.”, 2, 2018, pp. 516 ss.; per un inquadramento
complessivo della garanzia dei diritti sociali dopo il summit di Göteborg, cfr. i saggi contenuti in I diritti
sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, numero speciale della rivista “Federalismi.it”,
4/2018, a cura di P. Bilancia.
47 In questi termini G. Palmisano, La protezione dei diritti delle persone con disabilità nella Carta so-
ciale europea, in AA. VV., Scritti in onore di Maria Rita Saulle, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, pp.
1171-1191 (ma cfr. particolarmente p. 1173).
   lità; e – nella sua versione riveduta e corretta del 1996 – contempla un’affermazione
   del principio di non discriminazione48: nella Parte III della della Carta, punto E), si legge
   che «Il godimento dei diritti riconosciuti nella […] Carta deve essere garantito senza
   qualsiasi distinzione basata in particolare sulla razza, il colore della pelle, il sesso, la
   lingua, la religione, le opinioni politiche o ogni altra opinione, l’ascendenza nazionale o
   l’origine sociale, la salute, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la nascita o ogni
   altra situazione». Se si guarda in maniera specifica alla condizione delle persone con
   disabilità, l’art. 15 della Carta, nella sua versione del 199649, afferma che «Per garantire
   alle persone portatrici di handicap l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’inte-
   grazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità, a prescindere dall’età
   e dalla natura ed origine della loro infermità, le Parti si impegnano in particolare: I. ad
   adottare i provvedimenti necessari per somministrare alle persone inabili o minorate
   un orientamento, un’educazione ed una formazione professionale nel quadro del di-
   ritto comune ogni qualvolta ciò sia possibile oppure, se tale non è il caso, attraverso
   istituzioni specializzate pubbliche o private; II. a favorire il loro accesso al lavoro con
   ogni misura suscettibile d’incentivare i datori di lavoro ad assumere ed a mantenere in
   attività persone inabili o minorate in un normale ambiente di lavoro e ad adattare le
   condizioni di lavoro ai loro bisogni o, se ciò fosse impossibile per via del loro handicap,
   mediante la sistemazione o la creazione di posti di lavoro protetti in funzione del grado
   di incapacità. Tali misure potranno giustificare, se del caso, il ricorso a servizi specializ-
   zati di collocamento e di accompagnamento; III. a favorire la loro completa integrazio-
   ne e partecipazione alla vita sociale mediante misure, compresi i presidi tecnici, volte a
210  sormontare gli ostacoli alla comunicazione ed alla mobilità ed a consentire loro di avere
   accesso ai trasporti, all’abitazione, alle attività culturali e del tempo libero».

   Si tratta, con ogni evidenza, di una norma che ha un ampio ambito di applicazione e che
   segna, nelle intenzioni dei suoi estensori, una marcata presa di distanza dall’idea che le
   politiche e i diritti delle persone con disabilità dovessero essere considerati in maniera
   tale da evitare approccio potenzialmente segregativi50.

   Va sottolineato, infine che le previsioni della Carta sociale europea sono garantite da un
   sistema di controllo basato sulla possibilità di sottoporre alla valutazione di un organi-
   smo ad hoc (il Comitato europeo dei diritti sociali) dei reclami collettivi51. Per quanto
   riguarda il rapporto fra Carta sociale europea e ordinamento italiano, val la pena di
   ricordare, per inciso, come in tempi abbastanza recenti la Corte costituzionale abbia
   utilizzato la Carta stessa quale parametro interposto ex art. 117, I comma, Cost.52.

   48 Ibidem.
   49 L’Italia ha dato ratifica ed esecuzione alla Carta sociale europea, nella sua versione riveduta e cor-
   retta, con la l. 30 del 9 febbraio 1999; per l’Italia, la Carta è entrata in vigore il 1° settembre di quello
   stesso anno.
   50 Cfr. L. Waddington, Evolving Disability Policies: From Social-Welfare to Human Rights. An Interna-
   tional Trend from a European Perspective, in “Netherlands Quaterly of Human Rights”, 19, 2001, 2, pp.
   141-165.
   51 V. ancora G. Palmisano, La protezione, cit.
   52 Cfr. al riguardo C. Lazzari, Sulla Carta Sociale Europea quale parametro interposto ai fini dell’art. 117,
   comma 1, Cost.: note a margine delle sentenze della Corte Costituzionale n. 120/2018 e n. 194/2018,
   e G.E. Polizzi, Le norme della Carta sociale europea come parametro interposto di legittimità costitu-
2.3.2. Disabilità, discriminazione e la Convenzione europea sui diritti umani
(1950)
Per quanto concerne il rapporto fra Convenzione europea dei diritti umani e di-
scriminazione nei confronti dei diritti delle persone con disabilità, si può osservare
come, ictu oculi, la Convenzione stessa non contenga, nel suo testo originario, alcun
riferimento alla disabilità se non, marginalmente, all’art. 5 (ove si dispone che «Ogni
persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della li-
bertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: […] e) se si tratta della
detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagio-
sa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; […]»; cor-
sivo aggiunto). Tuttavia, va ricordato che la Convenzione EDU contiene una norma
antidiscriminatoria con un raggio d’azione molto ampio, l’art. 14. La disposizione
in parola statuisce che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella […]
Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare
quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche
o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoran-
za nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»; ancora, il Protocollo
n. 12 prevede che «1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere
assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso,
la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’ori-
gine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la
nascita o ogni altra condizione. 2. Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione             211
da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al paragra-
fo 1». Come emerge dalla lettura delle due norme, esse sono prive di qualsivoglia
riferimento alla condizione delle persone con disabilità. Il loro carattere “aperto”
ha consentito alla Corte europea dei diritti dell’uomo di estenderne la copertura:
l’art. 14 è stato uno strumento molto utile per declinare la protezione della CEDU,
“saldando” la lotta alle discriminazioni cui sono state a lungo sottoposti vari gruppi
sociali, fra cui, appunto, le persone con disabilità53. Nel corpus delle decisioni della
Corte di Strasburgo, circa la tutela dei diritti di questo ultimo gruppo di “soggetti
vulnerabili”54, è agevole inpiduare il primo caso in cui si è utilizzato l’art. 14 CEDU

zionale alla luce delle sentenze Corte costituzionale nn. 120 e 194 del 2018, entrambi in Federalismi,
4/2019.
53 Per un inquadramento complessivo del rapporto fra discriminazioni e giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, v. B. Micolano, Il diritto antidiscriminatorio nella giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, Giuffré, Milano, 2009. In letteratura si è opportunamente messo in
luce come la giurisprudenza sviluppata dalla Corte di Strasburgo a partire dall’art. 14 CEDU abbia mes-
so in luce le quattro perse facce della substantive equality (ovvero, le sue quattro perse dimensioni:
distributiva, ricognitiva, partecipativa, trasformativa): v. a tal proposito S. Fredman, Emerging from the
Shadows: Substantive Equality and Article 14 of the European Convention on Human Rights, in “Human
Rights Law Review”, 16, 2016, 2, pp. 273-301.
54 V. al riguardo L. Peroni, A. Timmer, Vulnerable Groups: The Promise of an Emerging Concept in
European Human Rights Convention Law, in “International Journal of Constitutional Law”, 11, 2013, 4,
pp. 1056-1085; per un’analisi specificamente dedicate alla qualifica delle persone con disabilità come
‘”soggetti vulnerabili” nel quadro dell’operato della Corte EDU, v. volendo M.G. Bernardini, Vulnera-
   come strumento di protezione dei diritti delle persone con disabilità: si tratta della
   decisione Glor c. Svizzera, del 2009.

   Essa è di particolare rilevanza poiché – come sottolineato in sede di commento – è
   una decisione che segna una triplice “prima volta”: non solo, infatti, si tratta del
   primo frangente in cui l’art. 14 della Convenzione EDU viene utilizzato per tutelare
   la condizione delle persone con disabilità, ma anche si tratta del primo caso in cui
   la CRPD viene utilizzata dalla Corte di Strasburgo nel proprio legal reasoning ed è il
   primo caso in cui viene evocato dalla Corte in questione il concetto di accomoda-
   mento ragionevole55.

   Da ultimo, va ricordato come il Consiglio d’Europa si sia dotato, da qualche anno, di
   strumenti di carattere programmatorio. Nel corso del 2017 è stata presentata una
   Strategia per la tutela dei diritti delle persone con disabilità; essa dovrebbe coprire
   un arco temporale della durata di sei anni. Nel documento in questione, intitolato
   “Human rights: a reality for All - Council of Europe Disability Strategy 2017-2023”,
   si fa riferimento alla “Equality and non-discrimination” come una delle aree di azio-
   ne prioritaria. Al riguardo, il punto 49 della Strategia riconosce l’eguaglianza quale
   motivo di fondo della tutela della condizione giuridica delle persone con disabilità
   e colloca il contrasto alle discriminazioni basate sulla disabilità in un contesto più
   complesso56, ponendolo in relazione con altre condizioni personali (la minore età e
   il genere); sotto quest’ultimo profilo, va messo in risalto come il contrasto alle discri-
212  minazioni multiple sia uno dei cross-cutting themes della Strategia in parola57. Dal
   momento che azioni e misure aventi carattere discriminatorio pregiudicano il pieno

   bilità e disabilità a Strasburgo: il «vulnerable groups approach» in pratica, in “Ars Interpretandi”, 7,
   2018, 2, pp. 77-94. Sul rapporto fra vulnerabilità e art. 14 CEDU, in particolare, cfr. O.M. Arnadóttir,
   Vulnerability under Article 14 of the European Convention on Human Rights. Innovation or Business as
   Usual?, in “Oslo Law Review”, 2017, 4.
   55 Cfr., sul caso in questione, J. Stavert, Glor c. Switzerland: Article 14 ECHR, Disability and Non-Dis-
   crimination, in “Edinburgh Law Review”, 14, 2010, 1, pp. 141-146. Per una ricostruzione complessiva
   del rapporto fra ordinamento del Consiglio d’Europa e CRPD, cfr. A. Broderick, The United Nations
   Convention on the Rights of Persons with Disabilities and the European Convention on Human Rights:
   A Tale of Two Halves or a Potentially Unified Vision of Human Rights, in “Cambridge Int. L. J.”, 7, 2019,
   2, pp. 199-224 e S. Favalli, The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities in
   the Case Law of the European Court of Human Rights and in the Council of Europe Disability Strategy
   2017-2023: “from Zero to Hero”, in “Human Rights Law Review”, 18, 2018, 3, pp. 517-538.
   56 «Equality is a core principle of all human rights and fundamental freedoms. It is guaranteed to
   everyone in the European Convention on Human Rights, the European Social Charter, the UNCRPD (Ar-
   ticle 5) and other regional and international human rights treaties and related documents. The work
   on equality and non-discrimination includes focus on gender equality (UNCRPD, Article 6) and on the
   rights of children with disabilities (UNCRPD, Article 7)».
   57 Al punto 42 della Strategia si afferma che «Many persons with disabilities are at risk of multiple
   and/or intersecting forms of discrimination and segregation from the society due to their specific situ-
   ations (e.g. financial or educational status, living or housing arrangement, level of assistance needed,
   disability or combination of multiple disabilities, etc.) or to certain grounds (e.g., race, colour, sex, lan-
   guage, religion, political or other opinion, national, ethnic or social origin, property, birth, age, sexual
   orientation, gender identity or other status). This Strategy attributes attention to the application of the
   non-discrimination principle across all priority areas».
ed eguale godimento dei diritti, la Strategia traccia sei linee d’azione per impedire
che ciò accada. Si tratta delle azioni di promozione del mainstream dell’uguaglianza
e della discriminazione, dell’irrobustimento dell’azione di monitoraggio e controllo
da parte degli organismi del Consiglio d’Europa, della promozione d’uguaglianza e
non discriminazione tramite i sistemi educativi, della raccolta di dati ed evidenze
statistiche in grado di consentire l’inpiduazione di sacche di discriminazione e dise-
guaglianza, del supporto per l’istituzione e il rafforzamento di strutture di controllo
e contrasto a livello nazionale e della messa a fuoco, dello studio e della dissemina-
zione di buone pratiche di contrasto a discriminazioni e condizioni di ineguaglianza.

Il sistema antidiscriminatorio del Consiglio d’Europa, quindi, si pone – è stato os-
servato – come una sorta di “campo gravitazionale” ulteriore rispetto al sistema
di tutela posto in essere in seno all’Unione europea58; ma entrambi i meccanismi
presuppongono un’azione decisa, di fondamentale importanza, da parte dei singoli
Stati; ed è quindi il momento di prendere in considerazione, in maniera sintetica, la
disciplina italiana di contrasto alle discriminazioni nei confronti delle persone con
disabilità.



2.4 La lotta alle discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità e
l’ordinamento italiano
L’ordinamento italiano, a partire dal testo costituzionale, afferma con chiarezza e             213
forza l’incompatibilità fra l’assetto delineato dalla nostra forma di stato ed eventuali
discriminazioni fondate sulla disabilità; come vedremo in maniera più dettagliata in-
fra, l’art. 3 della Costituzione del 1948 e il principio d’eguaglianza lì scolpito danno a
legislatore ed operatori del diritto, complessivamente considerati, indicazioni chiare
ed inequivocabili sulla direzione da seguire; e a quanto statuito dall’art. 3 Cost. va
poi ad aggiungersi quel che dispone l’art. 2 della Carta costituzionale, sia sotto il
profilo del primato della persona umana, sia sotto il profilo dell’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà. Se – come è stato acutamente rilevato – l’inclu-
sione sociale delle persone con disabilità si profila quale vero e proprio “imperati-
vo costituzionale”59, si può ben sostenere che uno dei suoi corollari è la presenza,
all’interno dell’ordinamento, di misure che consentano una rimozione tempestiva
ed efficace, per via giurisdizionale, di condotte e situazioni fattuali che si pongano in
contrasto con questa spinta inclusiva. L’Italia si è quindi dotata, a partire dal 2006,
di una disciplina ad hoc, avente proprio tali finalità: si tratta della legge n. 67 del 1°

58 È questa la suggestiva immagine utilizzata da Gerard Quinn con riferimento al contrasto alle di-
scriminazioni da parte del sistema della CSE e del diritto euro-unitario: cfr. G. Quinn, The European
Social Charter and EU Anti-discrimination Law in the Field of Disability: Two Gravitational Fields with
One Common Purpose, in G. de Búrca, B. de Witte, L. Ogertschnig (eds.), Social Rights in Europe, OUP,
Oxford, 2005, pp. 279-304.
59 Così C. Colapietro, L’inclusione sociale delle persone con disabilità: un imperativo costituzionale, in
“Non profit”, 2, 2011, pp. 11-34.
   marzo 2006, recante “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità
   vittime di discriminazioni”60.

   La legge in questione – a lungo attesa – intende promuovere, nel solco tracciato dal
   già evocato art. 3 Cost., «la piena attuazione del principio di parità di trattamento e
   delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità di cui all’articolo 3
   della legge 5 febbraio 1992, n. 104, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento
   dei loro diritti civili, politici, economici e sociali» e dichiara che «il principio di parità
   di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in
   pregiudizio delle persone con disabilità» (art. 2, I comma). Di seguito, il testo legisla-
   tivo – composto da soli 4 articoli – va a definire la nozione di discriminazione diretta
   (art. 2, II comma: «Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla
   disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sa-
   rebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga») e indiretta (ibidem,
   III comma: «Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una
   prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una
   persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.»),
   andando poi a ricondurre al novero delle discriminazioni anche «le molestie ovvero
   quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità,
   che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un
   clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti». Dal punto
214  di vista processuale, va rilevato come la legge de qua, a partire da una novella del
   2011, faccia rinvio, per quel che riguarda il giudice competente, a quanto previsto
   dall’art. 28 del d. lgs. 150/2011. All’art. 4 – si dispone che siano legittimate ad agire,
   su delega della persona discriminata, anche «le associazioni e gli enti inpiduati con
   decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e
   delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organiz-
   zazione». Ma su alcuni di questi profili si tornerà nei paragrafi che seguono.



   3. Tutela antidiscriminatoria e diritto all’istruzione delle persone con
     disabilità
   3.1 Premessa: il diritto all’istruzione delle persone in un quadro multilivello
   Il diritto all’istruzione è di particolare interesse, per quanto concerne i più generali
   profili relativi all’inclusione sociale delle persone con disabilità. Come vedremo, nel
   nostro ordinamento tale diritto è stato utilizzato quale volano per l’attivazione di più
   ampie (e costituzionalmente dovute) dinamiche di carattere inclusivo61.

   60 Per un commento al testo legislativo in questione, cfr. A.D. Marra, La tutela contro la discrimina-
   zione dei disabili in Italia: legge n. 67 del 2006, in “Diritto di famiglia e delle persone”, 4, 2008, pp.
   2162-2194.
   61 Cfr. Colapietro, Diritti..., cit., pp. 34 e ss. Per una ricostruzione esaustiva del processo di integrazione
   e inclusione scolastica in Italia, in una prospettiva giuridica, v. S. Troilo, Tutti per uno o uno contro tutti?
Nella logica multilivello sin qui adottata, la norma di riferimento relativa al diritto
all’istruzione in ambito internazionale è l’art. 24 della CRPD. In precedenza, non
erano mancate disposizioni di soft law relative al diritto all’istruzione62, che però, in
quanto tali, erano prive del carattere della vincolatività.

La disposizione in questione si apre con la statuizione che «Gli Stati Parti riconosco-
no il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale di-
ritto senza discriminazioni e su base di pari opportunità, gli Stati Parti garantiscono
un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo
tutto l’arco della vita». Di seguito, si precisa che le finalità dei sistemi educativi, con
riferimento alla condizione delle persone con disabilità devono essere «[il] pieno
sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima ed al rafforza-
mento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della persità uma-
na», «[lo] sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità,
dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino
alle loro massime potenzialità» e «[il] porre le persone con disabilità in condizione
di partecipare effettivamente a una società libera». La norma in questione delinea
poi ulteriori obbligazioni e accorgimenti che gli Stati parti dovranno porre in essere
per garantire il diritto in questione63.

A livello dell’Unione europea, la tutela del diritto all’istruzione delle persone con
disabilità deve fare i conti con il fatto che quello dell’educazione è un ambito nel
quale – ai sensi dei Trattati – l’Unione europea dispone di prerogative significativa-              215
mente meno incisive rispetto a quelle inerenti ad altri settori: l’art. 6 del TFUE, di-
fatti, dispone che «L’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere,
coordinare o completare l’azione degli Stati membri. I settori di tali azioni, nella loro
finalità europea, sono i seguenti: a) tutela e miglioramento della salute umana; b)
industria; c) cultura; d) turismo; e) istruzione, formazione professionale, gioventù
e sport; f) protezione civile; g) cooperazione amministrativa”; di seguito, l’art. 165
TFUE afferma che l’UE ha un ruolo di supporto, coordinamento e completamento;
essa deve agire “incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario,
sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli
Stati membri per quanto riguarda il con tenuto dell’insegnamento e l’organizzazione
del sistema di istruzione».



Il diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica dei disabili nella crisi dello stato sociale, Giuffré,
Milano, 2012
62 Lo sottolinea D. Ferri, Inclusive Education in Italy: A Legal Appraisal 10 Year after the Signature of
the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in “Ricerche di Pedagogia e Didattica –
Journal of Theories and Research in Education”, 12, 2017, 2, pp. 1-21.
63 Per un commento all’art. 24, si rimanda a V. Della Fina, Article 24 [Education], in V. Della Fina, R.
Cera, G. Palmisano (a cura di), The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities
cit., pp. 439-470; e a G. De Beco, The Right to Inclusive Education According to Article 24 of the UN
Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in “Netherlands Quaterly of Human Rights”, 32,
2014, 2, pp. 263 ss.
   Possiamo qui limitarci a sottolineare come il diritto dell’istruzione delle persone con
   disabilità, a livello euro-unitario, sia da inquadrare tenendo presenti non solo lo
   hard law, ma anche una serie di documenti riconducibili al soft law64; da ultimo,
   il Pilastro europeo dei diritti sociali, già evocato, prevede, al suo primo punto, che
   «Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento
   permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che
   consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le tran-
   sizioni nel mercato del lavoro».

   Per quel che riguarda quanto previsto in seno al Consiglio d’Europa, va sottolineato
   che non mancano decisioni relative al diritto all’istruzione né all’interno del corpus
   delle decisioni della Corte europea dei diritti umani, né nel novero dei casi presi
   in esame dal Comitato europeo dei diritti sociali. Per quanto riguarda la Corte di
   Strasburgo65, la condizione delle persone con disabilità e le relative discriminazioni
   circa il diritto all’istruzione sono state scrutinate, a onor del vero, in un numero non
   particolarmente elevato di casi. La valutazione della Corte si è appuntata, in alcune
   occasioni, su quanto previsto dall’art. 2 del I Protocollo (ove si statuisce che «Il dirit-
   to all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle fun-
   zioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il
   diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo
   le loro convinzioni religiose e filosofiche»), in combinato disposto con quanto deli-
   neato dall’art. 14 CEDU.
216
   I casi affrontati dalla Corte EDU, come anticipato, non sono stati numerosi66, ma va
   ricordato come la Corte abbia comunque modo di leggere il diritto all’istruzione alla
   luce di quanto previsto dalla CRPD; in alcuni casi, la Corte EDU ha affermato che –
   per quanto riguarda il nostro peculiare ambito di interesse – le autorità nazionali
   sono nella posizione migliore per valutare le scelte necessarie per l’edificazione di
   un sistema educativo inclusivo67. In tempi recenti, peraltro, la giurisprudenza della

   64 Cfr. al riguardo, volendo, P. Addis, Il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Profili sostan-
   ziali e giurisprudenziali, in E. Catelani, R. Tarchi (a cura di), I diritti sociali nella pluralità degli ordina-
   menti, ESI, 2015, pp. 149-176.
   65 Cfr. B. Andò, Alla ricerca di un “contenuto minimo” del diritto all’istruzione del disabile fra giurispru-
   denza nazionale e corte EDU, in “Comparazione e diritto civile”, 2012.
   66 Per una rassegna sistematica delle decisioni della Corte di Strasburgo, si veda il report messo a
   disposizione dalla Corte stessa e intitolato Guide on Article 2 of Protocol No. 1 to the European Conven-
   tion on Human Rights – Right to Education, disponibile online all’indirizzo https://www.echr.coe.int/
   documents/guide_art_2_protocol_1_eng.pdf (accesso effettuato il 26 novembre 2019).
   67 Cfr. ad esempio Çam v. Turkey (Application no. 51500/08): «The Court is not unaware that every
   child has his or her specific educational needs, and this applies particularly to children with disabilities.
   In the educational sphere, the Court acknowledges that reasonable accommodation may take a variety
   of forms, whether physical or non-physical, educational or organisational, in terms of the architectural
   accessibility of school buildings, teacher training, curricular adaptation or appropriate facilities. That
   being the case, the Court emphasises that it is not its task to define the resources to be implemented
   in order to meet the educational needs of children with disabilities. The national authorities, by reason
   of their direct and continuous contact with the vital forces of their countries, are in principle better
   placed than an international court to evaluate local needs and conditions in this respect» (§ 66; corsivo
Corte europea dei diritti umani pare aver adottato un approccio di minore apertura
rispetto al passato. Nel caso Dupin c. Francia68 – come rilevato in dottrina69 – la Cor-
te pare abbandonare alcuni approdi prima raggiunti circa la garanzia della disponi-
bilità di sistemi educativi inclusivi, non tenendo più in debita considerazione quanto
postulato dalla Convenzione ONU: «[…] nel caso Dupin, non solo non vi è alcun
riferimento a tali criteri ispiratori, ma in più di un passaggio si svela l’ancoraggio
all’idea, ormai superata, per cui deve essere, ancora una volta, il soggetto “fragile”
ad adattarsi all’ambiente, tradendo, così, il richiamo ad una concezione di disabilità
davvero risalente, di tipo prettamente medico-clinico, che ignora completamente la
dimensione socio-culturale e ambientale di tale condizione»70. Ancor più di recente,
una simile prospettiva, di minore tutela, ha trovato un’ulteriore conferma nel caso
Stoian c. Romania71.

Per quel che concerne l’operato del Comitato europeo dei diritti sociali, si può ricor-
dare come sia stata considerato in contrasto con l’art. 15 della CSE il sistema educa-
tivo belga, con particolare riferimento alla sua componente in lingua fiamminga72.
Nel caso di specie, il Comitato ha ritenuto, all’unanimità, che l’assenza di un rimedio
giudiziale al possibile rifiuto, da parte dell’autorità scolastica di iscrivere un alun-
no o un’alunna con disabilità a una classe del sistema di istruzione comune sia in
contrasto con la disposizione della CSE appena citata. Inoltre – a maggioranza – ha
stabilito che le scelte del sistema educativo belga sono, in base a quanto esposto,
discriminatorie, ponendosi in contrasto con l’art. 15 CSE letto alla luce dell’art. E).
                                                        217
Tali disposizioni vanno anche contro l’art. 17 § 2 della CSE (ove si dispone che «Per
assicurare ai bambini ed agli adolescenti l’effettivo esercizio del diritto di crescere in
un ambiente favorevole allo sviluppo della loro personalità e delle loro attitudini fisi-
che e mentali, le Parti s’impegnano a prendere sia direttamente sia in cooperazione
con le organizzazioni pubbliche o private tutte le misure necessarie e appropriate
miranti: [...] 2. ad assicurare ai bambini ed agli adolescenti un insegnamento prima-
rio e secondario gratuito, favorendo una regolare frequentazione scolastica»), tanto
letto come norma a sé, quanto letto in combinato disposto con l’art. E della CSE.

Da ultimo, va ricordato che la già citata Strategia del Consiglio d’Europa per il pe-
riodo 2017-2023 specifica che «Quality education, including human rights educa-
tion, is a prerequisite for persons with disabilities to enjoy human rights on an equal
basis with others. This also includes early childhood and family support» e che «In

aggiunto).
68 Cfr. Dupin c. Francia (dec.), no. 2282/17, 18 dicembre 2018
69 Cfr. G. Matucci, Il caso Dupin all’esame della Corte Edu: un passo indietro per il diritto all’istruzione
inclusiva?, in “Quad. cost.”, 2, 2019, pp. 476-478; v. anche J. Lievens, M. Spinoy, Dupin v. France: the
ECtHR going Old School in its Appraisal of Inclusive Education?, 11 febbraio 2019, in https://strasbour-
gobservers.com/ (accesso effettuato il 26 novembre 2019).
70 In questi termini G. Matucci, Il caso Dupin, cit., p. 478.
71 V. Corte EDU, IV sezione, Stoian c. Romania (Application no. 289/14), 25 giugno 2019.
72 Il caso cui si riferimento è il n. 109/2014, Mental Disability Advocacy Center (MDAC) c. Belgio; la
decisione al riguardo è stata resa pubblica il 4 giugno 2018.
   the context of the Council of Europe, this means improved access for persons with
   disabilities to information, education and training programmes and events about
   human rights and their implementation. This also means inclusion of persons with
   disabilities as actors and users in education» (cfr. i §§ 44-45 della Strategia).



   3.2 Il diritto all’istruzione e la condizione di disabilità fra legislatore e giudici:
   l’ordinamento italiano
   Un possibile punto di partenza, per l’inquadramento del diritto all’istruzione delle
   persone con disabilità, può essere dato dalla constatazione che il sistema scolastico
   italiano è stato a lungo impermeabile rispetto alle istanze di tutela dei diritti delle
   persone in una condizione di disabilità: come sottolineato in letteratura, «[…] è solo
   a partire dagli anni Settanta che la riflessione sul sistema scolastico si apre a questio-
   ni sociali quali la selezione classista effettuata all’interno delle scuole e la garanzia
   dei soggetti persamente abili»73.

   Se si guarda al diritto positivo, il primo passo per la costruzione di un sistema sco-
   lastico inclusivo venne compiuto con la l. 118/1971 (“Conversione in legge del de-
   creto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi
   civili”), ove si disponeva, all’art. 28, II comma, che «L’istruzione dell’obbligo deve
   avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano
218  affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da im-
   pedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette
   classi normali»74. Qualche anno dopo, con la l. 517/1977 (“Norme sulla valutazione
   degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modi-
   fica dell’ordinamento scolastico”), si passò all’abolizione delle classi differenziali in
   tutte le scuole di ogni ordine e grado (art. 7), prevedendo «[…] forme di integrazione
   e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante l’u-
   tilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella
   scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione, che ne facciano
   richiesta, entro il limite di una unità per ciascuna classe che accolga alunni portatori
   di handicaps e nel numero massimo di sei ore settimanali», oltre a un limite massi-
   mo di alunni per le classi con la presenza di alunni o alunne con disabilità («Le classi
   che accolgono alunni portatori di handicaps sono costituite con un massimo di 20
   alunni»). In tali classi devono essere assicurati la necessaria integrazione speciali-
   stica, il servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le
   rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative

   73 Così L. Giani, Diritti sociali e la sfida della crisi economica. Equità ed eguaglianza nel diritto all’i-
   struzione dei soggetti persamente abili, in AA. VV., Studi in onore di Claudio Rossano, vol. II, Jovene,
   Napoli, 2013, pp. 663-706; il passo qui citato è a p. 675.
   74 La disposizione in questione è stata abrogata dalla l. 104/1992; peraltro, come giustamente sotto-
   lineato, si trattava di una disciplina che da un lato poneva l’accento sull’assolvimento dell’obbligo sco-
   lastico, piuttosto che su una tensione inclusiva; dall’altro, restava immutata la condizione degli alunni
   con disabilità grave: cfr. S. Nocera, Il diritto alla partecipazione scolastica, Key, Vicalvi, 2015, p. 15.
disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scola-
stico distrettuale. La materia, attualmente, è disciplinata, nelle sue linee essenziali,
dalla l. 104/1992 (“Legge quadro sull’handicap”), più volte novellata; nel testo legi-
slativo appena menzionato si statuisce, all’art. 12, I comma, che «Al bambino da 0
a 3 anni handicappato è garantito l’inserimento negli asili nido»; immediatamente
dopo, si afferma che «È garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della perso-
na handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni
scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie». Al III e al IV com-
ma si dice che «L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle poten-
zialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle
relazioni e nella socializzazione» e che «L’esercizio del diritto all’educazione non può
essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle
disabilità connesse all’handicap». Come detto, si tratta di una materia su cui si sono
registrati svariati interventi da parte del legislatore; si pensi, da ultimo, a quanto
disposto dalla riforma sulla c.d. “Buona scuola” (l. 107/2015), cui ha recentemente
dato un ulteriore attuazione il d. lgs. 96/2019, che è andato a integrare e modificare
quanto già disposto dal d. lgs. 66/2017.

A quanto sino a ora esposto deve poi aggiungersi quanto statuito dai legislatori re-
gionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Alla luce di quanto disposto
dall’art. 117 della Costituzione e dall’assetto competenziale da esso definito, si trat-
ta di una disciplina che al momento presenta limitate potenzialità di differenzia-
                                                        219
zione; ma, come recentemente sottolineato in dottrina75, si tratta di un ambito sul
quale pro futuro potrebbero incidere le dinamiche centrifughe conseguenti all’avvio
di percorsi di regionalismo differenziato ex art. 116, III comma, Cost.

Passando dal formante legislativo a quello giurisprudenziale, va rimarcato come non
siano mancati, in questo settore, importanti interventi da parte della giurispruden-
za, sia costituzionale, sia di merito, sia amministrativa, impossibile da richiamare
in questa sede se non per sommi capi; ma vale la pena di soffermarsi, per la loro
rilevanza sistematica, su alcuni profili che emergono dalla lettura della giurispru-
denza del Giudice delle leggi. È assai nota, nel panorama delle pronunce rese dalla
Consulta, la sentenza 215/1987; essa, infatti, ha consentito alla Corte di chiarire
alcuni importanti concetti relativi alla condizione giuridica della persona con
disabilità in una prospettiva costituzionalmente orientata. La questione sottoposta
allo scrutinio della Consulta riguardava la compatibilità con il dettato costituzionale
di una disposizione della già menzionata l. 118/1971. In particolare, si dubitava
della conformità a Costituzione di quanto previsto dal III comma dell’art. 28, ove si
diceva che la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed
universitarie dovesse essere solamente “facilitata”.


75 Cfr. C.B. Ceffa, L’inclusione scolastica nelle prospettive di attuazione del regionalismo differenziato,
in G. Matucci (a cura di), Diritto all’istruzione e inclusione sociale. La scuola “aperta a tutti” alla prova
della crisi economica, Franco Angeli, Milano, 2019, pp. 245-259.
   La Corte, con una sentenza additiva di principio, ha affermato l’incostituzionalità
   della normativa de qua, giacché essa avrebbe dovuto delineare una garanzia della
   frequenza scolastica delle persone con disabilità. Ma è da sottolineare che la Con-
   sulta, con la decisione in questione, ha evidenziato come fosse «ormai superata
   in sede scientifica la concezione di una radicale irrecuperabilità [delle persone con
   disabilità]», e che «l’inserimento e l’integrazione nella scuola ha fondamentale im-
   portanza al fine di favorire il recupero di tali soggetti». Ciò perché «La partecipazio-
   ne al processo educativo con insegnanti e compagni normodotati costituisce […] un
   rilevante fattore di socializzazione e può contribuire in modo decisivo a stimolare le
   potenzialità dello svantaggio, al dispiegarsi cioè di quelle sollecitazioni psicologiche
   atte a migliorare i processi di apprendimento, di comunicazione e di relazione attra-
   verso la progressiva riduzione dei condizionamenti indotti dalla minorazione» (così
   il punto 5 del “considerato in diritto”).

   Di seguito, si rimarcava che sul tema della condizione giuridica del portatore di han-
   dicap «confluiscono un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi
   ispiratori del disegno costituzionale: e che, conseguentemente, il canone ermeneu-
   tico da impiegare in siffatta materia è essenzialmente dato dall’interrelazione e in-
   tegrazione tra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela. Statuendo
   che «la scuola è aperta a tutti», e con ciò riconoscendo in via generale l’istruzione
   come diritto di tutti i cittadini, l’art. 34, primo comma, Cost. pone un principio nel
   quale la basilare garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo «nelle formazioni sociali
220
   ove si svolge la sua personalità» apprestata dall’art. 2 Cost. trova espressione in
   riferimento a quella formazione sociale che è la comunità scolastica. L’art. 2 poi, si
   raccorda e si integra con l’altra norma, pure fondamentale, di cui all’art. 3, II comma,
   che richiede il superamento delle sperequazioni di situazioni sia economiche che
   sociali suscettibili di ostacolare il pieno sviluppo delle persone dei cittadini» (punto
   6 del “considerato in diritto”).

   Si tratta, quindi, di un’impostazione che consente di contestualizzare la condizione
   delle persone con disabilità in un ambito valoriale nel quale la vis expansiva dei
   principi fondanti del nostro ordinamento ha modo di dispiegarsi in tutta la loro ric-
   chezza, anche al di là della necessità di tutelare un particolare diritto, inerente a una
   particolare formazione sociale (quella scolastica, appunto): ciò prelude a una più
   ampia tensione alla socializzazione, nelle varie situazioni e nei vari frangenti della
   vita quotidiana. La persona con disabilità e i suoi diritti, quindi, vanno quindi inqua-
   drati in linea con l’idea di homme situé; concetto, quest’ultimo che – come rilevato
   in dottrina – «costituisce uno dei tratti caratterizzanti dell’art. 2 della Costituzione
   italiana»76. Non è difficile intuire come questa impostazione consenta di conciliare,

   76 Lo sottolinea P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018, p.
   146. Del resto, è stato anche rilevato che «nella terza fase della costituzionalizzazione dei diritti dell’uo-
   mo si assiste […] al fenomeno definito da Bobbio quale specificazione dei diritti dell’uomo, una molti-
   plicazione delle situazioni giuridiche soggettive avvenuta in conseguenza dell’incremento della quanti-
   tà di beni considerati meritevoli di essere tutelati, della estensione della titolarità di alcuni tipici diritti
senza difficoltà, l’impostazione postulata dall’affermarsi del paradigma del modello
sociale della disabilità e la spinta verso la definitiva eliminazione del modello medi-
co. Si può, sin dal 1987, pensare a questa tensione verso il modello sociale come a
una dinamica costituzionalmente orientata; e ciò ben prima che iniziassero i nego-
ziati per l’elaborazione della CRPD.

Come rilevato in dottrina, dalla lettura delle parole della Corte costituzionale emer-
ge una chiara apertura politico-culturale nei confronti verso un’effettiva garanzia dei
diritti delle persone con disabilità, vòlta a sottolineare, in una società complessa e
dinamica, la centralità dell’integrazione (sociale) delle persone come presupposto
indefettibile della cittadinanza77. Negli anni più recenti, la Corte è tornata sul diritto
all’istruzione e la condizione di disabilità, con riferimento al numero di ore di dispo-
nibilità dell’insegnante di sostegno (sent. 80/2010)78 e con riferimento al trasporto
scolastico (sent. 275/2016)79. Le due decisioni appena richiamate hanno consentito
alla Consulta di affermare che il diritto in parola, come riconosciuto a livello nazio-
nale e internazionale (in particolare, dal già citato art. 24 CRPD) «si configura come
un diritto fondamentale», dotato di un «nucleo indefettibile» sottratto alla disponi-
bilità del legislatore (punto 4 del “considerato in diritto”, sent. 80/2010) e che, una


a soggetti persi dall’uomo, in quanto l’uomo stesso non è stato più considerato come ente generico,
o uomo in astratto, ma è stato visto nella poliedricità delle situazioni che lo vedono assumere rilievo
in seno alla società quale minore, anziano, disabile»: così L. Mezzetti, I nuovi diritti, in Id. (a cura di),
                                                           221
Diritto costituzionale. Casebook, Maggioli editore, Rimini, 2013, p. 584.
77 In questo senso C. Colapietro, Una scuola «aperta» a tutti e a ciascuno: la scuola inclusiva ai tempi
della crisi, in G. Matucci (a cura di), op. cit., pp. 11-32 (ma particolarmente v. p. 19). Sul punto, l’A. in
questione fa espresso riferimento a quanto illustrato da A. Valastro, Le vicende giuridiche dell’handicap
e la «società dell’informazione». Vecchie conquiste e nuove insidie per la Corte costituzionale, in A.
Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale – Nell’esperienza della rivista “Giurispru-
denza costituzionale” per il cinquantesimo anniversario, Giuffré, Milano, 2006, pp. 989-1020.
78 Per un commento, cfr. F. Madeo, Insegnante di sostegno: possibile la presenza per tutte le ore di
sostegno dello studente disabile grave, in “Giur. cost.”, 2010, pp. 1831 ss.; A. Pirozzoli, La discreziona-
lità del legislatore nel diritto all’istruzione del disabile. Nota a Corte cost. 80 del 2010, in “Rivista AIC”,
2010; C.S. Vigilanti, Il diritto all’istruzione dei disabili come paradigma della tutela dei diritti sociali, in
“Forum di Quaderni costituzionali-Rassegna”, 7 marzo 2012.
79 La sentenza in questione ha suscitato l’attenzione di una serie molto nutrita di commentatori. V.
almeno A. Apostoli, I diritti fondamentali “visti” da vicino dal giudice amministrativo. Una annotazione
a “caldo” della sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, in “Forum di Quaderni costituzionali
– Rassegna”, 11 gennaio 2017; F. Blando, Soggetti disabili e istruzione: la lotta per il diritto, in “Federa-
lismi.it”, 10, 2017; R. Cabazzi, Diritti incomprimibili degli studenti con disabilità ed equilibrio di bilancio
nella finanza locale secondo Corte costituzionale n. 275/2016, in “Le Regioni”, 3, 2017, pp. 593 ss.; L.
Carlassare, Bilancio e diritti fondamentali: i limiti “invalicabili” alla discrezionalità del legislatore, in
“Giur. cost.”, 2016, pp. 2339 ss.; E. Furno, Pareggio di bilancio e diritti sociali: la ridefinizione dei confini
nella recente giurisprudenza costituzionale, in “Consulta online”, Studi 2017/I, pp. 105 ss.; A. Lucarelli,
Il diritto all’istruzione del disabile: oltre i diritti finanziariamente condizionati, in “Giur. cost.”, 2016, pp.
2343 ss.; L. Madau, “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di
questo a condizionarne la doverosa erogazione”. Nota a Corte cost. n. 275/2016, in “Osservatorio co-
stituzionale AIC”, 2017, 1; F. Masci, L’inclusione scolastica dei disabili: inclusione sociale di persone, in
“Costituzionalismo.it”, 2017, 2, pp. 131-177; F. Pallante, Dai vincoli “di” bilancio ai vincoli “al” bilancio,
in “Giur. cost.”, 2016, pp. 2698 ss.; S. Rossi, Limiti di bilancio e diritti fondamentali delle persone con
disabilità – Corte cost. n. 275/2016, in “Persona & Danno”, 5 febbraio 2017.
   volta identificato normativamente un “nocciolo duro” del diritto all’istruzione delle
   persone con disabilità, «il nucleo invalicabile di garanzie minime per render[lo] ef-
   fettivo non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali»
   (punto 11 del “considerato in diritto”, sent. 275/2016). Da ultimo, il carattere fon-
   damentale del diritto all’istruzione delle persone con disabilità è stato confermato
   dalla sent. 89/201980.



   3.2 Diritto all’istruzione e diritto antidiscriminatorio
   Anche il diritto all’istruzione, come sottolineato da un’avvertita dottrina, può tro-
   vare adeguata e pronta tutela grazie all’impiego degli strumenti predisposti dalla
   l. 67/200681. Va preliminarmente osservato che proprio una decisione relativa al
   diritto de quo ha dato origine a perse pronunce, da parte della Corte di Cassazio-
   ne, relative al riparto di competenze fra giudici ordinari e giudici amministrativi. Si
   tratta di una discussione che è partita da una sentenza delle SS. UU. del Supremo
   consesso risalente all’autunno del 201482, ha conosciuto un’ulteriore evoluzione a
   seguito alcune pronunce del Consiglio di Stato83 e ha trovato, almeno per ora, una
   conclusione con una decisione dell’ottobre 201984.

   Con la sentenza appena menzionata, gli ermellini hanno confermato un orienta-
   mento già precedentemente definito: «Nel merito queste Sezioni Unite ritengono di
222  dover confermare e dare continuità alla propria giurisprudenza in materia secondo
   cui, in tema di sostegno all’alunno in situazione di handicap, il “piano educativo
   inpidualizzato”, definito ai sensi della l. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 12, obbliga
   l’amministrazione scolastica a garantire il supporto per il numero di ore programma-
   to, senza lasciare ad essa il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle
   risorse disponibili […]. Quindi, la condotta dell’amministrazione che non appresti il
   sostegno pianificato si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari op-
   portunità nella fruizione del servizio scolastico, la quale, ove non accompagnata dal-
   la corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, con-
   cretizza una discriminazione indiretta, la cui repressione spetta al giudice ordinario.
   Le controversie concernenti la declaratoria della consistenza dell’insegnamento di
   sostegno, ed afferenti alla fase che precede la redazione del piano educativo in-
   pidualizzato, sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi

   80 Per un commento, v. E. Vivaldi, Il diritto all’istruzione delle persone con disabilità: continuità dei
   finanziamenti e tutela del nucleo essenziale del diritto (sent. n. 83/2019), in “Forum di Quaderni costi-
   tuzionali – Rassegna”, 23 settembre 2019.
   81 Cfr. A.D. Marra, Diritto allo studio delle persone con disabilità: diritti umani e norme antidiscrimina-
   zione, in “Intersticios: Revista Sociológica de Pensamiento Crítico”, 8, 2014, 2, pp. 161-183.
   82 Cfr. Cass. civ. SS. UU., sent. 25011 del 25 novembre 2014. Per un commento, cfr. F. Girelli, Quale
   giudice per gli alunni con disabilità?, in Giur. cost., 4, 2015, pp. 1475 ss.
   83 Fra cui Cons. di Stato, Ad. Plen., Sentenza n. 7 del 12 aprile 2016 e Consiglio di Stato, sez. VI, n.
   2023 del 3 maggio 2017.
   84 Cassazione civile sez. un., 08/10/2019, (ud. 16/04/2019, dep. 08/10/2019), n. 25101.
dell’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., atteso che, in tale fase, sussiste ancora, in capo
all’amministrazione scolastica, il potere discrezionale, espressione dell’autonomia
organizzativa e didattica, di inpiduazione della misura più adeguata al sostegno, il
cui esercizio è precluso, invece, dalla successiva formalizzazione del piano suddetto,
che determina il sorgere dell’obbligo dell’amministrazione di garantire il supporto
per il numero di ore programmato ed il correlato diritto dell’alunno disabile all’istru-
zione come pianificata, nella sua concreta articolazione, in relazione alle specifiche
necessità dell’alunno stesso […]» (così il punto 7 della sentenza da ultimo menzio-
nata).

Per quel che riguarda il contrastante orientamento espresso dal Consiglio di Stato,
la Cassazione osserva che «va riportato alla sua reale portata se si tiene conto che i
punti di convergenza fra la giurisprudenza amministrativa e quella delle Sezioni Uni-
te sono tali da far escludere in generale – e specificamente nel caso in esame – una
sostanziale pergenza di opinioni» e che «la pergenza fra la giurisprudenza delle
Sezioni Unite e quella del Consiglio di Stato […] va pertanto circoscritta alle ipotesi
in cui il ricorrente non deduca specificamente “la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno”, ai sensi del comma 3 della L. n. 67 del 2006. Se-
condo il Consiglio di Stato tale norma «prevede una fattispecie tipica devoluta alla
giurisdizione del giudice civile ed ha il suo ambito di applicazione esclusivamente e
tassativamente quando e solo quando l’interessato si rivolge al giudice rappresen-
tando gli elementi di fatto in cui la discriminazione stessa si manifesta» (così i punti
                                                223
8 e 11).

Va rimarcato che si tratta di un ambito in cui la giurisprudenza conosce un’evolu-
zione continua, tale da rendere difficile richiamarne anche solo le linee essenziali;
ad esempio, in tempi assai recenti il Tribunale Amministrativo della Campania ha
chiarito alcuni profili relativi al danno conseguente alla mancata assegnazione degli
insegnanti di sostegno85. Le pronunce che analizzeremo in questa sede, quindi, rap-
presentano solamente una minima frazione di un corpus giurisprudenziale ampio,
variegato e in costante espansione.

Il caso deciso dalla I sezione del Tribunale di Milano il 10 gennaio 2011 scaturisce da
un ricorso ex l. 67/2006 presentato dall’associazione Ledha, assieme ai genitori di
alcuni alunni e alunne con disabilità. Oggetto del ricorso era la decisione di ridurre
sensibilmente le ore di sostegno agli alunni e alle alunne con disabilità per l’anno
scolastico 2010/2011, assunta dal Ministero dell’istruzione e – a cascata – dall’am-
ministrazione scolastica regionale. La scelta era stata giustificata con ragioni connes-
se alla necessità complessiva di ridurre la spesa pubblica; del resto, le stesse Linee
guida per l’integrazione degli alunni con disabilità, pubblicate dal Ministro per l’i-
struzione nel 2009, contenevano delle indicazioni che andavano in quella direzione,
dando seguito a una linea di tendenza, risalente ad alcuni anni prima, concretizzan-


85 Cfr. Tar Napoli, sez. IV, 2 dicembre 2019, n. 5668.
   tesi in una lenta ma evidente erosione degli investimenti in materia di istruzione86.
   L’argomento della necessaria riduzione delle risorse disponibili era stato utilizzato
   anche dalla parte resistente, difesa dall’Avvocatura dello Stato.

   Il giudice milanese, dopo aver ricostruito il sistema delle fonti di tutela del diritto all’i-
   struzione delle persone con disabilità e aver rievocato la già citata sent. 215/1987,
   afferma che «Dal momento che la riduzione delle ore di sostegno agli alunni disa-
   bili ha indubbiamente comportato una contrazione del loro diritto fondamentale
   all’istruzione, la scelta della pubblica amministrazione, finendo per incidere nega-
   tivamente solo sulle situazioni giuridiche soggettive dei disabili, concreta un’illecita
   discriminazione indiretta a loro danno»; sebbene il giudice ordinario non avesse
   alcuna competenza per sindacare l’allocazione delle risorse pubbliche e le scelte
   ricollegate alle esigenze di ridurre la spesa pubblica, esse «non possono essere sem-
   plicisticamente richiamate dall’amministrazione pubblica per giustificare scelte che
   finiscono in concreto per risultare discriminanti e lesive del diritto all’istruzione dei
   disabili rispetto agli studenti non svantaggiati».

   Se si fosse iniziato a ragionare in questi termini, infatti, si sarebbe potuto tranquil-
   lamente ipotizzare che le esigenze di bilancio potessero spingere il legislatore a
   ridurre le ore di insegnamento di sostegno sino a giungere a un sostanziale azze-
   ramento delle stesse (o all’assegnazione di un numero di ore di sostegno tale da
   non arrecare alcun beneficio alla persona con disabilità e alle istituzioni scolastiche
224  coinvolte nella dinamica inclusiva). Si sottolineava inoltre, nella decisione de qua,
   che non rilevava, ai fini della valutazione circa la qualificazione della condotta, un
   intento discriminatorio da parte dell’amministrazione scolastica. Dal momento che
   pareva «innegabile che per effetto della riduzione delle ore di sostegno gli alunni
   disabili [fossero] venuti a trovarsi in una obiettiva situazione di svantaggio rispetto
   a quella degli altri alunni, al punto che – secondo quanto allegato nel ricorso e rife-
   rito da taluni ricorrenti comparsi in udienza - alcuni alunni affetti da disabilità grave
   [erano] di fatto “costretti” a frequentare meno ore di lezione degli altri, proprio per
   l’assenza dell’insegnante di sostegno che la scuola non è in condizione di fornire»,
   il Tribunale non ha potuto che dichiarare la «natura indirettamente discriminatoria
   della scelta amministrativa lamentata dai ricorrenti», ordinando all’amministrazione
   pubblica statale e agli istituti scolastici «la cessazione della condotta discriminatoria
   mediante il ripristino delle ore di sostegno garantite a ciascun alunno disabile nel
   precedente anno scolastico».

   A corroborare l’orientamento evidenziato nella sentenza in questione circa il rap-

   86 Tale propensione – si è osservato – «si va affermando a partire dal 2002 nelle scelte di politica
   legislativa che, attraverso la «leva finanziaria», privilegiano imprescindibili esigenze di risanamento
   del bilancio statale, al cui soddisfacimento si vuole pervenire anche attraverso la riduzione di risorse
   destinate all’integrazione degli alunni e degli studenti portatori di handicap»: v. E. Paparella, Il diritto
   all’integrazione e all’istruzione scolastica dei soggetti persamente abili: una fondamentale declina-
   zione del diritto allo studio nella prassi amministrativa e nelle recenti politiche governative, in AA. VV.,
   Studi in onore di Vincenzo Atripaldi, Jovene, Napoli, 2010, pp. 959-985 (il passo qui citato è a p. 981).
porto fra diritti ed esigenze di bilancio ha provveduto, come abbiamo visto, la Con-
sulta, con la sent. 275/2016. Per converso, va sottolineato come nella sentenza in
esame il diritto all’istruzione delle persone con disabilità sia agganciato non all’art.
34 della Costituzione, bensì all’art. 38. Si tratta di una presa di posizione discutibile,
in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sent. 215/1987.
Non sono mancate, nella giurisprudenza, altre ricostruzioni analoghe: come eviden-
ziato in letteratura, si tratta di un percorso che può condurre a risultati potenzial-
mente regressivi87.

Non sempre, però, i giudici propendono per ricostruzioni lineari, nel valutare la di-
scriminatorietà delle condotte poste in essere dalle istituzioni scolastiche e da co-
loro che le fanno vivere. Un esempio, a tal proposito, è costituito da quanto deciso
dalla I sezione del Tribunale di Catanzaro il 15 gennaio 2013. Nel caso di specie,
il giudizio riguardava una vicenda che aveva come protagonista M., un bambino
con sindrome di Down. Una dirigente scolastica dell’istituto frequentato dal minore
aveva tentato di impedire la partecipazione di M. alle uscite didattiche program-
mate dall’istituto. Ciò, in particolare, tentando di imporre il silenzio sulle attività in
questione a tutti i compagni di classe di M.: quest’ultimo e la sua famiglia dovevano
restare all’oscuro delle gite organizzate dalla scuola. Tuttavia, i compagni di classe
di M. e i loro genitori, colta immediatamente la gravità di una simile consegna del
silenzio, hanno espresso la loro piena solidarietà a M. e ai suoi familiari, dando visi-
bilità alla vicenda.
                                                        225
È evidente come la condotta della dirigente scolastica avesse tutti i requisiti per inte-
grare la fattispecie della discriminazione diretta, visto che M. sarebbe stato trattato
in maniera persa rispetto a tutti i suoi compagni di classe in ragione della sua disa-
bilità. Tuttavia, il giudice ha valutato che la condotta discriminatoria non sussistesse
e ha respinto il ricorso. Ciò perché – come si legge nel provvedimento in questione
– «Mutuando un’espressione di matrice penalistica potrebbe dirsi che il comporta-
mento della dirigente scolastica ha realizzato un mero “tentativo” di discriminazio-
ne, non estrinsecatosi in un’effettiva lesione della sfera giuridica del disabile, con
riferimento all’esercizio del diritto a essere istruito, leso tutt’al più nella propria di-
gnità, risarcibile di per sé con il ricorso agli ordinari strumenti di cognizione».

Come rilevato in dottrina, è ben possibile leggere la vicenda di M. in termini di-
versi, dando una più conpisibile interpretazione estensiva alla disciplina dettata
dall l. 67/2006: «Aderendo ad un’interpretazione alternativa, la dichiarazione [della
dirigente scolastica], certamente nata come discriminazione diretta, nell’arenarsi,
non perde la connotazione discriminatoria, acquisendo piuttosto i contorni di un


87 Come molto opportunamente sottolineato da E. Vivaldi, Il diritto all’istruzione delle persone con
disabilità, cit., pp. 8-9; l’A in questione fa proprie le considerazioni di U. De Siervo, Libertà negative e
positive, in R. Belli (cur.), Libertà inviolabili e persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.
35-40 e di M. Benvenuti, “La scuola è aperta a tutti”? Potenzialità e limiti del diritto all’istruzione, in
“Federalismi.it”, 2018.
   comportamento indesiderato volto ad incidere sulla dignità (come previsto dalla
   clausola di chiusura di cui al comma 4 dell’art. 2, l. n. 67/2006) dello scolaro, ad
   escluderlo a causa della sua condizione dalle iniziative extrascolastiche program-
   mate dall’istituto, ad isolare ed emarginare, ad instillare un senso di autorizzazione
   all’esclusione negli altri allievi evidentemente più esteso e deleterio negli effetti ri-
   spetto alle isolate parentesi legate alle uscite esterne»88. L’approccio qui riassunto, a
   differenza di quello prospettato dal giudicante, pare essere tanto compatibile con il
   dato letterale della norma dettata dalla l. 67/2006, quanto maggiormente aderente
   a quella istanza sistemica di tutela della dignità intrinseca delle persone con disabi-
   lità, ricompresa fra i princìpi fondamentali della Convenzione delle Nazioni unite sui
   diritti delle persone con disabilità89.

   4. Il pieto di discriminazioni fondate sulla disabilità nei luoghi di
      lavoro e l’obbligo di «accomodamento ragionevole» delle posizioni
      lavorative
   4.1. Un quadro d’insieme
   L’ambito lavorativo costituisce uno dei settori in cui l’attenzione alla discriminazione
   delle persone con disabilità è stata maggiore, e dove più di frequente è stato richie-
   sto un intervento giurisprudenziale, sia a livello nazionale, sia nel contesto euro-u-
   nitario. Si tratta – lo si è già rilevato – di un ambito al quale la Convenzione delle
226  Nazioni Unite dedica una disposizione ad hoc, l’art. 27.

   Per quanto concerne l’ordinamento italiano, nel quale il lavoro è posto a fonda-
   mento della Repubblica (art. 1 Cost.), la normativa di riferimento afferisce principal-
   mente a tre ambiti: il primo riguarda le normative-quadro e di settore in materia di
   integrazione sociale delle persone con disabilità, con particolare attenzione all’inse-
   rimento lavorativo, e si compone della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro
   per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) e della
   legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto del lavoro dei disabili), modificata
   e integrata con il d. lgs. 151/2015. Il secondo è costituito dalla normativa di attua-
   zione della Direttiva 2000/78/CE/CE, riguardante il quadro generale per la parità
   di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (il riferimento è
   dunque al d. lgs. 216/2003 e successive modificazioni). Il terzo è dato dallo Statuto
   dei Lavoratori (d. lgs. 20 maggio 1970, n. 300, più volte novellato).

   Una volta delineato tale contesto di riferimento, un primo dato significativo sul quale
   pare opportuno soffermarsi è quello relativo alla legittimazione soggettiva: affinché
   una persona possa avvalersi della tutela antidiscriminatoria all’interno del contesto

   88 Così N. Bruzzi, La discriminazione fondata sulla disabilità: il principio di dignità come lente trifocale,
   in “Responsabilità civile e previdenza”, 3, 2013, pp. 931-955; il passo qui riportato è a p. 942.
   89 In questo senso, appunto, N. Bruzzi, La discriminazione fondata sulla disabilità, cit.; su dignità e
   disabilità, v., in una prospettiva persa, S. Graumann, Human Dignity and People with Disabilities, in
   M. Düwell, J. Braarvig, R. Brownsword, D. Mieth (eds.), The Cambridge Handbook of Human Dignity,
   Cambridge University Press, Cambridge, 2014, pp. 484-491.
euro-unitario, è infatti necessario che la sua condizione personale possa essere ri-
compresa all’interno della definizione di disabilità elaborata dalla Corte di Giustizia
dell’Unione europea, in applicazione della Direttiva 2000/78/CE. A tal riguardo, pre-
me mettere in rilievo due significativi aspetti. In primo luogo, va rammentato che
le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione impongono che sia data
un’autonoma ed uniforme interpretazione del concetto nell’intero ambito dell’U-
nione europea, indipendentemente dal fatto che la disabilità sia certificata o meno
in base alla normativa interna. Ne consegue che, ad esempio, per l’ordinamento
italiano non rilevano i criteri e le certificazioni stabiliti dalla legge 68/1999 e dalla
legge 104/1992, sicché potrà darsi il caso che una persona sia disabile ai sensi della
normativa nazionale, ma non sia disabile in base all’orientamento della Corte di
Giustizia; in tal caso, la Direttiva 2000/78/CE non troverà applicazione.

Il secondo aspetto degno di nota riguarda il fatto che la Direttiva 2000/78/CE non
contiene alcuna espressa definizione della disabilità; la Corte di Giustizia riveste
dunque un ruolo significativo non solo nel mettere a fuoco i margini di applicazione
del concetto di cui si discute, ma anche nella sua stessa elaborazione. Pertanto,
vista l'importanza della Corte di Giustizia nell’inpiduare i confini di un concetto
altamente indeterminato – in quanto storicamente e geograficamente relativo –
come quello di “disabilità”, per stabilire quali siano gli elementi caratterizzanti la
tutela antidiscriminatoria delle persone con disabilità nel contesto lavorativo appare
senz’altro utile ripercorrere brevemente il percorso giurisprudenziale seguìto finora
in tema di discriminazioni fondate sulla disabilità nei luoghi di lavoro.                     227

A tal riguardo, è fondamentale rimarcare un dato: come si avrà modo di verificare,
la terminologia rinvenibile nelle fonti normative ed utilizzata dalle Corti spesso non
è adoperata in modo coerente, né vi è la possibilità di riferirvisi facendo appello
ad una costanza terminologica, che talvolta costituisce un canone ermeneutico che
soccorre l’interprete. Questa varietà, da un lato appare pressoché inevitabile lad-
dove rispecchia l’evoluzione e la stratificazione delle classificazioni di disabilità che
si sono avute fino ad ora (nonché la loro rispondenza ai persi “modelli” di disabi-
lità90), mentre dall’altro rivela la necessità di procedere ad una riformulazione dei
testi normativi, per rendere più omogeneo il linguaggio ivi utilizzato e per fare sì che
esso sia conforme a quello impiegato all’interno della CRPD91.

4.2. La Corte di Giustizia “alla prova” della disabilità: il percorso evolutivo
La Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sull’ambito di applicazione della
Direttiva 2000/78/CE – e, dunque, sui margini applicativi del concetto di disabilità
– in svariate occasioni, dando luogo a significativi mutamenti per quanto concerne

90 Cfr. supra, par. 1.
91 In riferimento all’ordinamento italiano, cfr. ad esempio i rilievi di L. Busatta, L’universo delle disabili-
tà: per una definizione unitaria di un diritto diseguale, in F. Cortese, M. Tomasi (a cura di), Le definizioni
nel diritto, Università degli Studi di Trento, 2016, pp. 335 ss. Sempre per quanto concerne il nostro
ordinamento, insistono sulla necessità di operare una riforma del lessico impiegato all’interno dei testi
normativi vigenti anche il Primo ed il Secondo Programma di azione biennale per la promozione dei
diritti e l’integrazione delle persone con disabilità.
   il proprio orientamento. In particolare, è possibile inpiduare tre pronunce-chiave,
   che consentono di verificare come la Corte abbia inizialmente adottato un approc-
   cio restrittivo, per poi recepire il mutamento di paradigma intercorso con la CRPD,
   passando così dal modello medico della disabilità a quello sociale.

   La prima sentenza, del 2006, è nota come Chacón Navas92, dal nome della ricorren-
   te. In essa, la Corte si pronuncia per la prima volta sulla nozione di handicap, ai fini
   dell’applicazione della Direttiva 2000/78/CE93. Nel caso di specie, la signora Chacón
   Navas presenta un ricorso al tribunale spagnolo, lamentando di essere stata licen-
   ziata dall’impresa Eurest per la quale lavorava, in quanto aveva interrotto la propria
   prestazione professionale per un lungo periodo a causa di una malattia, nonché in
   ragione del fatto che, in base alle attestazioni del servizio sanitario, la signora non
   sarebbe stata in grado di riprendere in breve tempo la propria attività lavorativa. La
   società Eurest, convenuta, ammette l’irregolarità del licenziamento, offrendo alla la-
   voratrice un indennizzo; tuttavia, la ricorrente rifiuta il ristoro economico, in quanto
   ritiene il proprio licenziamento – non irregolare, ma – nullo, in ragione della dispa-
   rità di trattamento e della discriminazione sofferta. Chacón Navas chiede dunque di
   essere reintegrata nel proprio posto di lavoro94.

   Per determinare se il licenziamento in oggetto sia stato irregolare o nullo, il giudice
   a quo si trova a dover risolvere la questione relativa all’ambito di applicazione del
   pieto di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità (letteralmente
228  «portatrici di handicap», ai sensi della Direttiva 2000/78/CE). In particolare, il dub-


   92 Sonia Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA, 11 luglio 2006, Causa C-13/05.
   93 Non è questa la sede per affrontare diffusamente la cosiddetta “questione linguistica”, concernen-
   te la terminologia appropriata. Va però segnalato che un corretto recepimento delle classificazioni
   internazionali (in primo luogo, il riferimento è all’International Classification of Functionings dell’Or-
   ganizzazione Mondiale della Sanità) e l’attuazione della CRPD impongono una significativa revisione di
   alcune categorie correnti e, in particolare, l’abbandono della nozione di handicap. La scelta, operata
   all’interno di questo paragrafo, di mantenere comunque il riferimento all’handicap, nasce dalla volon-
   tà di rimanere fedeli al dato normativo e, in particolare, al dettato della Direttiva 2000/78/CE, sì da
   meglio comprendere anche l’articolarsi del ragionamento della Corte di Giustizia. Tuttavia, il richiamo
   all’handicap va più correttamente inteso come rimando al concetto di disabilità.
   94 La normativa spagnola distingue tra il licenziamento nullo e quello irregolare, in base alla causa del-
   lo stesso. Se il licenziamento viene effettuato in violazione del principio di non discriminazione previsto
   dalla Costituzione spagnola e dalla legge nazionale di attuazione della Direttiva 2000/78/CE, allora è
   nullo. L’art. 14 della Costituzione spagnola stabilisce, infatti, il pieto di discriminazione per motivi
   di nascita, razza, sesso, religione, opinione e per qualsiasi altra condizione o circostanza personale
   o sociale. Nella stessa ottica, l’art. 17 dello Statuto dei lavoratori spagnolo (a seguito della modifica
   introdotta con la legge del 30 dicembre 2003, n. 62 che dà attuazione proprio alla Direttiva 2000/78/
   CE) dispone che sono nulli e privi di effetto le norme di regolamento, le clausole dei contratti collettivi,
   i contratti inpiduali e le decisioni unilaterali del datore di lavoro che creano, direttamente o indiretta-
   mente discriminazioni sfavorevoli ai fini dell’impiego, della retribuzione, dell’orario di lavoro e di altre
   condizioni di lavoro, per ragioni basate su sesso, razza, origine etnica, stato civile, condizione sociale,
   religione o convinzioni personali, nonché su idee politiche, orientamento sessuale, lingua, o motivate
   dall’adesione o meno a sindacati e ai relativi accordi collettivi. Lo stesso regime giuridico si applica nel
   caso in cui le discriminazioni dirette o indirette siano da ascriversi alla presenza di vincoli di parentela
   con altri lavoratori nell’impresa.
bio origina dal fatto che si produce uno svantaggio sociale in presenza tanto di una
disabilità quanto di una malattia: così, poiché due condizioni soggettive perse han-
no effetti assimilabili, per il giudice rimettente appare necessario un chiarimento sul
punto da parte della Corte di giustizia. Quest’ultima è dunque chiamata a pronun-
ciarsi sulla possibilità di considerare la malattia un motivo che si aggiunge a quelli
in base ai quali, ai sensi della Direttiva 2000/78/CE, è vietata ogni discriminazione.
Nel caso di specie, la Corte fa leva sul dato linguistico per sostenere che, poiché
disabilità e malattia sono due termini persi, e dato che il legislatore ha scelto di
fare riferimento alla sola disabilità all’interno della Direttiva, allora è esclusa l’assi-
milabilità tra le due condizioni. Su tale base, la signora Chacón Navas non ottiene la
dichiarazione di nullità del licenziamento e, dunque, nemmeno la reintegrazione nel
proprio posto di lavoro. Affinché la condizione soggettiva possa integrare i margini
di applicabilità della Direttiva 2000/78/CE, infatti, per la Corte è necessario che la
limitazione funzionale sia di lunga durata.

Eppure, come anticipato, in seguito il Giudice del Lussemburgo rivede la propria
posizione. In particolare, la Corte muta orientamento per la prima volta nel 2013,
nelle pronunce riunite C-335/11 (HK Danmark, per conto di Jette Ring c. Dansk Al-
mennyttigt Boligselskab) e 337/11 (HK Danmark, per conto di Lone Skouboe Werge
c. Dansk Arbejdsgiverforening per conto della Pro Dislapy A/S). Nei casi di specie, le
signore Ring e Werger restano assenti dal posto di lavoro per un periodo prolungato
di tempo, l’una a causa di dolori alla colonna lombo-sacrale, l’altra per i postumi di
                                               229
un colpo di frusta occorsole anni prima; in entrambi i casi, il trattamento riabilitativo
cui si sono sottoposte non sortisce gli effetti desiderati, e le donne sono impossibi-
litate a svolgere un’attività lavorativa. Vengono così licenziate dai rispettivi datori di
lavoro, con preavviso scritto di un mese – dunque ridotto –, in quanto la normativa
danese permette di licenziare con un breve preavviso un lavoratore che sia assente
per malattia, con mantenimento della retribuzione, per 120 giorni nel corso dei 12
mesi precedenti. Le ricorrenti affermano che, se vi fossero stati un adattamento
dell’ambiente di lavoro e una riduzione dell’orario dello stesso, non si sarebbe resa
necessaria una così significativa assenza, ma avrebbero potuto continuare la propria
attività lavorativa.

Con l’aiuto del proprio sindacato, HK Danmark, si rivolgono dunque al tribunale da-
nese, adducendo il carattere discriminatorio del loro licenziamento e della norma
speciale dalla quale esso trae legittimazione: si tratterebbe di un caso di discrimina-
zione indiretta, e dunque di atti vietati dalla normativa danese in materia di parità
di trattamento. Poiché quest’ultima costituisce attuazione della Direttiva 2000/78/
CE, la Corte di giustizia viene investita della questione. In particolare, i quesiti posti
alla sua attenzione sono tre: (i) la condizione di una persona che, a causa di meno-
mazioni fisiche, mentali o psichiche, non può svolgere la propria attività lavorativa
(o può farlo soltanto entro certi limiti) per un arco di tempo che soddisfa i requisiti,
in termini di durata, di quanto specificato nella causa Navas, rientra nella nozione
di handicap ai sensi della Direttiva in oggetto? (ii) la riduzione dell’orario di lavoro
   rientra tra le misure di cui all’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE? Può, in altri termini,
   essere considerata una delle modalità attraverso le quali procedere al cosiddetto
   “accomodamento ragionevole”? (iii) la legislazione nazionale che permette di li-
   cenziare, con preavviso ridotto, i lavoratori che hanno esercitato il loro diritto al
   congedo per malattia con mantenimento della retribuzione, è conforme al diritto
   dell’Unione europea?

   In tale occasione, la Corte di giustizia mostra una significativa apertura nei con-
   fronti della possibilità di applicare la tutela antidiscriminatoria di cui alla Direttiva
   2000/78/CE anche in caso di malattia. Più nello specifico, secondo la Corte, la no-
   zione di “handicap” (rectius, di “disabilità”) deve essere interpretata nel senso di
   includere una condizione patologica causata da una malattia (diagnosticata come
   curabile o meno), qualora quest’ultima comporti una limitazione di lunga durata
   risultante in particolari menomazioni che, in interazione con barriere di varia na-
   tura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita
   professionale, in condizioni di eguaglianza con gli altri lavoratori.

   Tale mutamento di posizione discende da alcune considerazioni relative alla teoria
   delle fonti. La Corte ricorda infatti che, in base all’art. 216 TFUE, se l’Unione conclu-
   de accordi internazionali, questi ultimi prevalgono sugli atti dell’Unione; e, poiché
   ha approvato la CRPD con la decisione 2010/48, l’Unione è tenuta a fare propria la
   nozione socio-contestuale di disabilità di cui all’art. 1, par. 2 di tale documento95.
230  Ne consegue che gli Stati membri sono tenuti a propria volta a non adottare nor-
   mative suscettibili di produrre una situazione di svantaggio per i lavoratori disabili,
   nonché a prevedere misure che consentano alle persone con disabilità di svolgere
   la propria prestazione lavorativa, eventualmente anche prevedendo una riduzione
   dell’orario lavorativo, che può dunque costituire un provvedimento idoneo a con-
   sentire tale adattamento (ragionevole), rientrando altresì nell’ambito di applicazio-
   ne dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE. Quest’ultima impone infatti al datore di
   lavoro l’adozione di misure che consentano anche ad una persona che sia disabile
   sia di accedere in modo effettivo ad un impiego, sia di svolgere la propria attività
   lavorativa. Pertanto, alla luce della Direttiva summenzionata, la legislazione danese
   sul licenziamento con preavviso ridotto non può essere applicata al caso di specie,
   in quanto la disabilità è parzialmente riconducibile alla circostanza che il datore di
   lavoro non abbia adottato provvedimenti appropriati: l’applicazione generalizzata
   del preavviso ridotto costituisce dunque una discriminazione indiretta, in quanto
   tratta in modo uguale persone che si trovano in una situazione differente, causando
   una situazione di svantaggio per il lavoratore disabile. In questa circostanza, peral-
   tro, la Corte si spinge anche ad affermare che la legge potrebbe perfino essere nul-
   la, in quanto indirettamente discriminatoria: è possibile presumere, infatti, che le


   95 Si è già detto dell’ingresso della CRPD nel diritto dell’Unione europea; per una più ampia analisi del
   rapporto fra diritto dell’UE e diritto internazionale, si veda P. De Pasquale, Rapporti tra le fonti di diritto
   dell’Unione europea, in “DPCE”, numero speciale, 2019, pp. 191-214.
persone con disabilità raggiungano più facilmente il limite dei 120 giorni di assenza
lavorativa rispetto a coloro che non siano disabili o non abbiano malattie croniche.
Chiaramente, ogni valutazione in merito non è però di competenza della Corte di
Giustizia; piuttosto, spetta al tribunale danese determinare se sussista una giustifi-
cazione obiettiva affinché siano in vigore normative di questo tipo, e che consenta
di applicarle anche alle persone con disabilità.

Infine, nel caso Daouidi, deciso il 1° dicembre 2016 (Causa C-395/15)96, la Corte ap-
proda all’orientamento che mantiene ancora oggi, come si evince dalla recente sen-
tenza DW c. Nobel Plastiques Ibérica SA (C-397/18, 11 settembre 2019)97. Nel caso di
specie, il ricorrente viene assunto nell’aprile 2014 come aiuto-cuoco in un ristorante
situato all’interno di un complesso alberghiero nei pressi di Barcellona. Inizialmente
viene stipulato un contratto di lavoro a tempo parziale e determinato, che poi viene
convertito in un contratto a tempo pieno, raddoppiando il numero delle ore di ser-
vizio; al contempo, la scadenza del contratto a tempo determinato viene prorogata.
Tuttavia, nell’ottobre 2014, il signor Daouidi si procura una lussazione del gomito
sinistro cadendo accidentalmente all’interno della cucina in cui lavora; la lesione
riportata richiede un’ingessatura e comporta un’invalidità temporanea, che rende
necessaria l’assenza dal lavoro. A quasi due mesi di distanza dall’incidente, il signor
Daouidi si vede recapitare una lettera di licenziamento disciplinare, e per tale moti-
vo decide di ricorrere al giudice, sì da fare dichiarare la nullità del suo licenziamen-
to. A tal fine, egli eccepisce la violazione del suo diritto all’integrità fisica, tutelato
                                                        231
dall’art. 15 della Costituzione spagnola del 1978, e rileva altresì il carattere discri-
minatorio del licenziamento, che sarebbe stato causato dalla sua invalidità tempo-
ranea. Secondo la ricostruzione prospettata dal ricorrente, l’invalidità in questione,
di durata incerta, rientrerebbe nella nozione di “handicap” (rectius, disabilità) cui fa
riferimento la Direttiva 2000/78/CE, così come interpretata dalla Corte di giustizia
nei casi riuniti HK Danmark (C-335/11 e C-337/11, dell’11 aprile 2013). 

Appurata la sussistenza di un nesso causale fra l’invalidità e il licenziamento, il giu-
dice di rinvio constata che nella giurisprudenza spagnola i licenziamenti fondati su
presupposti analoghi non vengono considerati discriminatori e sono, pertanto, vali-
di. Tuttavia, egli dubita della conformità della normativa nazionale rispetto al diritto
dell’Unione europea: se il signor Daouidi fosse stato discriminato a causa della sua
disabilità, il suo licenziamento avrebbe costituito una violazione dei diritti fonda-
mentali tutelati dal diritto dell’Unione, e pertanto sarebbe stato radicalmente nul-
lo. Nello specifico, il giudice a quo prospetta alla Corte di giustizia cinque questioni
pregiudiziali, quattro delle quali vertono su aspetti in merito ai quali la Corte dichia-
ra di non avere le competenze necessarie per dare una risposta. Risponde però alla

96 Si veda, sulla decisione Daouidi, D. Ferri, Daouidi v Bootes Plus SL and the Concept of “Disability” in
EU Anti-Discrimination Law, in “European Labour Law Journal”, 10, 2019, 1, pp. 69-84.
97 Per un commento, P. Addis, Suonala ancora Sam: la Corte di giustizia dell’Unione europea e le discri-
minazioni nei confronti delle persone con disabilità sul posto di lavoro (Corte di giustizia dell’Unione eu-
ropea, DW contro Nobel Plastiques Ibérica SA, C-397/18, 11 settembre 2019), in “DPCEonline”, 4/2019.
   quinta, con la quale il giudice rimettente chiede se la decisione del datore di lavoro
   di licenziare un lavoratore temporaneamente invalido a causa di un incidente sul
   lavoro rientri fra le «discriminazioni dirette fondate sull’handicap» a cui fanno rife-
   rimento gli artt. 1, 2 e 3 della Direttiva 78/2000/CE.

   Al riguardo, il Giudice del Lussemburgo ribadisce che le disposizioni del diritto eu-
   ro-unitario devono essere interpretate conformemente alla CRPD, dato che la Diret-
   tiva in oggetto intende costituire un quadro generale per la lotta alla discriminazio-
   ne basata sulla disabilità in ambito lavorativo, e che l’Unione europea ha ratificato
   la CRPD. Ne discende, pertanto, che la nozione di “handicap” (rectius, disabilità) ai
   sensi della Direttiva 2000/78/CE deve essere intesa come «limitazione, risultante in
   particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazio-
   ne con barriere di persa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione
   dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

   Un aspetto qualificante del caso Daouidi verte, inoltre, sul carattere di reversibilità
   della menomazione: nonostante quest’ultima sia reversibile, al momento dell’u-
   dienza davanti al Tribunale del lavoro di Barcellona l’arto del ricorrente è ancora
   lesionato e immobilizzato. Ciò comporta certamente un’impossibilità di svolgere
   la sua attività professionale, ma l'impossibilità in oggetto è di carattere tempora-
   neo. Affinché la situazione possa rientrare nell’ambito di applicabilità della Direttiva
   2000/78/CE, la limitazione della capacità deve però essere duratura. A tal proposi-
232
   to, va ricordato che la CRPD nulla dice circa il carattere duraturo di una menomazio-
   ne (sia essa fisica, mentale, intellettuale o sensoriale), e che la Direttiva 2000/78/
   CE non fornisce alcuna definizione di disabilità o di “durata” della stessa. Pertanto,
   in assenza di un espresso rinvio al diritto degli Stati membri, la Corte si trova nella
   condizione di dover procedere a un’interpretazione autonoma e uniforme.

   Secondo la Corte, anche se il signor Daouidi è considerato (solo) “temporaneamen-
   te” invalido ai sensi della disciplina spagnola, può essere comunque considerato in
   una “duratura” condizione di disabilità ai sensi del diritto dell’Unione, interpretato
   alla luce della CRPD. A tal proposito, il Giudice del Lussemburgo richiama la senten-
   za Chacón Navas, per rimarcare che la valutazione circa il carattere duraturo del-
   la menomazione deve essere effettuata con riferimento al momento in cui è stata
   posta in essere la condotta discriminatoria, e che una menomazione guaribile in
   tempi significativi e non ben definiti può essere duratura. Tuttavia, la medesima
   Corte non può dare una soluzione definitiva al caso di specie: il giudice del rinvio
   dovrà infatti decidere basandosi sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone
   e, in particolare, sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona,
   redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali, in quanto l’incer-
   tezza della durata non fa automaticamente sì che la menomazione dia luogo ad
   una disabilità. In conclusione, si può ipotizzare che una menomazione sia duratura
   (e, dunque, rientri nel campo di applicazione della Direttiva 2000/78/CE) qualora,
   al momento della condotta discriminatoria, non vi sia una prospettiva riabilitativa
   definita temporalmente, o nel caso in cui tale menomazione possa protrarsi per un
   lasso di tempo significativo. 
4.3. Questioni di “rilevanza”
Vista la significativa evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia in re-
lazione al tema in oggetto, pare senz’altro opportuno soffermarsi brevemente su
alcuni aspetti caratterizzanti i parametri che devono essere soddisfatti affinché la
condizione della lavoratrice o del lavoratore rientri nell’ambito di applicazione della
Direttiva 2000/78/CE. Ad esempio, in presenza di un disagio psicologico, emotivo
o relazionale, bisogna distinguere le condizioni cliniche di ansietà e/o depressione
dagli stati d’animo di insoddisfazione, tristezza, o irritazione. Infatti, mentre le pri-
me sono riconducibili alla definizione di disabilità qualora siano severe, protratte,
croniche o ricorrenti nel tempo, le seconde – al contrario – costituiscono ordinarie
reazioni umane a condizioni di stress o a circostanze avverse della vita, e come tali
non rilevano ai fini dell’applicazione della Direttiva 2000/78/CE98. La menomazione
deve dunque essere “sufficientemente rilevante”, ossia costituire un ostacolo alla
vita professionale del lavoratore, in considerazione delle circostanze specifiche del
caso in questione.

Per stabilire in cosa possa concretarsi la “sufficiente rilevanza”, pare opportuno ri-
volgersi nuovamente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che fornisce alcune
utili indicazioni in merito. Nel caso Z. c. Government Dept. The board of manage-
ment of a community school (CGUE sentenza 18 marzo 2014, causa C-363/12), il
Giudice di Lussemburgo si è infatti trovato a stabilire se la lavoratrice priva di utero
sia persona con disabilità ai sensi della dir. 2000/78/CE. Il caso di specie riguarda la           233
signora Z., che lavora in Irlanda e soffre di una rara patologia, per effetto della quale
è priva di utero e non è in grado di avere figli. Per questo motivo, lei e il marito ricor-
rono ad una madre surrogata californiana, la cui identità non viene menzionata nel
certificato di nascita statunitense; per lo Stato della California, dunque, la signora
Z. e il marito sono i genitori della bambina, circostanza che induce la donna a fare
richiesta di congedo retribuito (equivalente ad un congedo di maternità o di adozio-
ne). La sua domanda non trova però accoglimento da parte del Giudice nazionale, in
base al rilievo che non è mai stata incinta, né la bambina è stata adottata. Il tribuna-
le irlandese decide di adire la Corte di Lussemburgo affinché chiarisca se il rigetto è
contrario alla Direttiva sulle lavoratrici gestanti, o se costituisce una discriminazione
basata sul genere o sulla disabilità (l’uno vietato ai sensi della Direttiva sulla parità
di trattamento fra uomini e donne, l’altro ai sensi della Direttiva sulla parità di trat-
tamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro).


98 Si noti come, anche a tal riguardo, venga in rilievo la durata della condizione invalidante. Non a caso,
alcune legislazioni nazionali hanno cercato di arginare l’incertezza interpretativa precisando il termine
di durata superato il quale una patologia può considerarsi disabilità ai sensi della Direttiva 2000/78/
CE; al contrario, non rileva che le menomazioni derivino da deficit congeniti o acquisiti. Ad esempio,
nel 2015, l’Autorità per la parità di trattamento danese ha respinto un ricorso presentato da un fisio-
terapista, che adduceva il carattere discriminatorio del proprio licenziamento, avvenuto a causa delle
assenze determinate da uno stato di depressione, in quanto ha ritenuto che quest’ultimo non fosse
di severità e durata tali da costituire un ostacolo allo svolgimento delle proprie mansioni lavorative, e
come tale, non fosse qualificabile come disabilità ai sensi della Direttiva 2000/78/CE.
   Secondo la Corte di giustizia è certamente innegabile che l’incapacità di procreare
   possa causare grandi sofferenze, e tuttavia queste non sono di rilevanza tale da in-
   tegrare gli estremi per l’applicazione della Direttiva 2000/78/CE, la quale richiede
   che la limitazione della persona, in interazione con le barriere di persa natura, sia
   idonea ad ostacolare la sua piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale,
   in condizioni di eguaglianza con gli altri lavoratori. L’incapacità di procreare natural-
   mente, infatti, «non impedisce, di per sé, l’accesso all’impiego e una carriera […] e
   non costituisce un ostacolo all’esercizio dell’attività professionale» (par. 82), né ad
   ottenere una promozione; non costituisce dunque un handicap (rectius, una disabi-
   lità) ai sensi della Direttiva in oggetto.

   Può essere inquadrata come questione attinente alla “rilevanza” anche la nota cau-
   sa Fag og Arbejde (FOA) c. Kommunernes Landsforening (KL), decisa dalla Corte di
   giustizia nel 201499. Il caso di specie origina dal licenziamento del signor Karsten
   Kaltoft, che aveva prestato servizio come educatore per la prima infanzia presso il
   Comune di Billund, in Danimarca, per quindici anni. Nel 2010 il Comune pone fine
   al rapporto di lavoro motivando la misura con il calo del numero dei bambini che
   frequentano la struttura in cui Kaltoft trova impiego; non dà però alcuna spiegazio-
   ne circa la decisione di interrompere proprio il suo rapporto di lavoro, ma non altri.

   Kaltoft ritiene che la scelta dell’amministrazione sia caduta su di lui in ragione della
   propria condizione di obesità, determinata come tale in base agli indici di massa
234  corporea dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS); per l’intera durata della
   propria attività lavorativa, infatti, l’uomo non aveva mai raggiunto un peso inferio-
   re ai 160 kg nonostante gli sforzi volti alla sua riduzione, e la responsabile degli
   assistenti all’infanzia gli aveva fatto ripetutamente visita, manifestando interesse
   proprio in relazione alla sua perdita di peso. Pertanto, nonostante il Comune neghi
   che il peso del ricorrente abbia contribuito a determinarne il licenziamento, Kaltoft
   si rivolge al proprio sindacato, tramite il quale adisce il Tribunale distrettuale danese
   affinché si pronunci sul carattere discriminatorio del licenziamento, ai sensi della
   Direttiva 2000/78/CE. Nel valutare il ricorso, il tribunale chiede dunque alla Corte di
   giustizia di precisare se il diritto dell’Unione europea vieti la discriminazione basata
   sull’obesità, e se l’obesità possa essere considerata una disabilità e, come tale, sia
   tutelata dalla Direttiva 2000/78/CE.

   Nel corso del procedimento, l’avvocato generale della Corte di giustizia Jaaskinen si
   esprime in senso affermativo, ritenendo che l’obesità possa essere considerata una
   forma di disabilità qualora raggiunga un livello tale da ostacolare in modo chiaro
   la partecipazione alla vita professionale. Ad avviso dell’avvocato generale, affinché
   trovi applicazione la Direttiva 2000/78/CE, è necessario che l’obesità sia grave, pa-
   tologica, e che l’indice di massa corporea sia superiore a 40. Di conseguenza, non
   solo il licenziamento del signor Kaltoft è illegittimo, ma – più in generale – l’azien-

   99 CGUE, sentenza 18 dicembre 2014, causa C-354/13.
da dovrebbe adottare misure («accomodamenti»), che consentano di agevolare lo
svolgimento dell’attività lavorativa da parte delle persone con disabilità, fatta salva
la proporzionalità dell’onere a suo carico (tali misure, in altri termini, devono essere
«ragionevoli»100).

La Corte si pronuncia in modo parzialmente conforme. Dopo avere ricordato che né
i Trattati né il diritto derivato dell’Unione contengono una disposizione che proibisca
la discriminazione fondata sulla disabilità, rileva che non si fa cenno a tale profilo
nemmeno nella Direttiva 2000/78/CE e che l’ambito di applicazione della Direttiva in
oggetto non deve essere esteso per analogia ad altre ipotesi di discriminazione non
contemplate dal suo art. 1. Essa afferma poi il principio secondo il quale la Direttiva
stessa deve essere interpretata nel senso che «[l]o stato di obesità di un lavoratore
costituisce un handicap, ai sensi [della Direttiva 2000/78/CE], qualora determini una
limitazione, risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche
durature, la quale, in interazione con barriere di persa natura, può ostacolare la
piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su
un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori». Spetta dunque al giudice naziona-
le verificare se tali condizioni sussistano nel caso di specie e, dunque, se l’obesità
possa costituire il presupposto per la presenza di una discriminazione ai sensi della
Direttiva 2000/78/CE. Quest’ultimo caso si verifica, ad esempio, se l’obesità del la-
voratore ostacola la sua partecipazione incidendo sulla sua mobilità, comportando
l’insorgenza di patologie che gli impediscono di svolgere il suo lavoro, o rendendo
                                                         235
difficoltoso l’esercizio della sua attività professionale.

In tale occasione, la Corte di giustizia sceglie dunque di affermare un principio ge-
nerale: nel caso in cui l’obesità comporti limitazioni sufficientemente severe o gra-
vi – e, come si evince dalle cause riunite C-335/11 e C-337/11, la limitazione sia
“permanente” o “di lunga durata” – allora potrà trovare applicazione la Direttiva
2000/78/CE101.




100 Sugli «accomodamenti ragionevoli», seppur brevemente, cfr. infra.
101 Un simile orientamento si registra anche all’interno dell’ordinamento italiano. In tal senso, è pos-
sibile ricordare la sentenza del Tribunale di Milano dell’11 febbraio 2013, dove si afferma che si può
parlare di handicap ogniqualvolta una malattia sia di lunga durata e abbia l’attitudine a incidere nega-
tivamente sulla vita professionale del lavoratore. Nel caso di specie, da uno scambio di missive tra il
datore di lavoro e la lavoratrice XX si evinceva in modo chiaro la gravità della situazione in cui la stessa
versava: il quadro della descrizione era certamente quello di una patologia grave e invalidante, dato
che la donna rappresentava di avere una patologia molto grave, che l’avrebbe costretta a rimanere in
cura per tutto il resto della vita, con l’effetto collaterale di sentirsi molto stanca, il che la costringeva a
guidare il meno possibile e le rendeva molto difficoltoso lo svolgimento dei compiti ordinari. In tali casi,
va tenuto presente che l’onere della prova grava sul lavoratore, e che la valutazione relativa al carattere
della limitazione sofferta deve essere effettuata quando si verificano l’atto o il comportamento che si
asserisce essere discriminatori; la valutazione può anche avere un carattere prognostico, sulla base
degli elementi disponibili.
   4.4. Le discriminazioni vietate: una tassonomia e la declinazione in riferimen-
   to alla disabilità
   La Direttiva 2000/78/CE vieta la discriminazione diretta o indiretta fondata (anche)
   sulla disabilità. Cosa debba intendersi per “discriminazione diretta” è ormai noto,
   ma giova ricordarlo brevemente: ai sensi della Direttiva 2000/78/CE, art. 2, par. 2,
   lett. a), «Sussiste discriminazione diretta quando […] una persona è trattata meno
   favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione
   analoga».

   L’unica eccezione al pieto di discriminazione diretta si rinviene nei casi in cui sia
   necessaria la valutazione dell’idoneità lavorativa, ossia nell’eventualità in cui una
   caratteristica collegata alla disabilità costituisca un requisito essenziale e determi-
   nante per lo svolgimento della mansione lavorativa, tenuto conto della per la natura
   della stessa o del contesto in cui quest’ultima viene espletata, nonché nel rispetto
   dei principi di proporzionalità e ragionevolezza102. Ai sensi dell’art. 3, comma 3, del
   d.lgs. 216/2003, infatti, «Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolez-
   za, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non
   costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trat-
   tamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni persona-
   li, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la
   natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
236  caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello
   svolgimento dell’attività medesima [...]».

   A tal riguardo, giova sottolineare come, tanto in materia di accesso ad un’occupa-
   zione quanto in relazione al suo mantenimento, l’esclusione aprioristica di un lavo-
   ratore o il suo demansionamento in ragione della sua disabilità, senza che la sua
   idoneità alle mansioni sia stata valutata nelle modalità previste per legge, assuma
   carattere discriminatorio. In questo caso, infatti, l’esclusione avviene non sulla base
   delle effettive capacità personali, ma in ragione di una disabilità percepita ed inter-
   pretata attraverso le griglie concettuali proprie del modello medico della disabilità
   (ossia in base all’idea che gli inpidui disabili siano inevitabilmente sfortunati, inuti-
   li, persi, oppressi, malati103). In quest’ottica, ad esempio, la Corte di Cassazione ha
   ritenuto che sia nullo «il licenziamento per ragione esclusiva di discriminazione da

   102 Già da tempo la giurisprudenza ha fatto propria tale impostazione; ad esempio, già dalla fine degli
   anni Ottanta si è ritenuto ammissibile il patto di prova, secondo la durata prevista dal contratto colletti-
   vo, anche con riferimento all’assunzione del lavoratore o della lavoratrice disabile, avuto però riguardo
   a che il suo contenuto sia rapportato alla sua condizione personale (sul punto, cfr. Corte costituzionale,
   sent. 255/1989 e Corte di Cassazione, sent. 16 agosto 2004, n. 15942). Parimenti, la Cassazione ha
   stabilito che anche il recesso è nullo, se non è motivato dall’incapacità del/la lavoratore/lavoratrice
   disabile allo svolgimento delle mansioni compatibili con il grado di disabilità (Cfr. Corte di Cassazione,
   SS. UU., 1° marzo 1989, n. 1104).
   103 P. Hunt, A Critical Condition, in Id. (ed.), Stigma: The Experience of Disability, Geoffrey Chapman,
   London 1966, pp. 145-159, 146.
handicap […] quando il licenziamento sia stato intimato sulla scorta dell’affermazio-
ne apodittica che la condizione di invalidità del lavoratore abbia impedito di rendere
proficuamente la prestazione, senza alcun accertamento medico al riguardo e senza
la prova di effettive disfunzioni nello svolgimento dei compiti di pertinenza»104.

La discriminazione indiretta si verifica quando una disposizione, un criterio o una
prassi apparentemente neutri sono idonei a mettere i lavoratori con disabilità in una
posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri. L’unica ragione che giustifica il
trattamento differente è data, dunque, dalla circostanza che la disposizione, il crite-
rio o la prassi in questione siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima,
e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. È,
questo, il principio al quale si sono ispirate le pronunce riunite C-335/11 (HK Dan-
mark, per conto di Jette Ring contro Dansk almennyttigt Boligselskab) e 337/11 (HK
Danmark, per conto di Lone Skouboe Werge contro Dansk Arbejdsgiverforening per
conto della Pro Dislapy A/S) viste in precedenza, dove la Corte di giustizia ha stabilito
che un periodo di comporto identico per tutti i lavoratori può, in astratto, costituire
una discriminazione indiretta a danno di coloro che siano disabili, sicché penta
necessario valutare la sussistenza della discriminazione in concreto105.

Mantenendo lo stesso orientamento, di recente la stessa Corte ha affermato l’in-
compatibilità della normativa spagnola in base alla quale il datore di lavoro può
licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro con il pieto di            237
discriminazioni indirette fondate sulla disabilità, anche qualora dette assenze siano
giustificate, e pure nel caso in cui esse siano dovute a malattie imputabili alla disabi-
lità di cui soffre il lavoratore. Infatti, se pure la normativa in questione persegue una

104 Corte di Cassazione, sez. lav., 26 aprile 2016, n. 8248.
105 Al contempo, è da segnalare come la Cassazione italiana abbia ritenuto che le assenze del lavora-
tore determinate da eccessiva morbilità, anche in caso di mancato superamento del periodo di com-
porto, possono legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora comportino
una prestazione lavorativa utilizzabile per la società perché inadeguata sotto il profilo produttivo, e
pregiudizievole per l’organizzazione aziendale (cfr. Cass. civ., 4 settembre 2014, n. 18678). Si discosta
da tale impostazione la coeva sentenza pronunciata dal Tribunale di Bologna sez. lavoro, il 15 aprile
2014. Nel caso di specie, una lavoratrice disabile, affetta da neoplasia, viene licenziata per avere supe-
rato il periodo di comporto, in quanto non ha chiesto di prorogare il termine in oggetto, prima della sua
scadenza. In presenza di patologie gravi, e nel caso in cui siano necessarie terapie salvavita, il contratto
collettivo nazionale di categoria consente, infatti, di prorogare di 120 giorni il termine di comporto,
con un periodo di aspettativa non retribuita, con un’ulteriore possibile estensione fino a 12 mesi. È da
notare che la lavoratrice non aveva provveduto ad effettuare tale richiesta essendovi impossibilitata: a
causa del decorso della malattia e in conseguenza dell’effettuazione di interventi chirurgici, era entrata
in coma. Nel caso di specie, il giudice di merito annulla il licenziamento, rilevandone la natura discrimi-
natoria: pur riconoscendo l’esistenza di una regola generale in base alla quale il datore di lavoro non è
obbligato a convertire d’ufficio l’assenza per malattia in ferie o in congedo non retribuito né ad avver-
tire il lavoratore dell’imminente scadenza del periodo di comporto per la conservazione del posto di
lavoro, l’organo giudicante ritiene infatti che non prendere in considerazione le circostanze particolari
del caso e le difficoltà umane della lavoratrice determinate dallo stato particolarmente grave di salute
integri gli estremi di una discriminazione indiretta, nonché la violazione dei principi civilistici di corret-
tezza e buona fede e del principio costituzionale di solidarietà sociale.
   finalità legittima (la lotta all’assenteismo), tuttavia non rispetta il principio di pro-
   porzionalità, in quanto non prevede adeguate clausole di tutela che, tenendo conto
   del maggior rischio cui sono soggette le persone con disabilità, siano suscettibili di
   compensare gli svantaggi derivanti da tale condizione. In altri termini, è sempre ne-
   cessario effettuare un bilanciamento tra gli interessi delle imprese e la protezione e
   sicurezza dei lavoratori con disabilità106.

   L’art. 2, par. 3 inpidua ulteriori condotte discriminatorie, concretizzantisi nelle
   molestie. Queste ultime sono comportamenti indesiderati, adottati in ragione della
   disabilità del soggetto, che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un la-
   voratore o di una lavoratrice e di creare nei suoi confronti un clima intimidatorio,
   ostile, degradante, umiliante o offensivo. Al riguardo, è fondamentale mettere in
   rilievo che i comportamenti in oggetto sono rilevanti a prescindere dalle intenzioni
   soggettive di chi li pone in essere; ad esempio, è sufficiente che le espressioni verba-
   li dirette ad una persona con disabilità facciano riferimento in modo oggettivamente
   denigratorio o offensivo alla sua menomazione o a quella di un suo familiare, a pre-
   scindere dalle intenzioni soggettive o dalla consapevolezza dell’autore delle stesse
   circa il loro carattere discriminatorio.

   Una sentenza di qualche anno fa, pronunciata dal Tribunale di Aosta e poi conferma-
   ta dalla Corte di Appello di Torino107, è esemplificativa di tale orientamento. Infatti,
   nel caso in oggetto, il Tribunale ha accolto il ricorso per il risarcimento dei danni
238  proposto da una lavoratrice disabile con mansioni di biologa presso la ASL, ritenen-
   do che la stessa fosse stata vittima di molestie sul luogo di lavoro, appunto a causa
   della propria disabilità.

   La ricorrente lamentava che uno dei dirigenti della struttura le si fosse ripetutamen-
   te rivolto con appellativi quali “piccola” e sinonimi, nonché con gesti della mano che
   ne indicavano la statura notevolmente al di sotto della media, dovuta alla sua disa-
   bilità. Il dirigente aveva inoltre ironizzato ripetutamente sul pericolo incombente
   nel caso di turni di guardia notturni, e aveva altresì sostenuto più volte che, avendo
   ottenuto il proprio posto di lavoro ai sensi della l. 68/99 sul collocamento mirato
   delle persone con disabilità, la lavoratrice avesse sottratto il posto a chi, pur dotato
   delle medesime competenze, fosse normodotato. Questi comportamenti avevano
   ingenerato nella donna uno stato di forte stress, che l’aveva indotta a ricorrere a
   cure mediche contro l’ansia. Per contro, il datore di lavoro aveva sostenuto di avere
   utilizzato le espressioni denunciate in modo benevolo, senza alcuna intenzione di
   offendere o denigrare.

   Ebbene, come anticipato, tanto il Tribunale quanto la Corte di Appello di Torino han-
   no accettato la richiesta di risarcimento dei danni, riconoscendo la sussistenza delle

   106 CGUE, sentenza 18 gennaio 2018, Carlos Enrique Ruiz Conejero c. Ferroser Servicios Auxiliares SA,
   Ministerio Fiscal, causa C-270/16.
   107 Cfr., rispettivamente, sentenza 22-28 settembre 2011 e sentenza 29 novembre 2012.
molestie: invero, per integrare la fattispecie in questione, sono sufficienti il fatto
oggettivo della lesione della dignità della persona, nonché il carattere indesiderato
di questi comportamenti108.

Infine, devono essere tenute presenti due ulteriori ipotesi di discriminazione. La
prima è la cosiddetta “discriminazione per associazione”. Quest’ultima si verifica
quando il lavoratore subisce una discriminazione non a causa della sua disabilità,
ma in quanto in stretto rapporto con persone, familiari o amici con disabilità; la
disabilità di questi ultimi è dunque la ragione della discriminazione subìta. Se di
questo tipo di discriminazione si parla in vari ambiti del diritto antidiscriminatorio (si
pensi alla causa Chez, C-83/14, in cui si affronta il tema della discriminazione delle
persone che, pur non avendo un’origine rom, risiedono nei “quartieri rom” e, per
tale motivo, sono vittime di discriminazione), è proprio in relazione alla disabilità
che si è verificato uno dei casi più noti. In S. Coleman c. Attridge Law e Steve Law
(causa C-303/06), infatti, protagonista è una segretaria inglese, tenuta a sopportare
comportamenti umilianti sul luogo di lavoro (qualificabili come molestie) in quanto
ha necessità di disporre di un orario flessibile, per accudire il figlio disabile.

A tal riguardo, innanzitutto è opportuno mettere in luce un dato particolarmen-
te significativo dal punto di vista sociologico: di norma, sono le donne ad essere
interessate dalla discriminazione per associazione, in quanto esse svolgono più di
frequente il ruolo di care-giver, e dunque non è raro che nel datore di lavoro si in-
generi il timore che la lavoratrice lavori meno alacremente, a causa degli impegni                239
di cura assunti confronti del care-receiver109. Inoltre, per quanto attiene al piano più
strettamente normativo, va posto in evidenza come il pieto di discriminazione per
associazione trovi la propria ratio giustificativa nella salvaguardia dell’effetto utile
degli artt. 1 e 2 della Direttiva 2000/78, i quali hanno un valore interpretativo vin-
colante per il giudice interno. Non a caso, di recente il principio sancito in Coleman

108 È opportuno precisare che, nel caso di molestie sul luogo di lavoro da parte di un collega, anche
il datore di lavoro può essere chiamato a risponderne civilmente qualora, debitamente informato in
relazione al comportamento vietato, non abbia posto in essere misure atte a prevenirlo o a reprimerlo,
ai sensi dell’art. 2087 c.c. In tal caso, è onere di quest’ultimo dimostrare di avere adottato le misure
in oggetto. Lo stesso principio vale in relazione ai contratti di somministrazione, dove tanto il sommi-
nistratore quanto l’utilizzatore sono tenuti a far cessare il comportamento pregiudizievole (sul punto,
cfr. almeno Tribunale di Potenza, ordinanza del 21 marzo 2005). Sulla stessa scia, anche l’ordine di
discriminare è equiparato ad una discriminazione (cfr. art. 2, par. 4 della Direttiva 2000/78/CE).
109 Sul caso Coleman e sulla discriminazione per associazione, cfr. V. Protopapa, La discriminazione
per associazione e le conseguenze del comportamento discriminatorio, in “Rivista giuridica del lavoro
e della previdenza sociale”, 3/2012, pp. 555-565. Sulla femminilizzazione del lavoro di cura, cfr. Com-
mittee on the Rights of Persons with Disabilities, General Comment n. 3/2016 on women and girls with
disabilities, specialmente punto 17. In relazione al Commento in oggetto, cfr. almeno S. Lancioni, Com-
mento Generale del Comitato ONU sulle donne con disabilità, in “Informare un’h”, 4 settembre 2019,
http://www.informareunh.it/commento-generale-del-comitato-onu-sulle-donne-con-disabilita/
Infine, all’interno dell’amplissima letteratura relativa al tema della cura/care, cfr. almeno B. Casalini, Il
femminismo e le sfide del neoliberismo. Postfemminismo, sessismo, politiche della cura, IF Press, Roma,
2018; P. Di Nicola, Princìpi di «giustizia»: la sfida del lavoro di cura per le famiglie e per la società degli
inpidui, in “Autonomie locali e servizi sociali”, 3/2017, pp. 609-620.
   è stato richiamato (oltreché dall’avvocato della ricorrente) anche dal Tribunale di
   Ferrara, sez. lavoro, nella sentenza del 24 gennaio 2019. Rientrata al lavoro dopo la
   sua seconda maternità, una lavoratrice dipendente di un grande magazzino riceve
   un trattamento molto penalizzante dal punto di vista dell’orario, che le impedisce di
   accudire la figlia, con disabilità ed affetta da una grave patologia oncologica. Falliti
   tutti i tentativi di confronto con la propria azienda, la quale era stata ripetutamente
   invitata a modificare i turni e si era dimostrata insensibile in relazione alle esigenze
   della lavoratrice, quest'ultima adisce dunque il Tribunale, che riconosce la discri-
   minazione, condannando il datore di lavoro a corrispondere un risarcimento alla
   donna e a modificarne l’orario di lavoro secondo modalità che siano sostenibili per
   lavoratrici che si trovino a fronteggiare necessità di assistenza analoghe110.
   L’invito a modificare i turni di lavoro – dunque, ad inpiduare soluzioni organizza-
   tive che permettano di conciliare le perse esigenze – rimanda all’ultima causa di
   discriminazione, costituita dal «rifiuto di accomodamento ragionevole», la cui fonte
   è da rinvenirsi nell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, rubricato appunto “soluzioni
   ragionevoli per i disabili”, da intendersi come accorgimenti finalizzati a garantire la
   parità di trattamento di tali lavoratori111. Il principio in oggetto impone al datore di
   lavoro di prendere «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle
   situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolger-
   lo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno
   che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario
240  sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato
   in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro
   a favore dei disabili».

   Si noti che questo principio è richiamato, quanto al suo contenuto, anche nei Consi-
   derando nn. 20 e 21 della Direttiva, e oggi costituisce altresì uno dei principi cardine
   della CRPD, dove si trova anche il riferimento a «soluzioni ragionevoli», che vanno

   110 Per l’inpiduazione di alcune “questioni aperte” in relazione al pieto di discriminazione per asso-
   ciazione (nonché per l’analisi di taluni profili significativi concernenti la tutela antidiscriminatoria), cfr.
   Garante regionale dei diritti della persona, Disabilità, pieto di discriminazione e obbligo di accomo-
   damento ragionevole delle posizioni lavorative, serie “I quaderni dei diritti”, 5/2018, Trieste, pp. 72-77.
   111 Per un approfondimento sul tema dell’accomodamento ragionevole, cfr. D. Ferri, L’accomodamen-
   to ragionevole per le persone con disabilità in Europa: dal Transatlantic Borrowing alla Cross-Fertiliza-
   tion, in “Diritto pubblico comparato ed europeo”, 2/2017, pp. 381-420; M. Bell, People with Intellectual
   Disabilities and Labour Market Inclusion: What Role for EU Labour Law?, in “European Labour Law
   Journal”, 20/2019, pp. 1-23; S. D’Ascola, Seminario internazionale di diritto comparato del lavoro, Pon-
   tignano XXXIII “Disability and Work”. Modena, 28 giugno-1° luglio 2016. Disabilità e diritto del lavoro:
   istantanee dall’Italia e dall’Europa: sintesi dei lavori, in Aa. Vv., Legge e contrattazione collettiva nel di-
   ritto del lavoro post-statutario, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 415-467. Per quanto concerne l’ordinamento
   italiano, in commento alla sentenza 19 marzo 2018, n. 6798 della Cassazione civile, sez. lav., cfr. M.
   Aimo, Inidoneità sopravvenuta alla mansione e licenziamento: l’obbligo di accomodamenti ragionevoli
   preso sul serio dalla Cassazione, in “Rivista Italiana di diritto del lavoro”, 2, 2019, pp. 161-167; sempre
   in relazione a tale sentenza, cfr. anche O. Bonardi, L’inidoneità sopravvenuta al lavoro e l’obbligo di
   adottare soluzioni ragionevoli in una innovativa decisione della Cassazione, in “Questione Giustizia”,
   3/2018, pp. 101-112.
intese nel medesimo senso: si vedano, ad esempio, l’art. 2, l’art. 5 comma 3, l’art.
27, comma 1, lett. a), g) ed i)112.
Giova ricordare che, nel recepire la Direttiva in questione con il d. lgs. 216/2003,
inizialmente il legislatore italiano non aveva fatto riferimento alcuno all’obbligo di
accomodamento ragionevole summenzionato. Così, a seguito del procedimento di
infrazione promosso dalla Commissione europea e della successiva sentenza di con-
danna (sent. 4 luglio 2013, causa C-312/11) all’Italia per il non corretto recepimento
dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, all’art. 3 del d. lgs. 216/2003 è stato aggiunto
il comma 3 bis, dove appunto si prevede l’obbligo generale, per i datori di lavoro,
di garantire un accomodamento ragionevole delle posizioni lavorative alle esigen-
ze specifiche ed inpiduali dei singoli lavoratori disabili. Tale comma raccorda la
disciplina italiana al dettato della CRPD, laddove stabilisce che «Al fine di garantire
il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i
datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragione-
voli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per
garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I da-
tori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e
strumentali disponibili a legislazione vigente».

Infine, un’ultima precisazione attiene al requisito della ragionevolezza degli oneri              241
finanziari imposti al datore di lavoro tenuto ad adempiere l’obbligo di predispor-
re un accomodamento ragionevole. Ai sensi del Considerando n. 21 della Direttiva
2000/78/CE, tale ragionevolezza va valutata tenendo conto dei costi (finanziari, e
non solo) comportati dall’accomodamento, delle dimensioni e delle risorse finan-
ziarie dell’organizzazione, nonché della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre
sovvenzioni. Opera, dunque, il principio di proporzionalità tra i costi sopportati dal
datore di lavoro e le esigenze del lavoratore con disabilità, sicché il primo non è te-
nuto a porre in essere “stravolgimenti” che non sia effettivamente e oggettivamente

112 In particolare, ai sensi dell’art. 2 CRPD, l’accomodamento ragionevole indica le modifiche e gli
adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, ove ve
ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio,
su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali. È da segnalare che
il principio in oggetto anima anche altri testi normativi; ad esempio, l’art. 39-ter del d.lgs. 165/2001,
introdotto con d.lgs. 75/2017, prevede l’obbligo, per le Amministrazioni pubbliche con più di 200 di-
pendenti, di nominare un responsabile per i processi di inserimento dei lavoratori con disabilità, con
impegni riconducibili alla realizzazione del principio di accomodamento ragionevole delle posizioni
lavorative in relazione alle esigenze specifiche dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità. Il me-
desimo principio si rinviene nel Secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti
e l’integrazione delle persone con disabilità (cap. 7, linea di intervento 5). Possono essere ricondotti
ad esso anche l’art. 16, comma 1, della l. 68/1999, che prevede speciali modalità di svolgimento delle
prove di esame per la partecipazione a concorsi pubblici, nonché l’art. 20 della l. 104/1992, dove si fa
riferimento ausili e tempi aggiuntivi per sostenere le prove d’esame nei concorsi pubblici.
   in grado di sopportare. Al contempo, tuttavia, l’eventuale valutazione dell’inidonei-
   tà del secondo a svolgere le funzioni essenziali dell’attività lavorativa potrà giungere
   solo dopo che il datore di lavoro abbia constatato, in buona fede, l’ineffettività, la
   non realizzabilità o la non ragionevolezza di ogni possibile adattamento della posi-
   zione lavorativa alle specifiche esigenze del lavoratore con disabilità. Quest’ultimo
   conserva dunque il diritto ad essere messo nelle condizioni di partecipare alla vita
   professionale, in una posizione di effettiva uguaglianza con gli altri lavoratori, sì da
   annullare o ridurre il più possibile lo svantaggio conseguente alla menomazione113.



   5. Conclusioni
   Anche se parziale e limitata114, l’analisi normativa e giurisprudenziale offerta in que-
   ste pagine permette di avanzare alcune considerazioni circa lo stato attuale della
   tutela dei diritti delle persone con disabilità. In primo luogo, pare difficile contestare
   che, seppur lungo traiettorie non sempre lineari e prive di ostacoli – e nonostante
   la strada da percorrere ai fini dell’effettiva tutela dei diritti di tali persone sia an-
   cora lunga, almeno per quanto concerne l’ordinamento italiano –, teoria e pratica
   convergono nella direzione del superamento della concezione medica e medica-
   lizzante della disabilità, ed accolgono con sempre maggiore frequenza una visione
   socio-contestuale di quest’ultima.
242  Il mutamento di paradigma in questione è evidente innanzitutto nell’ambito delle
   fonti dove, nel corso degli anni, la normativa adottata sia nell’ambito internazionale,
   sia in quello europeo e all’interno dell’ordinamento italiano si è discostata in modo
   crescente dal riferimento esclusivo alla cura, alla riabilitazione e all’aspetto presta-
   zionale proprio di un Welfare State dai connotati primariamente assistenzialistici115,
   per rivolgersi (anche) ad aspetti quali l’istruzione, la libertà di movimento, l’occu-
   pazione, l’autodeterminazione personale116. La finalità di tale mutamento di pro-


   113 Un’ulteriore fondamentale questione attiene al momento in cui sorge, in capo al datore di lavoro,
   l’obbligo di adottare un accomodamento ragionevole. Al riguardo, si distingue tra l’ipotesi in cui la me-
   nomazione è invisibile e quelle, assimilabili, nelle quali essa è visibile, viene comunicata dal lavoratore
   interessato, o quest’ultimo è assunto ai sensi della l. 68/99. Per approfondimenti, cfr. ancora Garante
   regionale dei diritti della persona, Disabilità, pieto di discriminazione e obbligo di accomodamento
   ragionevole delle posizioni lavorative, pp. 46-48.
   114 La parzialità e la limitatezza dell’analisi sono dovute, oltre che alla responsabilità degli Autori,
   anche al fatto che la materia in oggetto sta assumendo dimensioni considerevoli, per la crescente
   importanza del tema della tutela dei diritti delle persone con disabilità in generale, e della tutela anti-
   discriminatoria in particolare.
   115 Questa, come è noto, è l’impostazione inizialmente adottata anche dalle Nazioni Unite, a partire
   dagli anni Cinquanta del secolo scorso e per i decenni successivi. Sul welfare, cfr. G. Griffo (a cura di),
   Il nuovo welfare coerente con i principi della CRPD: l’empowerment e l’inclusione delle persone con
   disabilità, Edizioni di Comnunità, Lamezia Terme, 2018.
   116 In relazione a quest’ultimo profilo, per quanto concerne l’ordinamento italiano, si pensi alla nor-
   mativa sulle Disposizioni anticipate di trattamento e alle leggi regionali rivolte all’implementazione del
   diritto alla vita indipendente, in attuazione dell’art. 19 della CRPD.
spettiva è ben nota, ma vale la pena rimarcarla nuovamente: l’obiettivo è quello di
favorire una sempre più piena attuazione del diritto all’inclusione, inteso dai teorici
e dagli attivisti con disabilità nei termini di un processo di recupero della dignità da
parte di coloro i quali si trovano in una (perdurante) condizione di confinamento ed
esclusione. In altri termini, il processo in oggetto è diretto a prendere in considera-
zione sin dall’inizio (anziché in modo secondario e derivato) i bisogni delle persone
con disabilità, sì da consentire il riequilibrio dei poteri all’interno della società e
favorire la loro piena partecipazione in ogni ambito della vita117.

Oltre alla presenza di una così copiosa produzione normativa, a rivelare il mutamen-
to di paradigma in atto concorre anche (ed è questo, a ben vedere, il dato più signifi-
cativo) la progressiva tendenza a concettualizzare in modo “nuovo” il soggetto disa-
bile all’interno di tali documenti giuridici: sin a partire dai noti artt. 12 e 19, il dettato
della CRPD impone infatti di presumere la capacità (giuridica e d’agire) dei soggetti
disabili, di promuoverne l’autonomia e l’agency, nonché di predisporre quei sup-
porti e quegli accomodamenti ragionevoli che siano necessari affinché tali inpidui
possano effettivamente esercitare i propri diritti fondamentali e umani in condizioni
di eguaglianza con chi attualmente non presenti (ancora) alcuna disabilità118.

Recependo tali principi, anche i nuovi testi normativi adottati nell’ambito dei persi
livelli di cui abbiamo dato conto in questa sede (ossia quelli nazionale, sovranazio-
nale ed internazionale) tendono a valorizzare la capacità decisionale delle persone
con disabilità, a riconoscerne l’intrinseca dignità, a promuoverne l’autonomia e la              243
partecipazione sociale. I margini di azione delle persone con disabilità di dilatano
dunque enormemente, perché ogni loro aprioristica esclusione da qualsivoglia sfera
di realizzazione personale viene oggi riconosciuta come patentemente discrimina-
toria, in quanto fondata su un pregiudizio abilista relativo all’incapacità di inpidui
che, a causa della permanenza di diffusi stereotipi, per troppo tempo sono stati
considerati a-normali e incapaci e, in quanto tali, esclusi e “oppressi”119. E sembra

117 Su tali aspetti, centrali per il movimento delle persone con disabilità, cfr. almeno G. Griffo, La Con-
venzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e l’ICF, in G. Borgnolo et al. (a cura
di), ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Nuove prospettive per l’inclusione,
Erickson, Trento, 2009.
118 A ben vedere, infatti, la condizione di disabilità è esperibile, almeno potenzialmente, da chiunque,
come esortano a riconoscere i teorici e gli attivisti disabili, laddove si riferiscono a coloro che di norma
vengono considerati “normodotati” ricorrendo all’espressione “temporarily able-bodied”.
119 L’oppressione non è, chiaramente, una categoria propriamente giuridica, eppure pare significativo
farvi riferimento, perché costituisce una parola-chiave del lessico del movimento per i diritti civili delle
persone con disabilità e, più in generale, delle teorie critiche del diritto. Per rimanere al solo contesto
italiano, si pensi alle note e sempre attuali considerazioni di Letizia Gianformaggio «la valorizzazione
delle differenze non richiede che si ripudi l’eguaglianza, ma piuttosto che la si prenda sul serio. Essa
richiede infatti che proprio in nome dell’eguaglianza dei diritti fondamentali si conduca la lotta nei
confronti dell’oppressione di inpidui e gruppi; che finalmente si consideri la violazione del principio
giuridico dell’eguaglianza l’oppressione oltreché la mera discriminazione, o addirittura l’oppressione
anziché la discriminazione» (L. Gianformaggio, Eguaglianza, donne e diritto, a cura di A. Facchi, C. Fa-
ralli, T. Pitch, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 90).
   doversi proprio a tale acquisita consapevolezza la tendenza ad adottare documenti
   normativi che, fermo restando il riconoscimento della specificità della condizione
   disabile e della discriminazione basata sulla disabilità, muovono verso il mainstrea-
   ming e il superamento della logica settoriale in relazione alla tutela dei diritti delle
   persone disabili120.

   L’apertura ad un modo non medicalizzante di comprendere la disabilità tendenzial-
   mente si registra, come si è avuto di riscontrare, anche all’interno del formante
   giurisprudenziale. Invero, l’analisi dei casi ha rivelato che anche la giurisprudenza
   maggioritaria è attenta all’implementazione dei principi espressi all’interno della
   CRPD, laddove si dimostra sempre più aperta all’interpretazione socio-contestua-
   le della disabilità, alla sua dimensione relazionale (si pensi, ad esempio, ai casi di
   discriminazione per associazione), nonché alla garanzia dell’effettività del diritto
   all’inclusione delle persone con disabilità. In siffatto contesto, destano chiaramente
   preoccupazione e si rivelano del tutto censurabili quelle pronunce – ad oggi, fortu-
   natamente, ancora in larga parte minoritarie – che tendono a negare la sussistenza
   di una discriminazione sulla base della disabilità o ad “affievolire” le pretese delle
   persone con disabilità, attraverso argomentazioni che rivelano l’anacronistica ade-
   sione al paradigma medico121.

   Inoltre, dall’analisi della giurisprudenza è emerso anche un ulteriore dato
   significativo: i giudici si dimostrano consapevoli della necessità di tenere conto del
244  carattere “evolutivo” del concetto in questione122, nonché della correlata inadegua-
   tezza di un’interpretazione meramente letterale del dato normativo. Uno degli am-
   biti in cui questa tendenza è maggiormente riscontrabile è, come si è avuto modo
   di vedere, quello relativo all’applicazione della Direttiva 2000/78/CE; negli ultimi
   anni, la Corte di Giustizia ha superato l’interpretazione strettamente formalistica
   del suo dettato, estendendo in linea di principio la tutela antidiscriminatoria ivi pre-
   vista anche alle ipotesi di malattie croniche o di obesità, pur ritenendo necessaria
   la presenza di requisiti quali la durata della limitazione e la sufficiente rilevanza di
   quest’ultima. In altri termini, in conformità con i principi espressi all’interno della
   CRPD, la giurisprudenza sta incominciando a prendere in considerazione sempre
   più compiutamente l’interazione tra un soggetto e l’ambiente circostante, anziché
   soffermarsi esclusivamente sulla condizione personale dell’inpiduo. Quest’ultimo,
   dunque, non è intrinsecamente incapace, ma viene disabilitato da un ambiente/
   contesto che non tiene conto della sua specificità, e che in questo rivela la propria

   120 Ad esempio, nel contesto euro-unitario, sembra poter andare in tale direzione la proposta di una
   nuova Direttiva antidiscriminatoria volta – anche – al contrasto della discriminazione sulla base della
   disabilità, e che si estende al di fuori dell’ambito lavorativo (cfr. Proposal for a Council Directive on
   Implementing the Principle of Equal Treatment between Persons Irrespective of Religion or Belief, Disa-
   bility, Age or Sexual Orientation, COM [2008], 426 final).
   121 Cfr., in particolare, le sentenze analizzate in questa sede, nel § 3, relativo al diritto all’istruzione.
   122 In questo si dimostrano perfettamente in linea con il dettato della CRPD: ai sensi del Preambolo,
   lett. e), infatti, gli Stati Parti della Convenzione riconoscono «che la disabilità è un concetto in evolu-
   zione […]».
discriminatorietà, in quanto non attua l’eguaglianza fino in fondo, ossia non prende
congiuntamente in considerazione il principio di eguaglianza formale e sostanziale,
sì da garantire l’eguale valorizzazione delle differenze123.

Una questione particolarmente complessa e rilevante, a livello giuridico, è poi quel-
la relativa alla relatività e alla variabilità storica, sociale e contestuale del concetto di
disabilità, cui si è avuto modo di fare riferimento – seppur rapidamente – anche nel
corso di questo contributo. Il tema in oggetto è significativo perché, legandosi al rile-
vante margine di indeterminatezza che caratterizza il linguaggio nel suo complesso
e alcuni termini (come, appunto, “disabilità”) in modo più marcato, pone l’assoluta
centralità dell’attività interpretativa, laddove tale “fluidità” amplifica il margine di-
screzionale del giudice e aumenta i profili di incertezza applicativa124. Si è avuto un
esempio di tale difficoltà anche nell’analisi della giurisprudenza della Corte di Giusti-
zia in relazione alla possibilità e/o all’opportunità di discostarsi dal tenore letterale
della Direttiva 2000/78/CE. In particolare, tale aspetto è emerso chiaramente quan-
do, chiamato a pronunciarsi sulla possibilità di considerare l’obesità una condizione
di disabilità, il Giudice di Lussemburgo ha affermato che a certe condizioni, e in base
a quanto disposto all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, è possibile effettuare
tale operazione. Invero, con queste considerazioni, la Corte si è dimostrata consape-
vole della relatività e variabilità del concetto di disabilità, e ha posto altresì in luce la
correlata necessità di superare ogni visione essenzialista della stessa.

Dal punto di vista giuridico, l’abbandono di tale prospettiva presenta certamente               245
rilevanti problemi interpretativo-applicativi, perché fa venire meno – o mette in di-
scussione – alcuni dei parametri fondamentali sui quali finora si è basata l’attività
del giurista e, dunque, induce a mutare in modo significativo orientamenti anche
consolidati. Cionondimeno, soprattutto all’indomani dell’entrata in vigore della
CRPD125, il superamento della logica “medica” appare ormai irrinunciabile, laddove
ci si ponga nell’ottica della tutela dei diritti di tutte le persone (ivi comprese quelle
con disabilità) su un piano di eguaglianza. Il diritto antidiscriminatorio si inserisce
compiutamente in questo contesto, in quanto costituisce certamente uno degli
strumenti principali attraverso cui favorire l’affermazione, anche sul piano giuridico,
del paradigma sociale della disabilità. Ad oggi, si tratta però di un’affermazione non

123 Su tali temi, ampiamente trattati in dottrina, cfr. almeno L. Gianformaggio, Eguaglianza, donne e
diritto, cit.; D. Morondo Taramundi, Il dilemma della differenza nella teoria femminista del diritto, Es@,
Pesaro, 2004; L. Ferrajoli, Principia Juris. Teoria del diritto e della democrazia, I, Laterza, Roma-Bari,
2007, p. 795 s.; si vedano anche i saggi raccolti in F. Rescigno (a cura di), Percorsi di eguaglianza, Giap-
pichelli, Torino, 2016.
124 Tale incertezza si lega anche alla pluralità delle definizioni riconducibili al concetto di disabilità,
presenti nei persi testi normativi; per un’analisi, con particolare riferimento al contesto italiano, si
veda la già citata L. Busatta, L’universo delle disabilità: per una definizione unitaria di un diritto dise-
guale, cit.
125 Come si è avuto modo di riscontrare nel corso di questo contributo, l’ordinamento italiano ha ri-
velato di essere un precursore di tale approccio inclusivo, almeno in relazione a taluni profili, in primo
luogo quello dell’istruzione.
   ancora compiuta; piuttosto, ci troviamo in una fase di transizione, e nonostante si
   possano intravedere alcune traiettorie promettenti, è ancora presto per valutare se
   tale approccio si rivelerà davvero in grado di rispondere alle istanze delle persone
   con disabilità. Certamente, molto dipenderà dalla capacità degli operatori del diritto
   (non unicamente i giudici) di conoscere e di comprendere appieno la rivoluzione
   culturale che è in atto, nonché dalla loro volontà di cooperare al fine di realizzare un
   sistema di tutela dei diritti che finalmente permetta di riconoscere l’eguale diritto
   ai diritti126 a tutte le persone con disabilità. In capo a loro, dunque, è presente una
   significativa responsabilità.




246




   126 Richiamando la nota espressione di Hannah Arendt, si esprimono in tal modo O. Osio, P. Braibanti,
   Il diritto ai diritti. Riflessioni e approfondimenti a partire dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone
   con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2012.
La discriminazione per disabilità - Analisi dei casi
concreti

Sara Antonia Passante*



La disabilità come specifico fattore di discriminazione alla luce delle
fonti interne e delle norme sovranazionali
La nostra Costituzione sancisce, all’art.3, il pieto di diseguaglianze irragionevo-
li, imponendo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.

L’art. 15 dello Statuto Lavoratori, come novellato dal d.lgs. n. 216/2003, art. 2
comma 1, stabilisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a “licenziare il lavora-  247
tore, a discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti,
nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua
affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”.
Tali pieti operano anche con riferimento ad “atti e patti diretti a fini di discri-
minazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o
basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia con
la legge n. 18 del 3.3.2009, ha lo scopo, come previsto all’art.1, di “promuovere,
proteggere, assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di
tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il
rispetto per la loro inerente dignità”. La Convenzione Onu prevede che le persone
con disabilità “includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali
o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impe-
dire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di egua-
glianza con gli altri”.

A seguito di ratifica da parte della UE (con Decisione del Consiglio 2010/48 del
26.11.2009), la Convenzione Onu è parte integrante del diritto dell’Ue.

* Avvocata giuslavorista del Foro di Bologna.
   Inoltre costituiscono fonti del diritto antidiscriminatorio della Unione Europea in
   materia il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Carta dei Diritti fon-
   damentali della Unione Europea e la Direttiva 2000/78, atto questo che, nello sta-
   bilire all’art. 1 un quadro generale “per la lotta alle discriminazioni fondate sugli
   handicap” in materia di occupazione e di condizioni di impiego, risulta assai signi-
   ficativo sul piano della garanzia del diritto al lavoro delle persone con disabilità.

   Secondo la Direttiva 2000/78 sussiste discriminazione diretta quando, sulla base
   dello specifico fattore protetto, una persona è stata trattata meno favorevolmente
   di quanto sia, sia stata o sarebbe stata trattata in altra situazione analoga; sussiste
   discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi, ap-
   parentemente neutri, possano mettere in una posizione di particolare svantaggio
   i soggetti portatori del fattore protetto rispetto ad altri (tranne che risultino og-
   gettivamente giustificati da una finalità legittima ed il mezzo impiegato per il suo
   conseguimento risulti appropriato e necessario).

   La Direttiva 2000/78 vieta la discriminazione (tanto diretta quanto indiretta) e le
   molestie in ragione della disabilità (oltre che in relazione agli altri fattori protetti)
   imponendo nel contempo ai datori di lavoro l’adozione dei c.d. accomodamenti
   ragionevoli, ovvero “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle si-
   tuazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo
   o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno
248
   che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanzia-
   rio sproporzionato”. L’art. 5 della Direttiva chiarisce, inoltre, che l’onere non potrà
   considerarsi sproporzionato se e nella misura in cui sia “compensato in modo suffi-
   ciente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro”.

   Pur proibendo espressamente ogni forma di discriminazione fondata sull’handi-
   cap, la Direttiva 2000/78 non contiene una definizione di disabilità. Ed infatti sino
   ad oggi le questioni interpretative di maggior rilievo sottoposte alla CGUE sono
   sorte proprio con riguardo alla nozione di disabilità.

   Diverse pronunce della CGUE hanno chiarito i “confini” del concetto di “handi-
   cap”; in una prima fase la sentenza Chacon/Navas C-13/05 ha definito la disabilità
   come “un limite che deriva in particolare da minorazioni fisiche, mentali, psichiche
   e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”
   (con esclusione di una assimilazione pura e semplice della nozione di malattia a
   quella di handicap); in una successiva fase – coincidente con la ratifica in Italia e
   nella Unione Europea della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità
   – l’elemento qualificante dell’handicap penta la interazione tra la persona disabi-
   le e l’ambiente di lavoro, comprensivo delle limitazioni ad esso connesso.

   Con la pronuncia HK Danmark nelle cause C-335/11 e C-337/11 la Corte di Giusti-
   zia ha fatto propria la nozione di handicap inpiduata nella Convenzione Onu sui
diritti delle persone con disabilità del 2006, precisando che “la nozione di handicap
di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un qua-
dro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni
di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione pato-
logica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora
tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni
fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di persa natura, pos-
sa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla
vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione
sia di lunga durata….” . È stato precisato che la causa dell’handicap (infortunio o
malattia) è del tutto ininfluente ai fini della Direttiva, che potrà infatti applicarsi
anche in ipotesi di malattia, curabile o meno, a condizione che essa comporti una
limitazione di lunga durata.

Con la pronuncia FOA (caso del signor Kaltoft C-354/13) la Corte di Giustizia è
giunta ad affermare che anche lo stato di obesità di un soggetto può costituire
un “handicap” se è di ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione della persona
interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori.
E nel caso Daouidi (C- 395/15) la Corte di Giustizia ha rilevato che tra gli indizi che
consentono di considerare una limitazione come “duratura” vi è la circostanza che
“all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio la menomazione dell’interessato
non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo, o      249
il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guari-
gione di tale persona” (par. 57).

Con la successiva pronuncia della Corte di giustizia U.E., resa nella causa n.
C-270/16, Canejero, si è ulteriormente precisato che “l’art. 2 paragrafo 2, lettera
b della Direttiva 2000/78 del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in
base alla quale un datore di lavoro può licenziare un lavoratore in ragione di assen-
ze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze
sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore”.

Alla Direttiva 2000/78 è stata data attuazione, nell’ordinamento interno, con il d.l-
gs. n. 216/2003, che all’art. 2 comma 1, prevede : “ai fini del presente decreto si
intende per principio di parità di trattamento l’assenza di qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli han-
dicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia
praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, convinzioni personali, handicap,
età, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia o sarebbe stata
trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando
una disposizione un criterio, una prassi, un atto un patto o un comportamento ap-
   parentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata
   religione, ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di
   una determinata età, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre
   persone...”.

   Il comma 3 bis dell’art. 3 dal d.lgs. 216/2003 (introdotto a seguito di procedura di
   infrazione ad opera del d.l. 76/2013, art. 9 comma 4-ter), opera il rinvio diretto
   alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità statuendo: «Al fine di
   garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disa-
   bilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti
   ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle per-
   sone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n.18 nei luoghi di
   lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri
   lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente
   comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse uma-
   ne, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».

   Questo è dunque il quadro del diritto interno, internazionale e del diritto dell’U-
   nione e la evoluzione interpretativa del concetto di “handicap” della CGUE.



250  Applicazioni nel diritto interno del pieto di discriminazione per handi-
   cap: casi concreti
   La Corte di Cassazione con sentenza n. 6798 del 19.3.2018 ha qualificato “la inido-
   neità del lavoratore” in quanto “derivante da una situazione di infermità di lunga
   durata “e tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione del lavoratore alla
   vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” quale “handicap”.
   In particolare, secondo la Suprema Corte “tale circostanza di fatto pone la fattispe-
   cie di causa nel campo di applicazione della Direttiva 2000/78 del 27.11.200, sulla
   parità di trattamento in materia di occupazione, sussistendo tanto il presupposto
   oggettivo della attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, <<comprese
   le condizioni di licenziamento (articolo 3 della Direttiva)>> che il fattore soggetti-
   vo dell’<<handicap>> protetto dall’art. 1 della Direttiva”. Nella sentenza si preci-
   sa: “riguardo a tale fattore soggettivo va precisato che la nozione di handicap ai
   sensi della Direttiva non è ricavabile dal diritto interno, ma unicamente dal diritto
   dell’Unione Europea, sicché può parlarsi di una nozione europea di disabilità. La
   Corte di Giustizia, sin dalla sentenza Chacon Navas – nella quale vi è una prima
   enunciazione della condizione di handicap ai fini della applicazione della Diretti-
   va - ha riservato a se stessa il compito definitorio, osservando che dall’imperativo
   tanto della applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di
   uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che
   non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli stati membri per quanto ri-
   guarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma es-
sere oggetto nell’intera Comunità di una interpretazione autonoma e uniforme da
effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita
dalla normativa di cui trattasi (sent. cit. punto 40). La definizione di handicap è
stata ulteriormente argomentata nelle pronunzie rese dalla Corte di Giustizia in
epoca successiva, in considerazione della avvenuta ratifica della Convenzione Onu
sui diritti delle persone con disabilità del 2006, il cui articolo 1 comma 2 determina
la platea delle persone disabili (….). La Corte di Lussemburgo è ormai consolidata
nell’intendere la nozione di handicap ai sensi della Direttiva nel senso di: <<una
menomazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali, psichi-
che durature che, in interazione con barriere di persa natura, può ostacolare la
piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base
di uguaglianza con gli altri lavoratori (…)>>; quanto al carattere duraturo di una
limitazione, il Giudice europeo ha precisato che l’importanza accordata dal legi-
slatore dell’Unione alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione
dell’handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione alla vita
professionale è ostacolata per un lungo periodo ( sentenza Chacon Navas, senten-
za Mo.Da C.395-15 punti 41 e 42) .

Diverse pronunce hanno poi dato applicazione alla disposizione di cui all’art. 3
comma 3 bis del d.lgs. 216/2003, affermando la illegittimità e discriminatorietà
del licenziamento intimato al lavoratore penuto inabile alle mansioni in ragione
del mancato adempimento dell’obbligo di dare attuazione ai c.d. “accomodamen-      251
ti ragionevoli”. Tra le misure denominate “accomodamenti ragionevoli” possono
ricomprendersi: l’adeguamento della postazione di lavoro, il superamento delle
barriere architettoniche, l’adozione di  nuove tecnologiche o di perse modalità
organizzative del lavoro etc.

Tali pronunce hanno evidenziato che le mansioni accessibili per i lavoratori disa-
bili devono inpiduarsi proprio in relazione all’obbligo di adottare ragionevoli ac-
comodamenti. In applicazione dei principi in materia di riparto dell’onere della
prova inpiduati dalle disposizioni antidiscriminatorie, se il lavoratore inpiduerà
in concreto la esistenza di possibili ragionevoli “accomodamenti”, non potrà che
spettare al datore di lavoro provare l’inesistenza di eventuali ragionevoli accomo-
damenti o la necessità di uno sforzo “sproporzionato” per darvi attuazione.

La “sproporzione” dello sforzo per l’applicazione degli “accomodamenti ragione-
voli” andrà poi valutata, secondo le previsioni della Direttiva 2000/78, in relazio-
ne alla consistenza dell’impresa, alla disponibilità di sussidi o sgravi o sovvenzioni
pubbliche.

In argomento si richiamano, oltre alla sentenza della Suprema Corte n. 6798/2018
innanzi citata, anche alcune pronunce di merito.

Il Tribunale di Bologna con ordinanza del 20.10.2013, est. Dott. Marchesini, resa
   in procedimento ex art. 1 comma 48 l. 92/2012, ha ritenuto discriminatorio il li-
   cenziamento intimato al lavoratore per inidoneità sopravvenuta alla mansione (il
   giudizio medico dichiarava il lavoratore idoneo alla mansione con limitazioni) in
   stretta connessione temporale con la denuncia di malattia professionale. Il Tribu-
   nale ha ritenuto che la ragione addotta dalla impresa per giustificare la impossibili-
   tà di assegnazione del lavoratore ad altre mansioni, ovvero la mancanza di patente
   di guida di gru e di muletti all’interno del magazzino, “non può certamente esse-
   re considerata ostativa alla eventuale assegnazione di tali mansioni al ricorrente,
   previo conseguimento di tale titolo, senza particolari oneri a carico della società”.
   Secondo il Giudice il licenziamento deve qualificarsi come “discriminatorio per
   handicap”, in accoglimento di una nozione di handicap di derivazione comunitaria,
   ovvero di malattia di lunga durata che abbia l’attitudine ad incidere negativamente
   sulla vita del lavoratore. Poiché “la condizione fisica accertata dal medico com-
   petente e dall’Inail” rappresenta “l’unico motivo del licenziamento intimato dalla
   V…” il Tribunale ha ordinato la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, pure in
   presenza di una realtà imprenditoriale di modeste dimensioni.

   Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2875/2016 del 28.10.2016, est. Dott.
   Mariani, ha così statuito: “il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore [di-
   sabile] durante tale periodo protetto (ndr il periodo di c.d. comporto), salvo che
   sussista una giusta causa di recesso, o il lavoratore sia definitivamente inidoneo
252  allo svolgimento della prestazione, o sia intervenuta la cessazione totale della at-
   tività di impresa. Si aggiunga la recente sentenza della Corte di Giustizia, UE, Sez.
   II, 11.4.2013, n. 335, che al punto 76 opera un riferimento ad una norma del di-
   ritto danese: “un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia
   collegata al suo handicap. Pertanto egli corre un rischio maggiore di accumulare
   giorni di assenza per malattia e quindi di raggiungere il limite dei 120 giorni con-
   templato dall’art. 5 paragrafo 2 della FL…Pertanto appare evidente che la norma
   dei 120 giorni prevista da tale disposizione è idonea a svantaggiare i lavoratori di-
   sabili e dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata
   sull’handicap ai sensi dell’art. 2, paragrafo 2, lettera b della Direttiva 2000/78/CE”.
   Ritiene il Tribunale che “il quadro normativo italiano in tema di periodo di compor-
   to, con particolare riferimento alla categoria dei disabili, debba essere oggetto di
   una interpretazione costituzionalmente orientata alla luce dei sopraesposti corol-
   lari di cui all’art. 3 della Costituzione, nonché oggetto di una lettura conforme ai
   principi di matrice comunitaria in tema di parità di trattamento tra i lavoratori”.

   Nel medesimo senso Trib. Milano, ord. 24.9.2018, e Trib. Bologna, ord. 15.4.2914
   - est. dott. Sorgi.

   Si segnala infine una recente pronuncia del Tribunale di Ferrara (sentenza n.
   14/2019) resa in favore di lavoratrice madre di minore portatore di handicap.

   La lavoratrice, dipendente di una società della grande distribuzione organizzata,
al rientro in servizio dalla maternità e dopo aver fruito del congedo straordinario
per assistere la figlia minore affetta da handicap, risultava destinataria di turni la-
vorativi spezzati e serali e con assegnazione continuativa delle c.d. “chiusure” che
di fatto le impepano di assistere e prestare le cure necessarie alla figlia minore.

La “non corretta” gestione dei turni di lavoro è stata ritenuta esemplificativa di
una discriminazione indiretta, tenuto conto dei fattori protetti dall’ordinamento di
cui risultava portatrice la lavoratrice. Nella fattispecie assumeva rilievo sia la tutela
e protezione collegata all’art. 37 Costituzione e all’art. 25 comma 2 bis del d.lgs.
11.4.2006 n. 198, secondo il quale “costituisce discriminazione, ai sensi del pre-
sente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza
nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità
o dell’esercizio dei relativi diritti”, sia la tutela offerta ai lavoratori disabili e a coloro
che se ne prendono cura di cui al d.lgs. 216/2003, che traspone nell’ordinamento
interno la Direttiva 2000/78 .

Si è evidenziato nel giudizio che l’armonizzazione tra le esigenze aziendali e le esi-
genze della lavoratrice madre di minore portatore di una disabilità costituisce un
“accomodamento ragionevole”; che secondo la Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti delle persone con disabilità la nozione di discriminazione basata sulla
disabilità comprende anche il rifiuto di accomodamenti ragionevoli, cioè delle
modifiche e degli adattamenti necessari ed appropriati per assicurare ai disabili
                                                 253
l’esercizio dei diritti su base di uguaglianza; che la norma interna (d.lgs. 216/2003,
artt. 1e 2) costituisce trasposizione della Direttiva 2000/78 (articoli 1 e 2), e che la
sentenza Coleman della Corte di Giustizia Grande Sezione del 17 luglio 20108 ha
valore vincolante per il giudice interno.

La sentenza Coleman afferma in particolare che gli articoli 1 e 2 della Direttiva
2000/78 vanno interpretati nel senso che il pieto di discriminazione ivi previsto
non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili, ma anche ai lavora-
tori che prestano la parte essenziale delle cure al figlio disabile.

Si è pertanto rilevato che tale principio deve essere applicato indipendentemente
dal tipo di discriminazione (diretta o indiretta) attuata, poiché persamente l’o-
biettivo della Direttiva ed il suo effetto verrebbe tradito.

Oltre alla rimozione degli effetti della discriminazione, si è altresì richiesto il ri-
sarcimento del danno conseguente alla discriminazione subita, tenuto conto del
patimento sofferto dalla lavoratrice per non avere potuto accudire a sufficienza la
figlia minore disabile.

Il Giudice ha accolto il ricorso ritenendo la sussistenza di elementi di fatto suffi-
cienti per affermare, ai sensi dell’art. 28 co. 4 del decreto legislativo 150/2011, che
il trattamento riservato alla lavoratrice madre costituiva discriminazione.
   Ha quindi disposto la rimozione degli effetti della discriminazione, disponendo
   l’assegnazione di turni di lavoro compatibili con le particolari esigenze di cura del
   minore, e ha condannato la società al risarcimento del danno conseguito al tratta-
   mento discriminatorio, liquidato in € 20.000,00.




254
Profili di diritto penale nel diritto antidiscriminatorio

Maria (Milli) Virgilio*



1. Generalità. I delitti di discriminazione
La progressiva valorizzazione del diritto antidiscriminatorio ha condotto all’utilizzo
in materia anche dello strumento del diritto penale. Proprio l’inquadramento del di-
ritto alla non discriminazione come diritto fondamentale della persona ha compor-
tato di ritenerlo meritevole di tutela penale, soprattutto sotto la spinta di varie fonti
giuridiche sovranazionali (per tutte la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio,
del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e
xenofobia mediante il diritto penale). Ovviamente si è trattato di bilanciare attenta-
mente il principio di eguaglianza e il diritto alla non discriminazione con altri diritti
e beni – anch’essi fondamentali - che si prospettano pertanto come potenzialmente
conflittuali: sono quelli di manifestazione del pensiero, di associazione, di religione,  255
e altri tipici delle società democratiche e pluraliste.

Storicamente, nel nostro sistema giuridico, l’intervento penale si è realizzato con
tecniche perse per i vari fattori di discriminazione. Nonostante che il genere sia
stato il primo fattore di discriminazione in evidenza normativa (l. 14 marzo 1985, n.
132, Ratifica ed esecuzione della convenzione sull’eliminazione di ogni forma di di-
scriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979),
il diritto penale discriminatorio si è costruito invece sul modello del fattore razziale.
Penalisticamente infatti dobbiamo partire dalla l. n. 654/1975, intitolata “Ratifica
ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme
di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966”, il cui art.
3 verrà aggiornato nel 1993 (cd. legge Mancino n. 205/1993, ritoccata nel 2006) e
approderà all’attuale testo degli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale (in forza
della cd. riserva di codice, attuata con d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21). Si considerino
anche le modifiche di cui all’art.5 l. 20 novembre 2017 n. 167 Disposizioni per la
completa attuazione della decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 no-
vembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia
mediante il diritto penale.

Tali due disposizioni del codice penale costituiscono il modello penale attuale per i

* Avvocata del Foro di Bologna, pres. Ass. GIUdIT, Giuriste d’Italia.
   delitti di discriminazione, impostato su un doppio binario, costituito da una parte da
   varie fattispecie punitive elencate – appunto - all’art. 604 bis (che punisce condotte
   alquanto eterogenee: propaganda ovvero istigazione a commettere o commissione
   di atti di discriminazione; violenza o atti di provocazione alla violenza; incitamento
   alla discriminazione o alla violenza) e – dall’altra - dalla aggravante generale dell’art.
   604 bis (applicabile ai reati punibili con pena persa da quella dell’ergastolo, com-
   messi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso).
   I motivi di rischio qui contemplati sono quelli “razziali, etnici, nazionali o religio-
   si”. Ma a questo modello si sono riagganciate oggi varie proposte legislative, per
   ricomprendervi altri fattori di discriminazione: omofobia e transfobia (anche sulla
   scorta delle Risoluzioni sull’omofobia del Parlamento Europeo 2006 e 2012). Inoltre,
   al momento in cui scriviamo, è aperta in Parlamento la discussione se aggiungere
   altri motivi a quelli razziali, etnici, religiosi, e cioè anche quelli “fondati sul sesso, sul
   genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.

   La tutela penalistica è rafforzata sul versante civile e amministrativo dagli artt. 43 e
   44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la di-
   sciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che definivano
   la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (diretta e indiretta)
   e approntavano l’azione civile contro la discriminazione.

   Per quanto concerne il profilo penale relativo ad altri persi fattori di discriminazio-
256  ne, occorre riferirsi alle specifiche discipline di settore. Scorrendo le fonti legislative
   che vengono a costituire un ideale “Codice di diritto antidiscriminatorio” (vedi l’e-
   lenco dei titoli di legge, presentato in questo volume) troviamo un apparato penale
   diffuso, per esempio in tema di disabilità e maternità. Quanto al fattore del genere,
   dedicheremo un espressa trattazione alla normativa penale di contrasto alla vio-
   lenza contro le donne basata sul genere, perché ormai definita giuridicamente e
   espressamente come una forma di discriminazione. Infine occorrerà trattare mo-
   lestie e molestie sessuali (in ambito di lavoro e non), anch’esse considerate una
   forma di discriminazione, che hanno finora avuto una attenzione ridotta da parte
   del sistema penale.

   Il contesto di questo nostro esame dei profili di diritto penale nel diritto antidiscri-
   minatorio vede l’indicazione sopranazionale orientarsi nella direzione di un amplia-
   mento della protezione antidiscriminatoria. Così l’Unione europea ha ampliato la
   tutela di tipo lavoristico rispetto al genere, adottando, nel 2000, le seguenti diretti-
   ve: la n. 2000/43/CE del 29 giugno che attua il principio della parità di trattamento
   tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la n. 2000/78/
   CE del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trat-
   tamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e per la lotta alle discri-
   minazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le
   tendenze sessuali (tale Direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
   discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età
o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro
al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento).

Tali due direttive antidiscriminatorie n. 2000/43 e 2000/78 sono state recepite in
Italia con i due d.lgs. n. 215/2003 (Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la pari-
tà di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica)
e n. 216/2003 (Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione,
dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale).

A tale allargamento non ha finora corrisposto da parte del nostro sistema un utilizzo
della strumentazione penale, nonostante - come vedremo - le convenzioni del Con-
siglio d’Europa e le direttive dell’Unione Europea formulino alcune chiare indicazio-
ni di penalizzazione degli illeciti in materia.



2. La violenza contro le donne basata sul genere come forma di discri-
  minazione
Oggi la violenza contro le donne basata sul genere viene qualificata - anche nei testi
normativi interni - come una forma di discriminazione.

Per il nostro ordinamento giuridico due sono i testi sovranazionali di riferimento. Il    257
primo è stato adottato dal Consiglio d’Europa, la Convenzione di Istanbul 11 maggio
2011 «Council of Europe Convention on Preventing and Combating Violence against
Women and Domestic Violence» ed è stata ratificata dall’Italia con legge 27 giugno
2013, n. 77, «Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza do-
mestica» (così la corrente traduzione in italiano). Ma è importante considerare an-
che il secondo testo, questa volta dell’Unione Europea, e cioè la «Direttiva 2012/29/
UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme
minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che so-
stituisce la decisione quadro 2001/220/GAI», cui l’Italia si è adeguata con il decreto
legislativo di attuazione 15 dicembre 2015, n. 212.

È appunto nella Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per prevenire e
combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica (traduzione nostra
del titolo) che troviamo la più recente definizione normativa della «violenza contro
le donne»:

“si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione
contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che pro-
vocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale,
psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o
la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.
   La Convenzione definisce anche la «violenza contro le donne basata sul genere»,
   che

    “ designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce
   le donne in modo sproporzionato», nonché la «violenza domestica»1, che “ desi-
   gna tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano
   all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o
   partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti conpida o abbia con-
   piso la stessa residenza con la vittima”.

   Diversa è la scelta definitoria praticata da parte dell’Unione Europea. Infatti la Di-
   rettiva 2012/29/UE sulle vittime utilizza una persa concettualizzazione, quella di
   «violenza di genere», costruita con riferimento alla persona e alla vittima, e dunque
   non solo alle donne:
   “Per violenza di genere s’intende la violenza diretta contro una persona a causa del
   suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che col-
   pisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un
   danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima.
   La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazio-
   ne delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni
   strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie
   sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose,
258  quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d’o-
   nore». Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno
   di un’assistenza e protezione speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione
   secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza”.

   Dunque, entrambi i testi europei, sia quello del Consiglio d’Europa sia quello della
   Unione, inquadrano la violenza contro le donne come una forma di discriminazione
   (oltre che come violazione dei diritti umani e/o delle libertà fondamentali).

   Il testo sovranazionale tuttora nodale in materia di discriminazioni è la Convention
   on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (CEDAW) del 1979,
   la Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le
   forme di discriminazione contro le donne. Eppure non contiene la parola “violenza”;
   evidentemente il tema non era ancora maturo a livello internazionale e dunque
   occorrerà attendere i primi anni ’90 per vedere focalizzato e poi sancito il collega-
   mento tra discriminazione e violenza.

   Fu la Raccomandazione generale n. 19 del 1992, La violenza contro le donne, a sta-
   tuire formalmente che: “La violenza di genere è una forma di discriminazione che


   1 Tale definizione sarà letteralmente ripresa dalla legge n. 119/2013 (art.3) per disciplinare la misura
   di prevenzione dell’ammonimento questorile, ma caricandola di un ulteriore requisito fortemente re-
   strittivo, perché la circoscrive ai soli atti che siano “gravi ovvero non episodici”.
inibisce gravemente la capacità delle donne di godere dei diritti e delle libertà su una
base di parità con gli uomini”.

Nella Conferenza mondiale di Vienna sui diritti umani del 1993 fu adottata dall’As-
semblea generale ONU la Risoluzione 19 dicembre 1993, n. 48/104, intitolata ap-
punto Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, che contiene
la definizione storica della violenza contro le donne:

Articolo 1. Ai fini della presente Dichiarazione l’espressione “violenza contro le don-
ne” sta a significare ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risul-
tato, o che possa avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o
psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione
arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata.

Nell’art. 3 la Dichiarazione specifica che la violenza contro le donne riguarda princi-
palmente:

a. la violenza fisica, sessuale e psicologica che si produca nella famiglia, inclusi i
  maltrattamenti, gli abusi sessuali delle bambine in ambito familiare, le violenze
  legate alla dote, lo stupro coniugale, la mutilazione genitale femminile e altre
  pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza perpetrata da altri mem-
  bri della famiglia e la violenza legata allo sfruttamento;
                                               259
b. la violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità
  in generale, compreso lo stupro, l’abuso sessuale, le molestie e l’intimidazione
  sul posto di lavoro, nelle istituzioni educative e altrove, la tratta delle donne e la
  prostituzione forzata;

c. la violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o tollerata dallo Stato, ovun-
  que si manifesti.

La Dichiarazione stabilisce inoltre una relazione tra l’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro la donna e l’eliminazione della violenza di genere, enuncian-
do che il primo passo per poter contrastare il fenomeno della violenza è l’eliminazio-
ne delle discriminazioni di natura sessista. La violenza contro le donne è prospettata
come un ostacolo alla parità e alla pace, in quanto ostacolo allo stesso sviluppo
umano, ritenendo che la violenza contro le donne costituisce una manifestazione
delle relazioni di potere disuguale fra uomini e donne.

Progressivamente quella elencazione delle forme di violenza contro le donne sarà
poi ampliata, fino a comprenderne altre ulteriori, come i matrimoni precoci e forza-
ti, i crimini dell’odio (hate crimes), la schiavitù sessuale, e altre.

Il tema della violenza contro le donne fu espressamente trattato nella Conferenza
di Pechino del 1995 che inserì la lotta alla violenza di genere tra le aree prioritarie
di intervento, ritenendo che la violenza contro le donne costituisca sia una
   violazione dei diritti umani della donna sia un impedimento al pieno godimento
   di tutti i suoi diritti.

   Il Programma d’Azione di Pechino del 1995 ampliò il quadro, allargandolo alle guer-
   re e ai conflitti armati, nonché alle migrazioni.

   “11. Gravi violazioni dei diritti fondamentali delle donne avvengono soprattutto nei
   periodi di conflitto armato, e producono omicidi, torture, stupri sistematici, gravi-
   danze forzate e aborti forzati, in particolare nelle strategie di «pulizia etnica». (…)

   116. Alcuni gruppi di donne, come ad esempio le donne che appartengono a mi-
   noranze, le rifugiate, le emigrate, le donne che vivono in condizioni di povertà in
   comunità rurali o isolate, le donne senza risorse, le donne rinchiuse in istituzioni o
   in centri di detenzione, le figlie piccole, le donne disabili, le donne anziane, le donne
   profughe, rimpatriate, le donne che vivono nella povertà e le donne che vivono in
   situazioni di conflitto armato, occupazione straniera, guerre di aggressione, guerre
   civili, terrorismo, incluso il rapimento di ostaggi, sono particolarmente vulnerabili
   alla violenza.”

   In Europa la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle
   Libertà Fondamentali (CEDU) del 1950 non comprendeva nessun riferimento alla
   violenza contro le donne, ma l’art. 142 sanciva il diritto di non discriminazione,
260  elencando tra le forme di discriminazione anche quella fondata sul sesso.

   I vari nessi sono ben illuminati nel Preambolo della più volte citata Convenzione di
   Istanbul 2011:

   “Riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è
   un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne;

   Riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di
   forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle
   donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la
   loro piena emancipazione;

   Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata
   sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei mecca-
   nismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione
   subordinata rispetto agli uomini;

   Riconoscendo con profonda preoccupazione che le donne e le ragazze sono spesso

   2 Art.14 Divieto di discriminazione. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente
   Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul
   sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine
   nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra
   condizione.
esposte a gravi forme di violenza, tra cui la violenza domestica, le molestie sessuali,
lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore”
e le mutilazioni genitali femminili, che costituiscono una grave violazione dei diritti
umani delle donne e delle ragazze e il principale ostacolo al raggiungimento della
parità tra i sessi;
Constatando le ripetute violazioni dei diritti umani nei conflitti armati che colpiscono
le popolazioni civili, e in particolare le donne, sottoposte a stupri diffusi o sistematici
e a violenze sessuali e il potenziale aggravamento della violenza di genere durante
e dopo i conflitti;

Riconoscendo che le donne e le ragazze sono maggiormente esposte al rischio di
subire violenza di genere rispetto agli uomini;
Riconoscendo che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato e
che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica;

Riconoscendo che i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto te-
stimoni di violenze all’interno della famiglia;

Aspirando a creare un’Europa libera dalla violenza contro le donne e dalla violenza
domestica” (…).

Anche a livello della Unione europea registriamo la adozione di testi specifici, oltre
alla già citata Direttiva vittime del 2012, come la Raccomandazione Rec(2002)5 sulla           261
protezione delle donne dalla violenza, la Raccomandazione CM/Rec(2007)17 sulle
norme e meccanismi per la parità tra le donne e gli uomini e la Raccomandazione
CM/Rec(2010)10 sul ruolo delle donne e degli uomini nella prevenzione e soluzione
dei conflitti e nel consolidamento della pace. Inoltre dobbiamo riferirci ai testi fon-
damentali del 2007: la Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. e il Trattato di Lisbona.

Il nostro sistema interno - quanto alle discriminazioni - ha registrato un ampliamen-
to dei parametri di discriminazione considerati dalle normative intrecciate, anche se
ad oggi il legislatore non ha composto un “Codice contro le discriminazioni”, come
invece è avvenuto per il “Codice per le pari opportunità”3 .
Oggi nel nostro ordinamento le politiche di contrasto della violenza contro le donne
basata sul genere non sono raccolte in un testo organico, ma sono disperse tra i vari
codici e i vari altri testi normativi. Non è questa la sede per esaminarle; tuttavia pos-
siamo esprimere un giudizio complessivo. Le politiche in materia continuano a muo-
vere prevalentemente dal diritto penale; tendono cioè a privilegiare lo strumento
penale e il perseguimento degli aggressori (c. d. ipertrofia e primazia del diritto pe-
nale). Nella produzione legislativa nazionale, selezionando le fonti che abbiano a
oggetto la libertà femminile e i c.d. diritti delle donne, risulta un evidente progressi-
vo aumento di testi di natura penalistica, che si intensificano decisamente nelle ulti-


3 Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, decreto legislativo, 11/04/2006 n. 198, integrato dal
d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, poi modificato con d.lgs. n. 152/2015 e l. n. 205/ 2017
   me due legislature, la XVII e la XVIII, per culminare nei due testi nodali: la legge c.d.
   «sul femminicidio», come viene comunemente identificata la prima parte dell’ete-
   rogeneo testo legislativo del d.l. n. 93/2013, con la relativa legge di conversione n.
   119/2013, recante: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto
   della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento
   delle province» e il “Codice Rosso” (la Legge n. 69 del 19 luglio 2019, intitolata “Mo-
   difiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia
   di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”). Insomma, nella scelta tra
   le tre P della Convenzione di Istanbul 2011 – Prevenzione, Protezione, Punizione –
   dobbiamo costatare che la Punizione ha preso il sopravvento. Eppure il diritto pena-
   le, che è certamente il diritto dotato della più forte carica simbolica, è certamente
   il più debole intrinsecamente quanto a capacità di incidere sui rapporti di potere.
   Invece le indicazioni di diritto antidiscriminatorio ben dovrebbero articolarsi anche
   in ambito civilistico e comunque extrapenalistico, come da ultimo prescrive anche il
   Consiglio d’Europa con la Raccomandazione CM/Rec(2019)1 del Comitato dei Mini-
   stri agli Stati membri sulla prevenzione e la lotta contro il sessismo.

   La tematica nazionale e sovranazionale, con i suoi intrecci e sovrapposizioni, ha in-
   fluenzato anche le fonti normative regionali.

   Quanto alla legislazione regionale, un modello di riferimento può essere la legge
   regionale Emilia-Romagna 27/06/2014, n. 6, che già nel titolo Legge quadro per la
262  parità e contro le discriminazioni di genere, apre alla tematica della discriminazione
   e delle violenze contro le donne.

   Nel testo l’esordio proclama un intento, quello che (art. 1) “la Regione Emilia-Ro-
   magna favorisce il pieno sviluppo della persona e sostiene la soggettività e l’autode-
   terminazione femminile come elemento di cambiamento e progresso della società;
   contrasta ogni tipo di violenza e discriminazione di genere in quanto lesive dei diritti
   umani, della libertà, della dignità e dell’inviolabilità della persona (…)”.

   Poi l’art 8 allarga il concetto di discriminazione, attribuendo alla “diffusione della cul-
   tura paritaria” il carattere di “strumento di prevenzione e contrasto di ogni violenza
   e discriminazione sessista anche di tipo omofobico e transfobico”.



   3. Le molestie e le molestie sessuali, in ambito lavorativo e non
   Già dalla Direttiva 2006/54/CE4 è affermato esplicitamente che “le molestie e le
   molestie sessuali” siano “contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini
   e donne e costituiscono forme di discriminazione fondate sul sesso ai fini della pre-
   sente Direttiva. (...) Queste forme di discriminazione dovrebbero pertanto essere

   4 Prima ancora, era intervenuta la Raccomandazione - 27/11/1991, n.131 Allegato n. 1, Tutela della
   dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro. Codice di condotta relativo ai provvedimenti
   da adottare nella lotta contro le molestie sessuali.
vietate e soggette a sanzioni efficaci proporzionate e dissuasive”. È la anticipazione
della più recente Risoluzione del Parlamento europeo 2897 del 26 ottobre 2017
sulla lotta alle molestie e agli abusi sessuali nell’UE.

Tali strumenti sovranazionali contribuiscono a rendere alquanto articolato l’attuale
panorama normativo, che è segnato da una oscillazione tra il piano della predispo-
sizione di strumenti normativi di tutela giuslavoristica (a tutela sia di dignità sia di
sicurezza) e quello invece della repressione penale. Le molestie sessuali infatti ven-
gono ricondotte talora nell’alveo delle forme di discriminazione e talaltra in quello
della tutela o della “libertà sessuale” (ma per colpire condotte di minore disvalore
sociale), o della tranquillità e dignità della lavoratrice (e del lavoratore). L’esempio
trainante è quello del sexual harassement dei sistemi di common law (U.S.A. e Ca-
nada) che, piuttosto che in ambito penalistico, si è sviluppato prevalentemente in
processi civilistico-giuslavoristici, cogliendo nella molestia sessuale una violazione
del pieto di discriminazione (MacKinnon, Sexual Harassment of Working Women:
A Case of Sex Discrimination, 1979).

Del resto a una pluralità di piani, non solo penalistici, indirizza anche la Convenzione
di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011:
Articolo 40 – Molestie sessuali. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo
necessarie per garantire che qualsiasi forma di comportamento indesiderato, verba-
le, non verbale o fisico, di natura sessuale, con lo scopo o l’effetto di violare la dignità
di una persona, segnatamente quando tale comportamento crea un clima intimida-         263
torio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, sia sottoposto a sanzioni penali o ad
altre sanzioni legali.

Le molestie (in particolare quelle sessuali nei luoghi di lavoro) costituirono oggetto
di studio e di elaborazione, a livello europeo, fin dal 1976, quando il Consiglio Euro-
peo con una raccomandazione invitò gli Stati a rimuovere negli ambienti di lavoro
le discriminazioni basate sul sesso. Nel 1986 il Parlamento Europeo approvò una
risoluzione dell’11 giugno 1986 sulla violenza contro le donne. È il primo atto comu-
nitario in cui si evidenzia l’esistenza di un problema relativo alla dignità delle donne
e degli uomini sul lavoro. Tra l’altro incaricava un comitato di esperti di elaborare un
rapporto sul fenomeno delle molestie negli Stati membri. Il Rapporto, denominato
Rubenstein, La dignità della donna nel lavoro - Rapporto sul problema delle molestie
sessuali negli Stati membri della Comunità europea, ottobre 1987, a cura di Michael
Rubenstein, fu redatto nel 1987. Evidenziava la necessità di intervenire non solo sul
piano sanzionatorio, ma anche a livello di prevenzione, attraverso interventi legisla-
tivi. Proprio sulla base del rapporto il Consiglio della Comunità Europea adottò nel
1990 una risoluzione sulla tutela degli uomini e delle donne nell’ambiente di lavoro,
sollecitando anche la Commissione ad elaborare un “codice di condotta europeo”.

Arrivammo così alla Raccomandazione della Commissione delle Comunità Europee
del 27 novembre 1991 n. 131 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini
sul lavoro, in cui si invitavano gli Stati membri ad adottare un codice di condotta
   riguardo alle molestie sessuali sul lavoro proponendo una definizione di molestia
   sessuale, che si è poi imposta come modello anche per l’attività successiva del legi-
   slatore e che introduceva, come centrale, il concetto di atto “unwanted” (tradotto in
   italiano con “non desiderato”, invece che con “non voluto” o “contro la volontà”).

   Al contempo sono sempre più diffusi protocolli e accordi aziendali (sulla traccia di
   testi europei, nazionali e regionali) di diritto antidiscriminatorio che contengono
   espressi riferimenti alle molestie sessuali e attribuiscono poteri (anche) di iniziativa
   alle Consigliere di pari opportunità nazionale, regionali e provinciali.

   Certo, in via preliminare rispetto alla trattazione, si pone un problema definitorio
   e di lessico giuridico per inpiduare, attraverso le fonti giuridiche, quali condotte
   siano ascrivibili alle quattro categorie di “molestie” e “molestie sessuali” (con la ul-
   teriore specificazione che entrambe si collochino in ambito di lavoro oppure in ogni
   altro ambito) e come siano penalmente considerate.

   Il testo legislativo base è quello del Codice Pari opportunità (come modificato nel
   2015 e poi con l. n. 205 del 27.12.2017, cd. Legge di Bilancio 2018) che offre le “No-
   zioni di discriminazione” all’art. 26:

   1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei compor-
   tamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o
264  l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima
   intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

   2. Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei
   comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, ver-
   bale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice
   o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
   offensivo.

   2-bis. Sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli
   subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comporta-
   menti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi.

   3. Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o
   delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai ((commi 1, 2 e 2-bis)) sono nulli
   se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti mede-
   simi. Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte
   del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione
   volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

   3-bis. La lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle
   discriminazioni per molestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei
   pieti di cui al presente capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato,
trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o
indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamen-
to ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il
mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché’ qualsiasi
altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante. Le tu-
tele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche
con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di
calunnia o diffamazione ovvero l’infondatezza della denuncia.

3-ter. I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad
assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità
dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le
iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fe-
nomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori
di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento
nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognu-
no e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di
reciproca correttezza.

In verità, qui, all’art. 26 del Codice Pari Opp. il profilo penale è del tutto assente.
Non così è per la già riportata Convenzione di Istanbul 2011 del Consiglio d’ Europa,
che all’ 40 disciplina le molestie sessuali, definendole e indicando sì la sanzione pe-
nale, ma prescrivendola agli Stati solo come una delle possibili sanzioni legali.       265
Oggi la autorevolezza di questa fonte, che – ripetiamo – lascia aperta agli stati la du-
plice opzione di politica legislativa, se utilizzare la sanzione penale o altre sanzioni di
altra natura, deve confrontarsi con la sopravvenuta Convenzione sull’eliminazione
della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro n. 190 del 10 giugno 2019 della
Conferenza generale dell’organizzazione internazionale del lavoro. Anche tale testo
affronta il problema definitorio:

Articolo 1

1. Ai fini della presente Convenzione:

a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pra-
tiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica
occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un
danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie
di genere;

b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei
confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo
sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie ses-
suali.
   2. Fatto salvo quanto stabilito ai commi a) e b) del paragrafo 1 del presente articolo,
   le definizioni di cui alle leggi e ai regolamenti nazionali possono prevedere un con-
   cetto unico o concetti distinti.

   Questo testo amplia e intreccia vari concetti, accorpa violenza e molestie ricondu-
   cendole entrambe al genere, senza tuttavia definire le molestie sessuali.

   Può aiutarci a capire il Report Istat 13 febbraio 2018, intitolato “Le molestie e i ricatti
   sessuali sul lavoro”5.

   L’Istat fa riferimento a molestie sessuali, molestie a sfondo sessuale, atti sessuali
   subiti da minorenne (uomo o donna).

   Le molestie sessuali vengono distinte - sempre dall’Istat – in:

   • molestie verbali (tra cui telefonate oscene o messaggi);
   • molestie fisiche con contatto fisico, come essere avvicinate toccate abbracciate
     accarezzate baciate contro la propria volontà (senza attingere le cd zone eroge-
     ne, perché queste sono già comprese nella attuale violenza sessuale e così già
     sanzionate penalmente);
   • molestie attraverso il web;
   • gli atti sessuali sul luogo di lavoro (nella triplice forma di ricatto per l’assunzione,
     per mantenere il posto e per ottenere progressione di carriera).
266
   Vengono inoltre elencati esibizionismo (ma ora gli atti osceni in luogo pubblico sono
   stati depenalizzati…) e pedinamenti.

   Questo, secondo ISTAT, è l’ambito concreto e fattuale delle molestie sessuali (non-
   ché molestie e ricatti),

   Fatto è che manca tuttora nel nostro sistema penale interno una fattispecie pena-
   le specifica di molestie sessuali. In concreto, la repressione penale delle molestie
   e molestie sessuali sul lavoro (e non) utilizza gli strumenti penalistici non specifici
   presenti nel nostro Codice Penale: la violenza sessuale (art 609-bis), la molestia o
   disturbo alle persone (art.660), gli atti persecutori (art.612-bis), i maltrattamenti
   (art.572). Li ricordiamo.

   art. 660. Molestia o disturbo alle persone

   Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono,
   per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è
   punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a cinquecentosedici euro.

   Art. 609-bis. (Violenza sessuale)


   5 www.istat.it/it/files/2018/02/statistica-report-MOLESTIE-SESSUALI-13-02-2018.pdf
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno
a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1. abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al
momento del fatto;

2. traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra
persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Art. 612-bis. (Atti persecutori)

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da
cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un
fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al
medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare
le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o por-
zia- to, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa
ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.         267

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di
una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3
della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della
querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti
di un minore o di una persona con disabilità, di cui all’articolo 3 della legge 5 feb-
braio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale
si deve procedere d’ufficio. La remissione della querela può essere soltanto proces-
suale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante
minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma.

Art. 572 (Maltrattamenti contro familiari e conviventi)

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona del-
la famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a
lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’e-
sercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a
nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni;
se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
   Con un tale apparato normativo, la effettiva collocazione delle molestie sessuali
   (non sessuali, in ambito o no di lavoro) nelle varie figure di reato ha messo alla pro-
   va interpreti e giurisprudenza.

   Se sono molestie di petulanza sono punite dall’art 660, contravvenzione e non de-
   litto, fattispecie ormai vetusta, nata quando c’era solo il telefono fisso (a meno che
   non vengano classificate come reato di violenza privata).

   Se le molestie hanno la caratteristica di essere “sessuali” (in ogni ambito, di lavoro
   o non) possono rientrare nella violenza sessuale, ma solo ai requisiti là indicati, an-
   cora in gran parte quelli del codice 1930: condotta di costrizione, con la modalità di
   violenza e minaccia, con “atti sessuali”.

   Dal 2009 le molestie (tutte, non solo le sessuali) sono ora comprese nel nostro de-
   litto di atti persecutori, che punisce le condotte di chi minaccia o molesta. In verità
   tale previsione è andata a confliggere con la successiva indicazione della Convenzio-
   ne Istanbul 2011, che chiedeva di colpire come stalking6 solo le condotte di minaccia
   reiterata, escludendo le condotte di molestia sessuale, cui dedicava altra specifica
   disposizione, quella dell’art. 40, sopra riportato. Invece il legislatore del 2009 aveva
   accorpato minaccia e molestia sotto la fattispecie di atti persecutori. Quindi anche le
   molestie e le molestie sessuali sono state collocate in quell’ambito, imponendo l’ul-
   teriore requisito dell’evento triplice, relativo alla serenità e all’equilibrio psicologico,
268  nonché quello della reiterazione delle condotte.

   La casistica giurisprudenziale aiuta a porre alcuni punti fermi.

   Così Cassazione penale sez. III, 18/12/2019, n. 5918 distingue violenza sessuale ex
   art. 609 bis e molestia e disturbo ex art. 660 e esclude la derubricazione nel rea-
   to di cui all’art. 660 c.p. in un caso di toccamento delle parti intime e di baci, che
   unitariamente valutati non possono far configurare la molestia sessuale, che pre-
   suppone l’assenza di contatti fisici (sessuali) tra le parti. La distinzione era già stata
   affrontata da Cass. Sez. III, n. 27042 del 12/05/2010: “Integra il reato di violenza
   sessuale e non quello di molestia sessuale (art. 660 c.p.) la condotta consistente nel
   toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile
   la contravvenzione solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale o di atti
   di corteggiamento invasivo ed insistito persi dall’abuso sessuale. In motivazione la
   Corte ha precisato che, se dalle espressioni verbali si passa ai toccamenti a sfondo
   sessuale, il delitto assume la forma tentata o consumata a seconda della natura del
   contatto e delle circostanze del caso”. Idem Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17
   aprile 2013, n. 40973, e Cass. Sez. III 25.1.2006 n. 7369: il toccamento dei glutei va
   considerato violenza sessuale e non molestia, atteso che nel reato di violenza la con-
   dotta sanzionata (cioè gli atti sessuali) comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in

   6 Articolo 34 – Atti persecutori (Stalking). Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessa-
   rie per penalizzare un comportamento intenzionalmente e ripetutamente minaccioso nei confronti di
   un’altra persona, portandola a temere per la propria incolumità.
un contatto corporeo, pur se fugace ed estemporaneo, ponga in pericolo la libera
autodeterminazione della vittima.

Secondo Cassazione penale, sez. III, 05/07/2019, n. 41951 integra il reato di violenza
sessuale e non quello di molestie di cui all’ art. 660 c.p. la condotta di chi, per sod-
disfare o eccitare il proprio istinto sessuale, mediante comunicazioni telematiche
che non comportino contatto fisico con la vittima, induca la stessa al compimento di
atti che comunque ne coinvolgano la corporeità sessuale e siano idonei a violarne
la libertà personale e non la mera tranquillità (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto
immune da censure la sentenza con la quale il ricorrente era stato condannato per il
delitto di violenza sessuale per avere indotto, con plurime comunicazioni telemati-
che, una minore degli anni 14 a compiere giochi erotici e ad avere rapporti sessuali
virtuali).

Cassazione penale sez. III, 16/01/2015, n.9222 ha riprecisato, in tema di violenza
sessuale, che sono considerati atti sessuali quelli che siano idonei a compromettere
la libera determinazione della sessualità della persona o ad invadere la sfera ses-
suale con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di au-
torità), sostituzione ingannevole di persona, abuso di inferiorità fisica o psichica, in
essi potendosi ricomprendere anche quelli insidiosi e rapidi, e che riguardino zone
erogene su persona non consenziente, come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci
(così questa sez. III, n. 42871 del 26.9.2013, Z. e altro, rv. 256915). Le molestie sono
un minus con connotazioni assolutamente perse. La decisione ha anche tracciato        269
il confine rispetto agli atti persecutori. Se è vero, infatti che realizza gli estremi della
molestia e disturbo alla persona la condotta dell’agente, insistente e petulante,
idonea a turbare in modo apprezzabile le normali condizioni nelle quali si svolge
la vita della persona molestata (cfr. sul punto sez. VI, n. 2967 del 25.1.1978, Laglia,
rv. 138326), è anche vero che, a differenza che nel delitto di cui all art. 612 bis cod.
pen., ai fini della sussistenza del reato previsto dall’art. 660 cod. pen. la molestia o
il disturbo devono essere valutati con riferimento alla psicologia normale media, in
relazione cioè al modo di sentire e di vivere comune. Nell’ipotesi in cui il fatto sia
oggettivamente molesto o disturbatore, in altri termini, è pertanto irrilevante che la
persona offesa non abbia risentito alcun fastidio (così sez. V, n. 7355 del 23.5.1984,
De Gasperi, rv. 165668, nel caso di un continuo e pressante tallonamento con la
vettura da parte dell’autore del reato nei confronti della vittima). II quid pluris che
caratterizza lo stalking rispetto alle minacce ed alle molestie, in sintesi, è costituito
da due elementi: a) la reiterazione delle condotte, sicché l’illecito può ascriversi
nel novero dei reati abituali; b) la produzione in un soggetto ben determinato e in
relazione alla sua psicologia di un grave e perdurante stato di ansia o di paura o di
un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona
al medesimo legata da una relazione affettiva o una alterazione, non voluta, delle
proprie abitudini di vita.

Il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia, se-
   condo Cassazione penale sez. III, 03/10/2019 n.3455 e Cassazione Sez. III, n. 40663
   del 23/09/2015, qualora, attesa la persità dei beni giuridici offesi, le reiterate con-
   dotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledano
   anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale, potendosi confi-
   gurare l’assorbimento esclusivamente nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le
   due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera
   reiterazione degli atti di violenza sessuale.

   Nella penalizzazione delle molestie e molestie sessuali (in ambito di lavoro e non)
   si presentano dunque molte sovrapposizioni di fattispecie e qualche vuoto che ren-
   dono difficile all’interprete scegliere. Da tempo sono prospettate ipotesi di riforma,
   con la creazione di nuove ipotesi, ma quegli stessi motivi rendono arduo anche cre-
   are una nuova norma penale specifica, perché ciò presupporrebbe la contestuale
   modifica delle altre norme complementari e confinanti, in particolare degli atti per-
   secutori (art.612 bis) e della violenza sessuale (art. 609 bis).




270
Molestie sessuali e sicurezza sul lavoro: obblighi e
responsabilità del datore di lavoro
Antonella Rimondi*



1. La normativa comunitaria
Oltre a ledere la dignità e la libertà della persona e a rappresentare una odiosa for-
ma di discriminazione, le molestie e le molestie sessuali costituiscono un rischio per
la salute e la sicurezza, minano la produttività e rappresentano una importante
fonte di costo per la collettività e per le imprese.
Tali aspetti, di indubbio rilievo e ben presenti alle istituzioni comunitarie, restano
spesso ai margini del dibattito sull’argomento.
Eppure, già con la Risoluzione sulla violenza contro le donne, approvata l’11 giu-
gno 1986, il Parlamento europeo, affrontando tra gli altri il tema delle molestie
sessuali, chiedeva alla Commissione “di condurre uno studio:
                                                   271
  a) che dia una valutazione dei costi sostenuti dagli enti socio-previdenziali de-
    gli Stati membri per malattie o assenze dal lavoro dovute a ricatti sessuali
    nell’ambito lavorativo (malattie psicosomatiche, nevrosi, ecc.);
  b) che analizzi la relazione intercorrente fra le cadute di produttività nelle
    aziende pubbliche o private dove tali casi si verificano e il ricatto sessuale
    nella sfera professionale”;
mostrando di tenere in debita considerazione non solo i costi umani, ma anche so-
ciali e produttivi, di tale fenomeno.
Partendo proprio dagli esiti di tale studio1, il Comitato consultivo per l’uguaglianza
delle opportunità tra donne e uomini, con parere espresso all’unanimità il 20 giugno
1988, evidenziava la necessità di adottare una raccomandazione e un codice di con-
dotta specificamente dedicati al tema delle molestie sessuali sul lavoro nei confronti
di entrambi i sessi.
Significativi, per quanto qui di specifico interesse, alcuni passaggi della Introduzione
del “Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le
molestie sessuali”, adottato dalla Commissione il 27 novembre 1991, unitamente
alla Raccomandazione sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro
1 Rubenstein M., La dignità della donna nel mondo del lavoro – Rapporto sul problema della molestia
sessuale negli Stati membri delle Comunità europee, Brussels-Luxembourg, 1988.


* Avvocata del Foro di Bologna.
   (92/131/CEE), e redatto in conformità alla Risoluzione del Consiglio delle Comunità
   europee del 29 maggio 1990 sullo stesso argomento:
   “Le molestie sessuali guastano l’ambiente di lavoro e possono compromettere con
   effetti devastanti la salute, la fiducia, il morale e le prestazioni di coloro che le subi-
   scono. L’ansia e lo stress provocati da abusi di questo genere causano assenze per
   malattia, una minore efficienza o un allontanamento dal posto di lavoro e la ricerca
   di un nuovo impiego. I lavoratori subiscono spesso le conseguenze negative di una
   siffatta situazione e danni a breve e lungo termine per quanto concerne le prospetti-
   ve professionali quando si trovano costretti a cambiare lavoro. Le molestie sessuali
   possono inoltre coinvolgere negativamente anche quei lavoratori che non sono fatti
   segno di comportamenti indesiderati, ma che si trovano ad essere testimoni o che
   vengono a conoscenza del verificarsi di un comportamento di questo tipo.
   Anche i datori di lavoro si trovano a subire le conseguenze avverse di abusi a sfondo
   sessuale. Vi è infatti un impatto diretto sulla redditività dell’impresa nel caso in cui
   il personale si assenti per malattia o si licenzi perché esposto a molestie sessuali. Ne
   risente inoltre anche l’efficienza economica dell’impresa in cui si registra un calo di
   produttività dei lavoratori costretti ad operare in un clima in cui non viene rispettata
   l’integrità personale”.
   Il Codice, da applicarsi sia nel settore pubblico che nel settore privato, era volto a
   fornire orientamenti pratici a datori di lavoro, sindacati e lavoratrici/lavoratori al
   fine di prevenire il verificarsi di molestie a sfondo sessuale in ambito lavorativo e
272  di garantire l’adozione di procedure idonee a risolvere i problemi eventualmente
   verificatisi e a prevenirne il ripetersi.
   Partendo dalla definizione di molestia sessuale, mutuata da quella già coniata dal
   Consiglio con la Risoluzione 29 maggio 1990, il Codice rivolge una serie di racco-
   mandazioni ai sindacati e ai lavoratori ma, in primo luogo, ai datori di lavoro, i quali
   sono tenuti “ad intervenire in caso di molestia sessuale perpetrata da un dipendente
   come nel caso di qualsiasi altra forma di comportamento scorretto, nonché ad aste-
   nersi personalmente dal molestare i dipendenti”.
   Infatti, “poiché l’abuso sessuale rappresenta un rischio per la salute e la sicurezza
   spetta ai datori di lavoro adottare i provvedimenti adeguati al fine di ridurre al mini-
   mo il rischio come nel caso di altri tipi di rischio. Dal momento che l’abuso sessuale
   rappresenta spesso un abuso di potere, i datori di lavoro possono essere considerati
   responsabili dell’uso improprio dell’autorità da essi conferita”.
   In ragione di quanto sopra, il Codice raccomanda ai datori di lavoro:
   • di testimoniare l’interesse e l’impegno nel contrasto alle molestie sessuali me-
     diante una dichiarazione di principio volta ad affermarne l’illiceità e l’inammis-
     sibilità e a sancire il diritto di tutti i lavoratori e le lavoratrici a protestare qualora
     ne siano vittime;
   • di definire ciò che si intende per comportamento inadeguato sul posto di lavoro,
     stabilendo le relative sanzioni;
   • di mettere a punto una apposita procedura volta a disciplinare le segnalazioni
  e ad assicurare un rapido e serio riscontro, garantendo il segnalante da processi
  di vittimizzazione o da eventuali ritorsioni, pur nel rispetto del diritto di difesa
  riconosciuto a tutte le parti in campo;
• di garantire un’efficace comunicazione a tutti i dipendenti della politica adotta-
  ta dall’azienda nel contrasto alle molestie sessuali e di sollecitare la loro adesio-
  ne e il loro impegno a garantire ai colleghi un trattamento che rispetti la dignità
  della persona;
• di assicurare ai dirigenti (e ai quadri) una adeguata formazione in materia,
  al fine di sensibilizzarli al rispetto delle responsabilità loro affidate nell’ambito
  della politica inpiduata dal datore di lavoro e di garantire alle figure chiamate
  a svolgere ruoli ufficiali nell’ambito delle procedure aziendali una formazioni
  specialistica;
• di inpiduare e designare una figura incaricata (il c.d. consigliere di fiducia) di
  fornire consulenza e assistenza ai dipendenti oggetto di attenzioni moleste al
  fine di contribuire alla soluzione dei problemi che vengono segnalati, sia con
  mezzi informali che formali. A tale figura devono essere fornite risorse adeguate
  e idonea protezione contro eventuali ritorsioni;
• di garantire che le indagini interne conseguenti alla presentazione di una segna-
  lazione siano svolte con la massima riservatezza, nel rispetto dei diritti di tutti i
  soggetti coinvolti (in particolare: il diritto di farsi assistere da un rappresentante
  del sindacato di appartenenza e, per l’incolpato, il diritto di essere dettaglia-    273
  tamente informato circa il contenuto della segnalazione e di essere sentito a
  propria discolpa).
Il tema del Consigliere di fiducia è stato in seguito ripreso dal Parlamento europeo
con la Risoluzione dell’11 febbraio 1994.
Dopo avere considerato che:
• un numero elevato di donne e di uomini subiscono situazioni di molestie ses-
  suali sul luogo di lavoro e che tali situazioni costituiscono una minaccia per le
  pari opportunità in ambito professionale;
• le molestie sessuali sul luogo di lavoro non solo attentano alla dignità della per-
  sona, ma comportano anche una minore produttività e un costo supplementare
  in materia di gestione del personale;
• la raccomandazione e il codice di condotta (adottati dalla Commissione il 27
  novembre 1991) costituiscono un primo passo, ma occorre compiere ulteriori
  progressi;
il Parlamento:
• invita gli Stati membri ad adottare una legislazione che obblighi il datore di
  lavoro, da un lato, a prendere misure di prevenzione e a prevedere sanzioni nei
  regolamenti interni alle imprese e, dall’altro, a designare un consigliere con il
  compito di combattere i casi di molestie sessuali, proteggendo tanto le vittime
     quanto i testimoni;
   • chiede che la designazione del consigliere venga effettuata di concerto tra le
     parti sociali e la direzione delle imprese e, se del caso, in collaborazione con i
     competenti ispettorati del lavoro;
   • ritiene, in via generale, che il ruolo di consigliere si attagli meglio ad una donna,
     posto che il maggior numero di vittime sono, appunto, di genere femminile;
   • chiede che i datori di lavoro attribuiscano al consigliere mezzi adeguati per agire
     (a partire dalla formazione) e che lo tutelino adeguatamente da eventuali ritor-
     sioni al fine di salvaguardare la sua indipendenza;
   • chiede che i lavoratori vengano informati dell’avvenuta designazione del consi-
     gliere e delle modalità per contattarlo;
   • insiste affinché le funzioni del consigliere non si limitino all’ascolto delle vittime
     ma comportino anche azioni di prevenzione nonché di informazione e sensibi-
     lizzazione;
   • invita ad elaborare testi informativi volti a portare a conoscenza delle vittime di
     molestie sessuali i vari livelli di tutela loro garantiti;
   • chiede che, per le piccole e medie imprese o per le cooperative agricole che non
     dispongono di mezzi adeguati, siano gli ispettori del lavoro o le figure istituzio-
     nali incaricate alle pari opportunità a garantire lo svolgimento di tale ruolo;
   • chiede alle istituzioni comunitarie di dare il buon esempio nominando un pro-
274   prio consigliere;
   • insiste affinché gli Stati membri si impegnino a far sì che le amministrazioni na-
     zionali e le grandi imprese del settore pubblico provvedano alla designazione
     del consigliere;
   • chiede, infine, che le istituzioni comunitarie e gli Stati membri organizzino cam-
     pagne di informazione al fine di favorire la prevenzione del fenomeno delle mo-
     lestie sessuali sul luogo di lavoro.
   Il Consigliere di fiducia (o, più di frequente, la Consigliera di fiducia) – la cui desi-
   gnazione è oggi prevista nei codici di condotta adottati su base volontaria, preva-
   lentemente nel settore pubblico e nelle grandi imprese private, su iniziativa delle
   rappresentanze datoriali e sindacali – inpiduato in una figura (interna o esterna)
   dotata di specifica competenza, è chiamato non solo a gestire i casi di molestie e di
   molestie sessuali nei luoghi di lavoro (unitamente ad altre forme di discriminazione
   e, da ultimo, anche i casi di mobbing) oggetto di segnalazione, ma anche a svolgere
   un’attività di prevenzione, informazione e formazione con specifico riferimento agli
   ambiti di intervento.
   Le previsioni della Raccomandazione e del Codice adottati dalla Commissione, com-
   pletate dalla suddetta Risoluzione del Parlamento, erano indubbiamente molto
   avanzate in rapporto all’epoca ma, non essendo immediatamente vincolanti, la loro
   effettiva applicazione era necessariamente affidata all’azione legislativa degli Stati
   membri.
La risposta dei legislatori nazionali, in Italia ma non solo, si è fatta inutilmente at-
tendere. Occorreva pertanto adottare una strumento normativo dotato di maggiore
forza coercitiva e capacità armonizzatrice.
Al fine di superare l’inerzia degli Stati membri, il 27 novembre 2000, il Consiglio
dell’Unione Europea ha quindi emanato la Direttiva 2000/78/CE che, ai sensi
dell’articolo 1, “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni
fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rende-
re effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”.
L’articolo 2 definisce il principio della parità di trattamento (da intendersi come as-
senza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sui motivi di cui al sum-
menzionato articolo 1), nonché i concetti di discriminazione diretta e discriminazio-
ne indiretta, e stabilisce che le molestie sono da considerarsi una discriminazione in
caso di comportamento indesiderato, adottato per uno dei motivi di cui all’articolo
1, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
La definizione del concetto di molestia viene tuttavia rimessa alle leggi e prassi
nazionali degli Stati membri e neppure un accenno viene dedicato al tema specifi-
co delle molestie sessuali. Particolarmente deludente, poi, a parere di chi scrive, la
scelta di rimettere agli Stati membri, “in conformità alle rispettive tradizioni e prassi
nazionali”, l’assunzione di “misure adeguate” per incoraggiare il dialogo tra le parti   275
sociali al fine
• da un lato, “di promuovere il principio della parità di trattamento, tra l’altro
  attraverso il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, contratti collettivi,
  codici di comportamento e ricerche o scambi di esperienze e di buone pratiche”,
• e, dall’altro, di “concludere [lasciando peraltro impregiudicata la loro autono-
  mia] al livello appropriato accordi che fissino regole antidiscriminatorie negli
  ambiti di cui all’articolo 3 [condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia
  dipendente che autonomo, e a tutti i tipi di orientamento e formazione pro-
  fessionale, perfezionamento e riqualificazione; condizioni di lavoro, comprese
  quelle relative al licenziamento e alla retribuzione, nonché affiliazione e attività
  in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro] che rientrano nella sfera
  della contrattazione collettiva”.
In ragione di quanto sopra, tale Direttiva segna un evidente arretramento rispetto al
dettato della Risoluzione 29 maggio 1990.
Tale arretramento è stato in seguito, solo in parte, superato con la Direttiva 2002/73/
CE del Parlamento e del Consiglio del 23 settembre 2002 che – nel modificare la
Direttiva 76/207/CEE del Consiglio, relativa all’attuazione del principio della parità
di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla
formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro – ha definito,
all’articolo 2, sia le molestie che le molestie sessuali (paragrafo 2) e stabilito che le
   stesse “sono considerate discriminazioni basate sul sesso e sono pertanto vietate”
   (paragrafo 3).
   La Direttiva in esame ha così realizzato, sia pure nei limiti di cui sopra, quella armo-
   nizzazione delle norme di legge vigenti nei vari Stati membri in materia di ricatto
   sessuale nel luogo di lavoro sollecitata dal Parlamento europeo sin dal 1986.
   In Italia, le definizioni dettate dalla citata Direttiva sono state introdotte nell’art. 4 L.
   10 aprile 1991, n. 125 (recante “Azioni positive per la realizzazione della parità tra
   uomo e donna”) dal d.lgs. 30 maggio 2005, n. 145 (recante “Attuazione della Diret-
   tiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne, per
   quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale
   e le condizioni di lavoro”) e successivamente trasfuse nell’art. 26 d.lgs. 11 aprile
   2006, n. 198 (recante “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma
   dell’art. 6 Legge 28 novembre 2005, n. 246”).
   Troppo cauta, invece, a parere di chi scrive, la formulazione del paragrafo 5, del
   citato articolo 2, secondo cui “gli Stati membri incoraggiano, in conformità con il
   diritto, gli accordi collettivi o le prassi nazionali, i datori di lavoro e i responsabili
   dell’accesso alla formazione professionale a prendere misure per prevenire tutte le
   forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali
   sul luogo di lavoro”. Evidente, infatti, il passo indietro rispetto al dettato dell’articolo
   3, paragrafo 2, del Codice di condotta di cui alla Raccomandazione del 27 novembre
   1991, laddove si legge testualmente che “poiché l’abuso sessuale rappresenta un
276  rischio per la salute e la sicurezza spetta ai datori di lavoro adottare i provvedimenti
   adeguati al fine di ridurre al minimo il rischio …”.
   Alla “timidezza” del Legislatore europeo e all’inerzia del Legislatore nazionale ha,
   per quanto possibile, sopperito la contrattazione collettiva, sia pure in modo pro-
   gressivo e con modalità non omogenee, quantomeno nella fase iniziale.
   Il tema delle molestie sessuali fa la sua apparizione nella contrattazione collettiva
   italiana nel corso degli anni novanta, sull’onda dei provvedimenti assunti in sede
   sovranazionale. La casistica è multiforme e meriterebbe un approfondimento, non
   consentito in questa sede. Basti qui ricordare che, in ambito pubblico, il primo ac-
   cordo per la promozione del Codice di condotta e per la realizzazione di attività di
   informazione e di formazione sulle molestie è stato stipulato tra ANCI Toscana e i
   Coordinamenti donna CGIL, CISL, UIL nel 1994. Nel settore di lavoro privato, invece,
   la prima esperienza è stata quella della ELECTROLUX ZANUSSI nel 1997.
   Sulla scia di tali “progetti pilota” si è in seguito sviluppata un’ampia serie di iniziative
   volte a recepire le normative comunitarie, definendo codici di condotta, istituendo
   l’ufficio della Consigliera di fiducia e promuovendo progetti di informazione e for-
   mazione.
   Tutto ciò ben prima del formale riconoscimento, nel nostro Paese, del ruolo della
   contrattazione collettiva nella prevenzione e nel contrasto a tutte le forme di
   discriminazione sessuale e, in particolare, delle molestie e delle molestie sessuali
   nel luogo di lavoro, intervenuto con l’introduzione nel d.lgs. n. 198/2006 dell’art.
   50-bis, ad opera del d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 (recante “Attuazione della Direttiva
2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento
fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”).
Attualmente, i codici di condotta sono previsti in tutti i comparti del pubblico im-
piego. Più variegata la situazione nei vari comparti del lavoro privato, che va però,
via via, uniformandosi a quella esistente nel settore pubblico a seguito dei rinnovi
contrattuali.
Nel novero dei provvedimenti adottati in ambito comunitario, particolare rilievo as-
sume altresì, ai fini della presente disamina, l’Accordo quadro sulle molestie e sulla
violenza sul luogo di lavoro, firmato dalle parti sociali europee a livello interset-
toriale (BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES, con l’intervento del comitato di
collegamento EUROCADRES/CEC) il 26 aprile 2007, a seguito di una consultazione
organizzata dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 138 del Trattato.
Queste le tappe:
• nel dicembre 2004, la Commissione, nel quadro del programma in materia di
  salute e sicurezza sul luogo di lavoro 2002-2006, ha dato avvio alla prima fase
  di consultazione delle parti sociali in merito al tema della violenza sul luogo di
  lavoro e dei suoi effetti sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro;
• le parti sociali europee a livello intersettoriale hanno successivamente informa-
  to la Commissione della loro intenzione di organizzare un seminario sui temi og-
  getto di consultazione al fine di verificare la possibilità di negoziare un accordo
  autonomo, conformemente al loro programma di lavoro sul dialogo sociale per      277
  il periodo 2003-2005;
• nel febbraio 2006, a seguito di detto seminario, le organizzazioni hanno elabo-
  rato i rispettivi mandati e aperto ufficialmente i negoziati, che si sono conclusi
  con successo nel dicembre 2006;
• a seguito dell’approvazione da parte degli organismi decisionali interni delle
  quattro organizzazioni delle parti sociali partecipanti ai negoziati, l’accordo è
  stato ufficialmente firmato il 26 aprile 2007, alla presenza del Commissario eu-
  ropeo responsabile dell’occupazione, degli affari sociali e delle pari opportunità.
Come precisato dalla Commissione nella comunicazione al Consiglio e al Parlamento
europeo dell’8 novembre 2007: “L’accordo mira a impedire e, se del caso, a gestire
i problemi di prepotenza, molestie sessuali e violenza fisica sul luogo di lavoro. Esso
condanna tutte le forme di molestia e di violenza e conferma il dovere del datore di
lavoro di tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese in Europa sono tenute
ad adottare una politica di tolleranza zero nei confronti di tali comportamenti e a
fissare procedure per gestire i casi di molestie e violenza laddove essi si verifichi-
no. Le procedure possono comprendere una fase informale con la partecipazione di
una persona che goda della fiducia tanto della direzione che dei lavoratori. I ricorsi
andranno esaminati e risolti rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità,
riservatezza, imparzialità ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate
misure adeguate, dall’azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime
   sarà fornita, se del caso, assistenza nel processo di reinserimento”.
   L’accordo riprende, in buona sostanza, i contenuti del “Codice di condotta relati-
   vo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali”, adottato
   dalla Commissione il 27 novembre 1991, e, secondo le previsioni, avrebbe dovuto
   trovare attuazione entro tre anni dalla firma.
   In realtà, sono trascorsi quasi nove anni prima che CONFINDUSTRIA e CGIL, CISL e
   UIL, in qualità di organizzazioni italiane affiliate a BUSINESSEUROPE e CES, sottoscri-
   vessero un apposito Accordo quadro volto a dare attuazione in Italia all’Accordo
   sottoscritto dalle parti sociali europee. Un ritardo preoccupante, tanto più se si
   considera che il testo sottoscritto in sede nazionale il 25 gennaio 2016 si limita a
   ribadire che:
   • ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza nei luoghi
     di lavoro è inaccettabile;
   • è, pertanto, riconosciuto il principio che la dignità delle lavoratrici e dei lavora-
     tori non può essere violata da atti o comportamenti che configurano molestie
     o violenza;
   • i comportamenti molesti o la violenza subiti nel luogo di lavoro vanno denun-
     ciati;
   • le lavoratrici, i lavoratori e le imprese hanno il dovere di collaborare al man-
     tenimento di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e
278   siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di
     reciproca correttezza;
   rimettendo ad un momento successivo l’inpiduazione delle procedure di gestione
   più adeguate, fatto comunque salvo l’impegno ad adottare, all’interno delle unità
   produttive, una dichiarazione volta ad affermare i principi di cui sopra, ad esplici-
   tare i concetti di molestie e di violenza, riportando le definizioni stabilite nell’Accor-
   do delle parti sociali europee del 26 aprile 2007, e ad anticipare che agli autori di tali
   condotte verranno applicate misure adeguate.
   Le rappresentanze per l’Emilia-Romagna di CONFINDUSTRIA e di CGIL, CISL e UIL
   hanno poi sottoscritto, il 3 maggio 2017, un apposito Accordo su base regionale
   che – pur giovandosi del riferimento alla Legge quadro della Regione Emilia-Roma-
   gna 27 giugno 2014, n. 6 per la parità e contro le discriminazioni di genere e pur
   inpiduando nelle Consigliere di Parità, presenti a livello regionale e presso ciascun
   territorio provinciale, le strutture più idonee, in ragione delle loro specifiche com-
   petenze, alle quali le vittime di molestie o di violenza nei luoghi di lavoro potranno
   liberamente rivolgersi (salva comunque la possibilità di rivolgersi ad altre strutture
   di loro fiducia) – non apporta significative elaborazioni né sul piano delle procedure
   da applicarsi in caso di “incidenti”, così come invece richiesto dal paragrafo 4 dell’Ac-
   cordo quadro siglato dalle parti sociali europee il 26 aprile 2007, né sul piano delle
   misure da adottare per prevenire il fenomeno.
   Restando in Emilia-Romagna, un passo avanti, quantomeno sul piano della normati-
va di riferimento, è stato certamente compiuto con l’Accordo regionale sulle mole-
stie e la violenza nei luoghi di lavoro siglato dalle rappresentanze regionali di CGIL,
CISL e UIL e di Legacoop, Confcooperative e AGCI il 16 aprile 2018; tale Accordo
– unitamente alla normativa nazionale in materia di molestie e violenza, con parti-
colare riferimento agli artt. 26, commi 3-bis e 3-ter, e 55-bis del d.lgs. 198/2006, e
alla citata Legge quadro della Regione Emilia-Romagna n. 6/2014 – richiama infatti
espressamente i doveri posti in capo al datore di lavoro dall’art. 2087 del codice
civile e dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge
3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi
di lavoro”).
Uscendo dal contesto regionale, occorre dare atto che, a far data dal 2007, molti
accordi sono stati via via siglati, a livello nazionale e nei vari territori, ad opera delle
parti sociali affiliate a BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES. Ebbene, pur a fronte
di un quadro non omogeneo, può dirsi che – quantomeno in ambito privato e, in
particolare, nell’ambito delle micro, piccole e medie imprese – molto resta ancora
da fare sia in ordine alla procedura da applicare in caso di eventi avversi sia in ordine
alle misure da adottare in chiave preventiva e per favorire l’emersione del fenome-
no.
Un importante impulso in questo senso può venire dalla “Convenzione sull’elimi-
nazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro”, approvata dalla
Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro il 21 giugno
2019 e ora ratificata dall’Italia con l. 15 gennaio 2021 n.4.                 279
Tra i molti aspetti di interesse, si evidenziano in particolare:
• l’ambito di applicazione (decisamente ampio): la Convenzione si applica, infatti,
  alla violenza e alle molestie nel mondo del lavoro che si verificano “in occasione
  di lavoro, in connessione con il lavoro o che scaturiscono dal lavoro“ (articolo
  3);
• l’obbligo per gli Stati membri di adottare “un approccio inclusivo, integrato e
  incentrato sulla prospettiva di genere per la prevenzione e l’eliminazione della
  violenza e delle molestie nel mondo del lavoro” (articolo 4, paragrafo 2);
• l’obbligo da parte degli Stati membri di adottare “leggi e regolamenti che ri-
  chiedano ai datori di lavoro di intraprendere misure adeguate e proporziona-
  te in materia di prevenzione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro,
  ivi comprese la violenza e le molestie di genere” e, in particolare, di:
   a) adottare e attuare, previa consultazione delle lavoratrici e dei lavoratori e
     dei loro rappresentanti, “una politica in materia di violenza e di molestie
     a livello aziendale”;
   b) “includere la violenza e le molestie, come pure i rischi psico-sociali correla-
     ti, nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro”;
   c) “identificare i pericoli e la valutazione dei rischi relativi alla violenza e
     alle molestie”, con la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori e dei
        loro rappresentanti, e di “adottare le misure per prevenirli e tenerli sotto
        controllo”;
      d) “informare e formare le lavoratrici e i lavoratori e altri soggetti interes-
        sati in merito ai pericoli e ai rischi identificati di violenza e molestie e alle
        relative misure di prevenzione e protezione” (articolo 9).

   2. La normativa interna
   In virtù di quanto illustrato nel paragrafo che precede, il datore di lavoro – oltre
   ad essere soggetto all’ovvio pieto di sottoporre i lavoratori e le lavoratrici a ves-
   sazioni, violenze fisiche e/o morali nonché a molestie, anche sessuali – è altresì
   tenuto ad adoperarsi al fine di prevenire/contrastare il verificarsi di tali condotte
   anche ad opera di altri dipendenti (dirigenti, quadri, ma anche semplici colleghi e
   soggetti subordinati) e, finanche, di soggetti esterni/estranei all’impresa (clienti,
   pazienti, ecc.).
   Tale obbligo trova certamente fondamento nell’art. 2087 cod. civ., a mente del qua-
   le: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, se-
   condo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
   l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
   Non a caso, infatti, l’art. 1 l. 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di Bilancio 2018) ha
   introdotto nell’art. 26 d.lgs. n. 198/2006 il comma 3-ter, in virtù del quale: “I datori
280  di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’art. 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni
   di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche
   concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura in-
   formativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie
   sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro, i lavoratori
   e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di
   un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le
   relazioni interpersonali basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
   Ciò detto, si tratta ora di comprendere se l’obbligo di cui sopra, certamente foriero
   di responsabilità in sede civile, trovi fondamento anche nella specifica normativa in
   materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e, in particolare,
   se tra i rischi che il datore di lavoro è tenuto a valutare e a prevenire/contrastare
   ai sensi del d.lgs. 81/2008 (Testo Unico Sicurezza) rientrino anche la violenza e le
   molestie sessuali.
   La risposta a tale interrogativo consente altresì di stabilire se, in caso di omessa
   valutazione di tali rischi/adozione di misure idonee a prevenirli/contrastarli, il da-
   tore di lavoro possa essere chiamato a rispondere, anche penalmente, dei danni
   psico-fisici patiti da lavoratrici e lavoratori che, sia pure derivanti da condotte poste
   in essere da altri dipendenti e/o da estranei, siano da ritenersi causalmente connes-
   si alle suddette omissioni.
   In sede civile – la competenza, come noto, è attribuita al Giudice del lavoro – le
   sentenze di condanna dei datori di lavoro, rimasti colpevolmente inerti, al risar-
   cimento dei danni patiti da lavoratrici/lavoratori a causa di violenze e/o di mo-
lestie sessuali nel luogo di lavoro causati da altri dipendenti o da estranei hanno
generato un’ampia casistica, definendo un orientamento che può ormai ritenersi
consolidato.
Si pensi, in particolare, alla copiosa giurisprudenza avente ad oggetto il risarcimento
dei danni patiti da personale sanitario a causa di aggressioni ovvero da dipendenti di
uffici postali/banche/ società autostradali a causa di rapine, ma anche a casi di mob-
bing e molestie sessuali posti in essere da semplici colleghi di lavoro della vittima.
Non altrettanto può dirsi in sede penale, ove la giurisprudenza in materia è quasi
assente.
Per tentare di dare risposta all’interrogativo di cui sopra – pur nella consapevolezza
che il tema è e resterà aperto – occorre partire da alcuni punti fermi.
In primo luogo, può ritenersi pacifico il principio, più volte affermato dalla Cassazio-
ne Penale, secondo cui “… in tema di infortuni sul lavoro non occorre, per configu-
rare la responsabilità del datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifi-
che norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che
l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed
accorgimenti imposti all’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ. ai fini della più effi-
cace tutela dell’integrità fisica del lavoratore2”. “Ed invero, l’art. 2087 cod. civ., pur
non contenendo precetti specifici come quelli rinvenibili nelle leggi organiche per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio,
ma deve considerarsi inserita a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di
cui costituisce norma di chiusura, che impone al datore di lavoro precisi obblighi di      281
garanzia e protezione a fini inpiduali”3.
Tale principio può ritenersi rafforzato dall’introduzione nell’art. 26 del d.lgs. n.
198/2006 del comma 3-ter di cui si è detto in precedenza.
Ma, esaminando il dettato del d.lgs. n. 81/2008, v’è ragione di ritenere che la valu-
tazione dei rischi violenza e molestie sessuali rientri a pieno titolo tra i doveri posti
in capo al datore di lavoro anche in virtù della specifica normativa antinfortunistica.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, infatti, il d.lgs. n. 81/2008 “si applica a tutti i settori di
attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”.
Tra i compiti attribuiti al datore di lavoro, in tale ambito, particolare rilievo assume
l’obbligo di valutazione dei rischi e la conseguente elaborazione del relativo docu-
mento, attività entrambe non delegabili.
Ebbene, secondo la definizione di cui all’art. 2, comma 1, lettera q), d.lgs. n. 81/2008,
la valutazione deve riguardare “tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori
presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività” –
pertanto, non solo i rischi direttamente derivanti dall’attività svolta, ma anche quelli
comunque ricollegabili all’attività lavorativa, ivi compresi i c.d. rischi ambientali – al
fine di “inpiduare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elabo-
rare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli
di salute e sicurezza”.

2 Cass. Pen., Sez. IV, 26 novembre 2015, n. 46979.
3 Cass. Pen., Sez. IV, 9 febbraio 2018, n. 6505.
   Nel disciplinare la valutazione dei rischi e la redazione del relativo documento, l’art.
   28, comma 1, d.lgs. 81/2008 prevede che la valutazione abbia ad oggetto tutti i ri-
   schi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi
   di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress
   lavoro-correlato, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla pro-
   venienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attra-
   verso cui viene resa la prestazione di lavoro.
   Il citato art. 28 rimette al datore di lavoro la scelta dei criteri di redazione del do-
   cumento di valutazione dei rischi, da elaborare a conclusione della valutazione, ma
   tale documento deve obbligatoriamente contenere, tra l’altro:
   • una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante
     l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati;
   • l’indicazione delle misure di prevenzione e protezione attuate e dei dispositivi di
     protezione inpiduati a seguito della valutazione;
   • il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento
     nel tempo dei livelli di sicurezza;
   • l’inpiduazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare,
     nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui
     devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate compe-
282   tenze e poteri.
   Il mancato rispetto dei requisiti di cui sopra4 costituisce già di per sé una ipotesi di
   reato, sia pure di natura contravvenzionale.
   Se poi, in ragione della mancata valutazione di un rischio, potenzialmente presen-
   te e ragionevolmente prevedibile ex ante con la diligenza esigibile dal datore di
   lavoro, e della conseguente mancata adozione di misure idonee a prevenirlo/con-
   trastarlo, si verifica un evento lesivo, non è peregrino ritenere che il datore di lavoro
   possa essere chiamato a risponderne a titolo di lesioni personali colpose ovvero di
   omicidio colposo commessi con violazione delle normative antinfortunistiche.
   Il tema è complesso e non si intende certamente banalizzarlo con improprie sempli-
   ficazioni. È però pacifico che la violazione degli obblighi inerenti alla valutazione dei
   rischi ha assunto nella giurisprudenza penale un peso determinante quale condotta
   omissiva del datore di lavoro causalmente associabile a un evento di danno che di-
   viene, in tal modo, anche penalmente perseguibile5.
   Ma – è lecito domandarsi – la violenza e le molestie, anche sessuali, patite in occa-
   sione di lavoro (così come le vessazioni e il mobbing) possono tradursi in infortu-
   nio sul lavoro o generare malattie professionali?

   4 Per una approfondita analisi della giurisprudenza, civile e penale, in materia di valutazione dei rischi
   e di misure di prevenzione e protezione, si rinvia a Guariniello R., Molestie e violenza anche di tipo
   sessuale nei luoghi di lavoro, Milano, 2018.
   5 Guariniello R., Il T.U. Sicurezza Lavoro commentato con la giurisprudenza, Milano, 2015.
La risposta è affermativa, ovviamente in presenza dei requisiti previsti dal D.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124 (recante “Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione ob-
bligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”), anche alla luce
degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza formatasi in materia6.
Si osserva, infine, anche se la precisazione rischia di essere pleonastica, che la le-
sione personale si sostanzia in una malattia nel corpo o nella mente. La giurispru-
denza ha via via definito la nozione di malattia. Per quanto riguarda, in particolare,
la malattia nella mente, essa consiste in qualsivoglia disturbo funzionale dell’attività
psichica, ivi compresi quelli ansioso-depressivi.
Le considerazioni svolte consentono – almeno in astratto – di non escludere che, in
caso di infortunio/malattia professionale conseguente a violenze o a molestie poste
in essere da un/una dipendente nei confronti di altra/o dipendente (ma, in estrema
ipotesi, anche da soggetti terzi con i quali la vittima abbia rapporti ricollegabili all’at-
tività lavorativa), il datore di lavoro che non abbia valutato il rischio – pur poten-
zialmente presente e ragionevolmente prevedibile ex ante con la diligenza esigibile
in capo al medesimo – e non abbia, conseguentemente, adottato misure idonee
a prevenirlo/contrastarlo possa essere chiamato a rispondere, anche penalmente,
dell’evento lesivo generatosi, in forza del principio dettato dall’art. 40, comma 2,
cod. pen., stante la posizione di garanzia dal medesimo rivestita. Come noto, infatti,
ai sensi di tale articolo, “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di im-
pedire equivale a cagionarlo”.
Ovviamente, la configurabilità del reato dovrà essere valutata in rapporto ad ogni             283
singolo caso concreto, partendo proprio dalla prevedibilità del rischio e dalla conse-
guente esigibilità della condotta.
La colpa non può infatti trasformarsi in responsabilità oggettiva, anche se – come
mirabilmente denunciato da uno dei grandi Maestri del diritto penale italiano (e
non solo) nel suo ultimo lavoro7 – il rischio di una responsabilità (penale) senza
colpa, legata a un mero status e a un ruolo sociale, quello di datore di lavoro nel
contesto in esame, è certamente concreto e, sia consentito dirlo, preoccupante.

3. La responsabilità degli enti e i modelli organizzativi
L’assunto di cui al paragrafo precedente è foriero di ulteriori – potenziali, ma rile-
vanti – conseguenze: alla responsabilità personale del datore di lavoro e delle altre
figure aziendali “debitrici di sicurezza” potrebbe infatti aggiungersi, in caso di omi-
cidio colposo o di lesioni personali colpose gravi o gravissime, commessi con viola-
zione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, e in presenza delle
condizioni normativamente previste, la responsabilità amministrativa dell’impresa
in quanto tale, ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (recante “Disciplina della

6 Per una approfondita disamina, si rinvia a Ninci A., Donne e violenza. “Cassiopea”: un progetto
dell’INAIL per la prevenzione, in Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, 2010, fasc. 3,
742-745.
7 F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019.
   responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associa-
   zioni anche prive di personalità giuridica”).
   Il tema richiederebbe, invero, una trattazione a sé.
   In estrema sintesi, al solo fine di rendere comprensibile la portata di tale affermazio-
   ne anche a coloro che non frequentano la materia, pare opportuno precisare che, in
   ragione del summenzionato D. Lgs. n. 231/2001, gli enti (persone giuridiche, società
   e associazioni anche prive di personalità giuridica) sono direttamente chiamati a
   rispondere per i reati espressamente previsti dallo stesso d.lgs. n. 231/2001 (c.d.
   reati presupposto) commessi, nel loro interesse o a loro vantaggio, da persone che
   rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione o da per-
   sone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo (c.d. soggetti apicali)
   o, ancora, da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti predetti
   (c.d. soggetti sottoposti).
   La responsabilità amministrativa dell’ente si fonda su una colpa “di organizzazione”:
   l’ente è infatti ritenuto responsabile per il reato commesso nel suo interesse o a suo
   vantaggio da un soggetto apicale ovvero da un soggetto sottoposto se ha omesso di
   dotarsi di una organizzazione in grado di impedirne efficacemente la realizzazione
   e, in particolare, se ha omesso di dotarsi di un sistema di controllo interno e di
   adeguate procedure (ossia di un modello di organizzazione, gestione e controllo)
   per lo svolgimento delle attività a maggior rischio di commissione di illeciti.
   I reati di omicidio colposo e di lesioni personali colpose gravi o gravissime, commes-
284  si con violazione delle normative antinfortunistiche, rientrano tra i c.d. reati presup-
   posto, essendo espressamente richiamati nell’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001.
   Con riferimento a tali reati, la giurisprudenza ha chiarito che l’interesse o il vantag-
   gio si concretizzano nel risparmio di spesa e/o di tempo derivante dalla mancata
   adozione delle misure normativamente previste e/o, comunque, necessarie al fine
   di tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori.
   In caso di accertata responsabilità, l’ente è punito con una sanzione pecuniaria,
   quantificata ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 25-septies, 10 e 11 d.lgs.
   n. 231/2001, fatti salvi i casi di riduzione disciplinati dall’art. 12 d.lgs. n. 231/2001,
   ed è soggetto, nei casi espressamente previsti, alla applicazione delle sanzioni in-
   terdittive di cui all’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 (segnatamente: interdizione
   dall’esercizio dell’attività, sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o conces-
   sioni funzionali alla commissione dell’illecito, pieto di contrattare con la pubbli-
   ca amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio,
   esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca
   di quelli già concessi, pieto di pubblicizzare beni o servizi) per periodi di tempo che
   variano in ragione delle perse ipotesi di reato disciplinate dall’art. 25-septies, com-
   mi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 231/2001. Qualora venga applicata una sanzione interdittiva,
   la sentenza di condanna è soggetta a pubblicazione. Con la sentenza di condanna è
   in ogni caso disposta la confisca (anche per equivalente) del prezzo o del profitto.
   L’applicazione delle suddette sanzioni interdittive è disciplinata dagli artt. 13 e 14 d.
   lgs. n. 231/2001.
Nei casi previsti dall’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, il Giudice, in luogo dell’ap-
plicazione della sanzione interdittiva, può disporre la prosecuzione dell’attività
dell’ente da parte di un Commissario giudiziale per un periodo di tempo pari alla
durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata.
Ai sensi dell’art. 45 d.lgs. n. 231/2001, le sanzioni interdittive possono essere appli-
cate anche in via cautelare (ossia prima dell’accertamento di responsabilità) quan-
do sono presenti gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ente
e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che
vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede. Anche in
questo caso, il Giudice, nei casi previsti dal citato art. 15, in luogo della misura caute-
lare interdittiva, può nominare un Commissario giudiziale per un periodo di tempo
pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata.
L’ente può ridurre la sanzione pecuniaria ed evitare l’applicazione delle sanzioni
interdittive alle seguenti condizioni:
• risarcire integralmente il danno ed eliminare le conseguenze dannose o perico-
  lose del reato;
• eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante
  l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della
  specie di quello verificatosi;
• mettere a disposizione il profitto conseguito.                            285
La sussumibilità della condotta del datore di lavoro – in caso di evento lesivo causal-
mente connesso alla omessa valutazione dei rischi violenza e molestie, anche ses-
suali, ritenuti potenzialmente presenti e ragionevolmente prevedibili ex ante con la
diligenza esigibile in ragione della sua posizione di garanzia, e alla omessa adozione
di misure idonee a prevenirli/contrastarli – in una delle ipotesi di reato richiamate
dall’art. 25-septies D. Lgs. n. 231/2001 riverbera, all’evidenza, conseguenze poten-
zialmente gravissime anche in capo all’ente e tali da porre a rischio la sua stessa
sopravvivenza.
L’intento del Legislatore è evidente: aggiungere alla punizione dell’autore o degli
autori del reato la punizione del soggetto (l’ente) che se ne giova, anche in termini
di mero risparmio.
Pur formalmente definita “amministrativa” (in ossequio al principio cardine del no-
stro ordinamento giuridico espresso dal brocardo societas delinquere non potest),
la responsabilità posta in capo agli enti ha natura sostanzialmente penale8, basti
pensare che:
• la competenza a giudicare l’illecito amministrativo contestato all’ente appartie-

8 “Un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole” – così testualmente
 Cass. Pen., S.U., 24 aprile 2014, n. 38343 – che presenta tuttavia “evidenti ragioni di contiguità
 con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato,
 che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità
 processuali del suo accertamento”.
     ne al giudice penale competente a giudicare il reato dal quale l’illecito dipende;
   • per quanto non espressamente previsto dal d. lgs. n. 231/2001, il procedimento
     relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato è disciplinato dalle norme
     del codice di procedura penale;
   • all’ente si applicano, pur con i necessari adeguamenti, le norme processuali
     relative all’imputato;
   • l’ente ha diritto di nominare un difensore di fiducia e, in mancanza, è assistito
     da un difensore d’ufficio.
   È la logica del “diritto penale totale”, di cui si è detto in precedenza, che trova fonda-
   mento nella convinzione, ormai dominante, che “nel diritto penale si possa trovare
   il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e a ogni male sociale”9.
   Che fare, dunque?
   Ai sensi dell’art. 30 d.lgs. n. 231/2001, l’adozione di un modello di organizzazione e
   gestione idoneo ed efficacemente attuato prima della commissione del reato pre-
   supposto dell’illecito amministrativo ha efficacia esimente.
   Come già evidenziato in precedenza, peraltro, l’adozione del modello in un momen-
   to successivo alla commissione del reato presupposto consente, in ogni caso, di ri-
   durre le sanzioni pecuniarie e di evitare l’applicazione di misure interdittive, anche
   in via cautelare.
   In buona sostanza, il modello deve realizzare un sistema aziendale volto ad assi-
286  curare l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici in materia di tutela della salute
   e della sicurezza nei luoghi di lavoro, a partire proprio dalla valutazione dei rischi e
   dalla predisposizione delle conseguenti misure di prevenzione.
   Un importante contributo alla costruzione dei modelli organizzativi è stato offerto
   dall’INAIL.
   Ai sensi dell’art. 30, comma 5, d.lgs. n. 81/2001, infatti, “in sede di prima applica-
   zione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida
   UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28
   settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai
   requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti”.
   Le Linee guida elaborate da UNI e INAIL sono state integrate, nel corso del tempo, da
   altri documenti contenenti indicazioni più operative, ai fini di una più agevole appli-
   cazione delle Linee guida, e da Linee guida settoriali, volte ad adattare i requisiti e le
   indicazioni contenute nelle Linee guida a specifici comparti di attività.
   Tra tali documenti si ricordano, in particolare, quelli realizzati nell’ambito del pro-
   getto “Salute e sicurezza sul lavoro: una questione anche di genere” (in collaborazio-
   ne tra CPO, oggi CUG, Inail e Regione Toscana):
   • volumi 1 e 2 – Disegno di linee guida e primi strumenti operativi;
   • volume 3 – Integrazione di genere delle Linee guida per un SGSL;


   9 Sgubbi F., Il diritto penale totale, cit.
• Volume 4 – Rischi lavorativi. Un approccio multidisciplinare.
Il SGSL definito sulla base delle Linee guida UNI-INAIL può essere certificato secon-
do lo standard OHSAS 18001:2007 e secondo la nuova ISO 45001:2018 che, nel
2021, subentrerà allo standard OHSAS 18.001:2007.
Ai sensi dell’art. 30, comma 5-bis, d.lgs. n. 81/2001, la Commissione consultiva per-
manente per la salute e sicurezza sul lavoro elabora procedure semplificate per la
adozione e la efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicu-
rezza nelle piccole e medie imprese.
In attuazione di quanto previsto dal citato comma 5-bis, con Decreto 13 febbraio
2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha infatti adottato un docu-
mento denominato “Procedure semplificate per l’adozione di modelli di organiz-
zazione e gestione (MOG) nelle piccole e medie imprese (PMI)”, volto a fornire alle
PMI indicazioni organizzative semplificate, di natura operativa, utili alla predisposi-
zione ed efficace attuazione di un sistema aziendale (SGSL) idoneo a prevenire i reati
previsti dall’art. 25 septies, d.lgs. n. 231/2001.
Se, infatti, l’adozione di modelli organizzativi è prassi ormai diffusa nelle più impor-
tanti realtà imprenditoriali e negli enti privati in controllo pubblico, non altrettanto
può dirsi con riferimento alle piccole e medie imprese. Le ragioni risultano evidenti,
sia in termini di costo che in termini di sforzo organizzativo. Eppure, la dimensione
aziendale non è direttamente proporzionale all’entità dei rischi, anzi.
A questo proposito, è utile ricordare che le aziende che attuano, su base volontaria,
interventi migliorativi per la prevenzione e la tutela della salute e sicurezza nei luo-  287
ghi di lavoro, aggiuntivi rispetto a quelli minimi ed obbligatori previsti dal d.lgs. n.
81/2008, possono usufruire di una “riduzione del tasso medio per prevenzione”.
La materia è ora regolata dall’art. 23 delle “Modalità di applicazione delle tariffe dei
premi”, approvate con Decreto interministeriale del 27 febbraio 2019. Nel modello
OT23 che, a seguito della approvazione del citato decreto interministeriale, ha so-
stituito il precedente modello OT24, sono indicati gli interventi considerati merite-
voli ai fini dell’ottenimento del beneficio richiesto e i relativi punteggi. Il punteggio
minimo per il conseguimento del beneficio non può essere inferiore a 100 punti,
realizzabili anche cumulando più interventi tra quelli espressamente previsti.
È interessante notare che, nel modulo di domanda per l’anno 2021, sono indicati,
tra i tanti:
• l’adozione o il mantenimento di un SGSL che risponde ai criteri definiti dalle
  Linee Guida UNI INAIL ISPESL e Parti Sociali o da norme riconosciute a livello na-
  zionale e internazionale (con esclusione di quelle aziende a rischio di incidente
  rilevante che siano già obbligate per legge all’adozione ed implementazione del
  sistema);
• l’adozione o il mantenimento di un SGSL conforme alle “Linee di indirizzo SGSL –
  PMI. Per l’implementazione di Sistemi di Gestione per la Salute e la Sicurezza sul
  Lavoro nelle Micro e Piccole Imprese”, adottate da INAIL, in collaborazione con
  CASARTIGIANATO, CLAAI, CNA, CONFARTIGIANATO, CGIL, CISL e UIL, nel 2011;
   • l’adozione o il mantenimento di un modello organizzativo e gestionale di cui
     all’art. 30 d.lgs. n. 81/2008, anche secondo le procedure semplificate di cui al
     D.M. 13 febbraio 2014;
   a tali progetti è riconosciuto un punteggio pari a 100 punti
   e, per quanto qui di specifico interesse:
   • l’attuazione di progetti formativi o informativi di sensibilizzazione dei lavoratori
     sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro, in attuazione dell’Accordo qua-
     dro europeo sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007.
   Tale iniziativa, alla quale è riconosciuto un punteggio pari a 40 punti, non è però di
   per sé sola sufficiente all’ottenimento del beneficio.
   La riduzione del tasso medio per prevenzione – forse non ancora adeguatamente
   conosciuta, soprattutto nell’ambito delle micro, piccole e medie imprese – può in
   ogni caso costituire un importante incentivo alla attuazione di interventi migliorativi
   per la prevenzione e la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, anche sul
   piano della prevenzione e del contrasto alla violenza e alle molestie e molestie ses-
   suali nel luogo di lavoro.
   In conclusione, può dirsi che gli strumenti e gli incentivi volti a prevenire/contrasta-
   re il verificarsi di molestie, anche sessuali, nel luogo di lavoro o, comunque, in oc-
   casione di lavoro, non mancano. Ciò che ancora appare carente – soprattutto nelle
288  micro, piccole e medie imprese – è la consapevolezza in ordine agli obblighi che in-
   combono in capo ai datori di lavoro con riferimento a tali aspetti e alle conseguenti
   responsabilità in caso di inerzia. A tale fine, oltre ad iniziative di carattere pulgati-
   vo, fondamentale risulta l’apporto di tutti gli operatori a vario titolo coinvolti, a par-
   tire da coloro che, in ambito giuridico o tecnico, prestano attività di consulenza alle
   imprese, i quali debbono necessariamente acquisire specifiche competenze anche
   nell’ambito in esame.
Le istituzioni italiane di parità

Sonia Alvisi*


In materia il testo normativo base è il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, contenente il
“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge
28 novembre 2005, n. 246”. È corretto consultarlo nella versione aggiornata e at-
tualmente vigente, perché è stato sottoposto a numerose e significative modifiche.
Ci riferiamo alle varie modifiche del 2007, nonché a quelle apportate dal decreto
legislativo n. 5 del 25 gennaio 2010, “Attuazione della Direttiva 2006/54/CE relativa
al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne
in materia di occupazione e impiego”, e poi dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205.

È in tale Codice che sono disciplinati i vari organismi di parità, tra cui la Commissio-
ne per le pari opportunità tra uomo e donna, che fornisce consulenza e supporto
tecnico alla Ministra per le P. O. nell’elaborazione e attuazione di politiche di p.o.
che esulino dall’ambito dei rapporti di lavoro, il Comitato nazionale per l’attuazione    289
dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratrici e
lavoratori, istituito presso il Ministero del Lavoro, con varie funzioni propositive, in-
formative, consulenziali, le Consigliere ed i Consiglieri di Parità, che operano a livello
Nazionale, regionale e provinciale e si occupano di promuovere pari opportunità
nel lavoro tra uomo e donna, il Comitato per l’imprenditoria femminile, operante
presso il Ministero delle Attività Produttive, con compiti di indirizzo, informazione e
promozione di ricerca sull’imprenditorialità femminile.

Trattasi di un articolato sistema di organismi che hanno il compito di vigilare sull’at-
tuazione della legislazione in materia di pari opportunità tra uomini e donne con
particolare riferimento alla parità di trattamento sul luogo di lavoro.

Tale sistema, capillarmente organizzato per garantire la presenza di un occhio vigile
a persi livelli territoriali, esso ha il suo vertice nel Dipartimento per le Pari Oppor-
tunità, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M. 28/10/1997,
n. 405) con funzione di proposta e coordinamento delle iniziative per le pari oppor-
tunità, fungendo da struttura amministrativa e funzionale nonché di raccordo con
gli organismi europei.



* Consigliera di Parità Effettiva Regione Emilia-Romagna.
   Il Dipartimento viene affiancato nelle sue attività dal Comitato Nazionale di Parità,
   composto da donne designate dalle organizzazioni sindacali rappresentative e dalle
   confederazioni sindacali dei datori di lavoro, quale organismo consultivo a suppor-
   to dell’azione del Presidente del Consiglio, al fine di promuovere la rimozione dei
   comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo all’uguaglianza delle
   donne nell’accesso al lavoro e sul lavoro e nella progressione professionale e di car-
   riera, e dalla Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e
   donna, costituita da venticinque commissarie, donne che rappresentano vari settori
   della società, dell’imprenditoria, del volontariato, delle associazioni sindacali e fem-
   minili; la commissione svolge una molteplicità di funzioni fra cui quella di formulare
   proposte al Ministro per l’elaborazione delle modifiche normative e l’adeguamento
   della legislazione.

   Non va inoltre tralasciata l’importante funzione del Comitato per l’imprenditoria
   femminile, istituito presso il Ministero dell’Industria quale strumento di informazio-
   ne, di indirizzo e coordinamento soprattutto in materia di azioni positive per l’im-
   prenditoria femminile, al fine di promuoverne lo studio, la ricerca e l’informazione
   nonché lo sviluppo.

   Tutti questi organismi, organizzati in rete (la cosiddetta “Rete per le pari opportuni-
   tà”), trovano dei loro corrispettivi a livello locale (regionale, provinciale e comunale)
290  in una varietà di altri organi di parità, quali le Consulte femminili (le prime ad essere
   istituite, negli anni ‘70) dotate di potere consultivo e propositivo nei confronti degli
   atti delle regioni, delle province e dei grandi comuni, poi affiancate e sostituite ne-
   gli anni ‘80 dalle Commissioni per le Pari Opportunità, anch’esse dislocate a livello
   regionale, provinciale e locale, e finalizzate soprattutto alla tutela delle donne nel
   settore del lavoro, della formazione professionale e dei servizi, con funzione di rap-
   presentanza e promozione delle politiche di genere sul territorio.

   Da essi va invece distinta l’azione dei Comitati Pari Opportunità, istituiti sulla base
   dei Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro presso ogni amministrazione con compi-
   ti di raccolta dati, formulazione di proposte e promozione di iniziative.

   Tali Comitati sono recentemente confluiti, insieme con i Comitati Paritetici sul feno-
   meno del Mobbing, nel CUG, Comitato Unico di garanzia per le pari opportunità, la
   valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. Tale Comitato,
   istituito con la legge 183/2010 (art. 21), ha compiti propositivi, consultivi e di verifi-
   ca, e si pone l’obiettivo di contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro
   pubblico, migliorando l’efficienza delle prestazioni che viene collegata alla garanzia
   di un ambiente di lavoro caratterizzato dal rispetto dei principi di pari opportunità,
   di benessere organizzativo e dal contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di
   violenza morale o psichica per i lavoratori.
Le consigliere e i consiglieri di parità
Il sistema capillarmente distribuito in tutto il territorio nazionale vede al suo vertice
la Consigliera Nazionale di Parità, le cui funzioni sono “diramate” nelle attività delle
altre consigliere presenti a livello regionale e provinciale.

Compiti e funzioni sono precisati dal Codice P.O. all’art. 15

1. Le consigliere ed i consiglieri di parità intraprendono ogni utile iniziativa, nell’am-
bito delle competenze dello Stato, ai fini del rispetto del principio di non discrimina-
zione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, svolgendo
in particolare i seguenti compiti:
a. rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere, anche in collaborazione con
   le direzioni interregionali e territoriali del lavoro, al fine di svolgere le funzioni
   promozionali e di garanzia contro le discriminazioni nell’accesso al lavoro, nella
   promozione e nella formazione professionale, ivi compresa la progressione
   professionale e di carriera, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione,
   nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al
   decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252;
b. promozione di progetti di azioni positive, anche attraverso l’inpiduazione delle
   risorse dell’Unione europea, nazionali e locali finalizzate allo scopo;
c. promozione della coerenza della programmazione delle politiche di sviluppo ter-
   ritoriale rispetto agli indirizzi dell’unione europea e di quelli nazionali e regionali  291
   in materia di pari opportunità;
d. promozione delle politiche di pari opportunità nell’ambito delle politiche attive
   del lavoro, comprese quelle formative;
e. collaborazione con le direzioni interregionali e territoriali del lavoro al fine di
   rilevare l’esistenza delle violazioni della normativa in materia di parità, pari op-
   portunità e garanzia contro le discriminazioni, anche mediante la progettazione
   di appositi pacchetti formativi;
f. diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi e attività di infor-
   mazione e formazione culturale sui problemi delle pari opportunità e sulle varie
   forme di discriminazione;
g. collegamento e collaborazione con i competenti assessorati e con gli organismi
   di parità degli enti locali.
Più in particolare, la Consigliera di parità regionale svolge i seguenti compiti:
• promuove e monitora la realizzazione di progetti e azioni contro le discrimina-
   zioni di genere, partecipando a  tavoli ed incontri favorendo l’uguaglianza so-
   stanziale tra donna e uomo nell’accesso al lavoro e nel mantenimento dell’occu-
   pazione al lavoro e carriera;
• dà attuazione ad azioni positive nelle Pubbliche Amministrazioni, come previsto
   dall’art. 15 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, azioni volte a compen-
   sare gli svantaggi legati al genere, rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedisco-
      no la realizzazione di pari opportunità, favorire l’occupazione femminile e rea-
      lizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro (art. 42 decreto
      legislativo n. 198/2006);
   • redige il rapporto sulla situazione del personale in relazione all’obbligo delle
      aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti, tenute alla redazione
      ogni due anni di un Rapporto sulla Situazione del Personale maschile e fem-
      minile (art. 46 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198), e li trasmette alla
      Consigliera Nazionale di Parità e al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali;
   • rileva le situazioni di squilibrio di genere e collabora con le direzioni regionali e
      provinciali del lavoro per le violazioni della normativa in materia;
   • sostiene le politiche attive del lavoro, comprese quelle formative, per favorire
      condizioni di pari trattamento;
   • incentiva anche l’attuazione di politiche di pari opportunità da parte dei soggetti
      pubblici e privati che operano nel mercato del lavoro;
   • favorisce il diffondersi delle  buone prassi, collaborando con gli assessorati al
      lavoro e con gli organismi di parità degli enti locali;
   • può acquisire nei luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale
      maschile e femminile.
   Le consigliere di parità regionali sono anche componenti a tutti gli effetti della Com-
   missione regionale per l’Impiego; partecipano altresì ai tavoli di partenariato locale
292  ed ai comitati di sorveglianza di cui al regolamento (CE) n. 1260/99, del Consiglio
   del 21 giugno 1999; sono inoltre componenti della Commissione Regionale per le
   pari opportunità. Il decreto legislativo 196/2000 (“Disciplina dell’attività delle con-
   sigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive”) che la
   Consigliera è stata effettivamente dotata degli strumenti necessari ad adempiere
   ai suoi compiti. Il decreto, infatti, ha definito le condizioni di funzionamento degli
   Uffici delle Consigliere, stabilendo la stipula di una convenzione quadro con Regioni
   e Province per garantire sedi ed attrezzature agli uffici stessi. Tale decreto ha inol-
   tre perfezionato il profilo giuridico della Consigliera mediante la specificazione dei
   compiti assegnati e la configurazione di nuovi rapporti con gli organismi negoziali o
   istituzionali competenti in materia di mercato del lavoro, nonché ha valorizzato il
   ruolo della Consigliera di parità attribuendole la qualifica di pubblico ufficiale (art.
   1), così assegnandole l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria dei reati di cui
   venga a conoscenza.

   Nella Regione Emilia-Romagna la figura è penuta operativa con il d.lgs. 196/2000,
   quando, accanto ad una precisa definizione di ruolo e funzioni, furono destinate
   risorse per il funzionamento, a seguito dello sviluppo progressivo nel tempo della
   conoscenza dei servizi offerti e dei casi trattati.

   Originariamente l’attività della Consigliera di parità ha trovato allocazione funzio-
   nale all’interno delle strutture della Giunta regionale. Nel 2018, con una modifica
   legislativa alla legge regionale n. 6/2014 “Legge quadro per la parità e contro le
discriminazioni di genere”, la Regione Emilia-Romagna ha disposto l’integrazione
dell’ufficio della Consigliera di parità con il servizio dedicato agli altri istituti di garan-
zia (Difensore civico, Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Garante delle persone
sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale) ed alla partecipa-
zione e al dialogo con i cittadini. Questo passaggio viene attuato concretamente nel
corso del 2019 si attua, arrivando, così, ad uniformare le funzioni dell’Assemblea in
termini di supporto ai persi organi di garanzia. Viene raggiunto, così, l’obiettivo che
la Regione si è posta, cioè di valorizzare la figura istituzionale della Consigliera, sup-
portandola con una struttura dedicata, anche per altri istituti, ai diritti dei cittadini e
al rispetto del principio di non discriminazione. Con Delibera della Giunta regionale
n. 318 del 2019 è stato approvato lo schema di protocollo tra la Giunta e l’Assemblea
legislativa della Regione Emilia-Romagna per il trasferimento delle risorse e delle
competenze dell’Ufficio della Consigliera di parità regionale.

La attuale Consigliera di parità regionale è stata nominata con Decreto del Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali 1 del 2018, a seguito della designazione della Re-
gione Emilia-Romagna avvenuta con Delibera della Giunta regionale 1552 del 2017.
Il mandato dura 4 anni ed è rinnovabile una sola volta. La Consigliera supplente
agisce su mandato della Consigliera effettiva e in sua sostituzione.

Alle consigliere e consiglieri di parità sono attribuiti importanti compiti in materia di
tutela giurisdizionale, come prevedono gli artt. 36 e 37 del Codice P.O.:
                                                 293
art. 36 Legittimazione processuale
1. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni poste in
essere in violazione dei pieti di cui al capo II del presente titolo, o di qualunque
discriminazione nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione pro-
fessionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazio-
ne alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo
5 dicembre 2005, n. 252, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazio-
ne previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai
sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell’ar-
ticolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite la consi-
gliera o il consigliere di parità della città metropolitana e dell’ente di area vasta
di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente competente.
2. Ferme restando le azioni in giudizio di cui all’articolo 37, commi 2 e 4, le consiglie-
re o i consiglieri di parità delle città metropolitane e degli enti di area vasta di cui
alla legge 7 aprile 2014, n. 56 e regionali competenti per territorio hanno facoltà di
ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sotto-
posti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente
competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei
giudizi promossi dalla medesima.
   Art. 37 Legittimazione processuale a tutela di più soggetti
   1. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza
   nazionale, la consigliera o il consigliere nazionale rilevino l’esistenza di atti, patti
   o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo in violazio-
   ne dei pieti di cui al capo II del presente titolo o comunque nell’accesso al lavo-
   ro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni compresa
   la retribuzione, nella progressione di carriera, nonché in relazione alle forme pen-
   sionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005,
   n. 252, anche quando non siano inpiduabili in modo immediato e diretto le la-
   voratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l’azione in
   giudizio ai sensi dei commi 2 e 4, possono chiedere all’autore della discriminazione
   di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un ter-
   mine non superiore a centoventi giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta
   in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in
   loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggior-
   mente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla
   rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità promuove il
   tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista for-
   za di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro. 
   2. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 1, le
   consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi della pro-
294
   cedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito negativo
   della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice
   del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti.
   3. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presen-
   tato ai sensi del comma 2, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno
   anche non patrimoniale, ordina all’autore della discriminazione di definire un piano di
   rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro,
   le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali
   aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul
   piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente
   per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale. Nella sentenza il giudice fissa i
   criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.
   4. Ferma restando l’azione di cui al comma 2, la consigliera o il consigliere regionale
   e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d’urgenza davanti al tribuna-
   le in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territo-
   rialmente competenti. Il Tribunale in funzione di giudice del lavoro adito, nei due
   giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga
   sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente
   esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non pa-
   trimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore della discriminazione la
   cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento
idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordi-
ne di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozio-
ne delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 3. Contro il
decreto è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposi-
zione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che
decide con sentenza immediatamente esecutiva. La tutela davanti al giudice am-
ministrativo è disciplinata dall’articolo 119 del codice del processo amministrativo. 
5. L’inottemperanza alla sentenza di cui al comma 3 e al comma 4, al decreto di cui
al comma 4 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita
con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi e comporta altresì il
pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del
provvedimento da versarsi al Fondo di cui all’articolo 18 e la revoca dei benefici di
cui all’articolo 41, comma 1. 
Dunque, quando – esemplificativamente – è possibile chiedere aiuto alla Consigliera
di Parità?
Ogni qualvolta in ambito lavorativo si presenti una delle seguenti situazioni:
• se al momento dell’assunzione sono stati messi in atto meccanismi che, a pari-
   tà di condizioni, hanno privilegiato l’ingresso della persona di un altro sesso al
   posto tuo;
• se sei stata vittima di molestie anche a sfondo sessuale;
• se hai riscontrato ostacoli nella conciliazione degli impegni lavoro/famiglia (ora-
                                                295
   ri che cambiano in modo repentino, ad esempio);
• se ti è stato “consigliato” un test di gravidanza in fase/al momento dell’assun-
   zione;
• se al momento del ritorno dal congedo per maternità ti hanno cambiato man-
   sioni oppure trasferita o sei stata licenziata;
• se all’annuncio della tua gravidanza o al rientro ti è stato cambiato contratto;
• se non ti sono stati concessi i congedi per malattia dei figli;
• se non ti è stato concesso il part time che avevi chiesto causa carichi familiari;
• se è stata fatta qualche pressione o azione per impedire la tua progressione di
   carriera o per chiederti le dimissioni.
In ciascuna di queste circostanze, la Consigliera di Parità, oltre alla possibilità di agire
in giudizio, può intervenire direttamente nei confronti dell’organismo, pubblico o
privato, autore della discriminazione, richiedendo la predisposizione di un piano di
rimozione delle discriminazioni accertate che, una volta approvato e penuto parte
di un’azione di conciliazione, penta vincolante.

Quindi la Consigliera, dopo un’analisi del caso, può decidere di intraprendere per-
se strade:
1. procedura informale: la Consigliera di Parità cerca di mediare tra il lavoratore e
  l’azienda, convocando l’Azienda per un incontro, al fine di trovare un accordo;
2. procedura formale (legale): si attiva quando la prima strada è fallita o non ha
     ottenuto gli effetti sperati. È in questa fase giurisdizionale che la Consigliera può
     avvalersi dell’Avvocatura, in giudizio.
   Se la discriminazione ha carattere collettivo e interessa più lavoratrici/lavoratori (ri-
   guarda cioè accordi aziendali, procedure concorsuali, prassi e comportamenti siste-
   maticamente adottati sul luogo di lavoro), l’azione è di competenza della Consigliera
   di Parità regionale (art. 37 Codice P.O.).

   Questa, prima di attivare le vie legali, può chiedere al responsabile della discrimi-
   nazione di predisporre entro e non oltre i 120 giorni un piano di rimozione delle
   discriminazioni accertate.

   Quindi molto importante è, ancor prima del ruolo di attivazione della giurisdizione,
   il ruolo giocato dalla Consigliera di parità a titolo di conciliazione nel caso di con-
   troversie inpiduali e collettive di lavoro a matrice discriminatoria, una attività che
   richiede capacità di mediazione e di dialogo e che può rappresentare una valida al-
   ternativa alla tutela giurisdizionale. Anche in questa fase le consigliere e i consiglieri
   di parità possono avvalersi della consulenza stragiudiziale della avvocatura.




296
Il Patto di Alleanza tra Consigliera Regionale di
Parità e Ordine Forense

Serenella Molendini*



Gli anni 2000, come sappiamo, sono stati uno spartiacque sia per l’Europa sia per
l’Italia.

La nuova legislazione, dal 2000 in poi, innova le tecniche di tutela prima sperimen-
tate e le novità sono in parte dovute all’esperienza applicativa di quell’unica norma
del Trattato sull’Unione, ovvero l’art. 119, che statuiva il principio di parità retribu-
tiva tra donne e uomini, sulla base del diritto derivato e della ricchissima giurispru-
denza della Corte di Giustizia, elaborando così norme e soluzioni più avanzate.

I fallimenti della legislazione precedente sotto il profilo dell’effettività della tutela
hanno portato a rafforzare i meccanismi applicativi con la richiesta agli stati membri   297
di adottare sanzioni proporzionate, effettive e dissuasive e con la generalizzazione
del sistema probatorio favorevole alla ricorrente sull’onere della prova delle discri-
minazioni di genere.

Le nuove direttive (in particolare la Direttiva 54 del 2006, recepita in Italia con il
d.lgs. 5/2010, ma anche la Risoluzione europea del 16 settembre 2016) hanno dato
maggiore spazio alle azioni collettive e, per contrastare le discriminazioni di genere,
hanno richiesto un’agenzia indipendente che potesse agire in giudizio a sostegno
delle vittime inpiduali, che potesse fare indagini e vigilare sul rispetto della nor-
mativa antidiscriminatoria. Da qui il consolidamento in Italia dell’istituzione delle
Consigliere di Parità.

Questi interventi europei degli anni 2000 si situano a ridosso di una stagione del
diritto del lavoro in cui le linee di sviluppo seguono un duplice percorso.

Da una parte l’attenzione si sposta dal micro (il rapporto inpiduale) ad un’ottica
macro che privilegia il mercato del lavoro. Ma anche la decisione dei politici che dal
piano delle politiche sociali spostano l’azione sul piano delle politiche per l’occupa-
zione.
Nello stesso tempo va prevalendo un approccio soft law il cui perno sembra essere
costituito dalla tutela antidiscriminatoria.
* Consigliera Nazionale di Parità Supplente.
   Per questo motivo possiamo affermare che il Codice Pari Opportunità, che siste-
   matizza i persi decreti di recepimento delle direttive europee e ne accoglie anche
   alcune nuove (come il d.lgs. 5/2010) nonostante tutto, possa essere uno strumento
   validissimo per combattere le discriminazioni sul lavoro.

   Certo ci sono persi elementi di critica sul Codice.
   Sicuramente non è un codice nel significato autentico che noi attribuiamo alla pa-
   rola Codice: ovvero la denominazione che normalmente designa una raccolta di di-
   sposizioni di legge disciplinanti una certa materia giuridica. Inoltre l’aspetto lessicale
   (discriminazioni come superamento di ogni distinzione basata sul sesso e non sul
   genere), l’onere probatorio dell’azione collettiva, l’assenza del mainstreaming pre-
   sente nelle direttive europee, ma dimenticato dal legislatore già nel d.lgs. 145/2005,
   sono altrettanti punti di debolezza dello stesso d.lgs. 198/2006.

   Tuttavia, l’affermarsi nel diritto comunitario del principio di non discriminazione
   come fonte autonoma di diritti e il ricorso anche da parte del legislatore italiano al
   paradigma antidiscriminatorio, ci fa comprendere come il diritto antidiscriminatorio
   possa essere considerato come l’ultimo baluardo di un sistema di garanzie giuri-
   diche che perde sempre più peso rispetto agli imperativi dell’economia, l’estremo
   argine verso una liberalizzazione del lavoro.

   Per questo motivo il d.lgs. 198/2006 (Codice Pari Opportunità) con le successive
298  modifiche e integrazioni può essere considerato un traguardo importante per le
   attività non solo di controllo e contrasto alle discriminazioni di genere, ma anche
   per quelle di prevenzione e promozione di politiche attive nell’ambito del lavoro
   e di pari opportunità più in generale al fine di scardinare gli stereotipi di genere. E
   tutto questo avviene grazie a Istituzioni deputate allo scopo, ovvero le Consigliere
   di Parità.

   E, dunque, a fronte a volte dell’incomunicabilità tra diritto del lavoro classico e di-
   ritto antidiscriminatorio, è necessario che insieme Consigliere di Parità e Avvocate/i
   pentino alleate in un sistema di reciproco riconoscimento e collaborazione fattiva.

   Grazie al Protocollo d’Intesa, firmato a giugno 2017 tra Consigliera Nazionale di Pari-
   tà e Consiglio Nazionale Forense (e Commissione Pari Opportunità del CNF), un vero
   Patto di alleanza tra Consigliere di Parità e Avvocate/i si sta concretizzando nelle
   varie regioni ad opera delle instancabili Consigliere Regionali con l’organizzazione di
   Corsi di Alta Formazione in Diritto antidiscriminatorio di genere, per fronteggiare le
   molteplici discriminazioni che arrivano presso i nostri Uffici, ambito che ci compete
   come Consigliere di Parità e che ci assegna il d.lgs. 198/2006 e successive modifiche
   e integrazioni.

   Quello che con il Protocollo abbiamo voluto sottolineare è, infatti, proprio questo:
   fiducia, competenza, relazione tra due soggetti.
E i Corsi di alta formazione non mirano solo a dare maggiori conoscenze e compe-
tenze agli/alle Avvocati/e in questo ambito, ma vogliono ribadire l’importanza del
ruolo delle Consigliere di Parità ai vari livelli nel contrasto e prevenzione alle discri-
minazioni di genere.

La Consigliera di Parità, infatti, è una figura che risulta avere una specifica connota-
zione con compiti e funzioni esplicitamente declinati nella normativa vigente, taluni
esclusivi rispetto agli altri organismi di parità e pari opportunità:

• è pubblico ufficiale;

• è soggetto terzo e non di parte;

• opera per promuovere e monitorare parità e pari opportunità in ambito lavora-
  tivo (formazione, accesso al lavoro, evoluzione delle carriere, aspetti previden-
  ziali e pensionistici) e per il contrasto alle discriminazioni di genere.

La funzione antidiscriminatoria è certamente il fulcro dell’azione propria delle Con-
sigliere di Parità.

Nel 2018 le/gli utenti/i che si sono rivolte/i agli Uffici delle Consigliere di Parità per
denunciare discriminazioni sono state 2947, tra questi: presi in carico 944, pareri
(267), informazioni (1202) e riorientamento ad altri uffici (366), archiviazione (168).
È interessante notare, poi, che le motivazioni principali dei casi di discriminazione    299
inpiduale (delle donne), presi in carico nel 2018, siano state: la conciliazione dei
tempi (241) e la maternità e paternità (107), seguono molestie (150) e molestie
sessuali sui luoghi di lavoro(84)

Le Consigliere di Parità, in particolare le Consigliere Regionali, si avvalgono di stru-
menti importanti per conoscere e prevenire le discriminazioni e progettare azioni
positive.
Tra questi il monitoraggio delle dimissioni a seguito di maternità, monitoraggio che
avviene di concerto tra Consigliere di Parità e Ispettorato Nazionale del Lavoro. Il
monitoraggio delle dimissioni è stato sperimentato una prima volta nel lontano
2005 grazie ad un gruppo di lavoro istituito nella Rete delle Consigliere di Parità.

È evidente dal grafico sottostante come significativo sia l’aumento delle dimissioni
per maternità dal 2011 (17.175) al 2019 (37.611) e quanto lavoro ci sia da fare in
questo ambito.

Un altro importante strumento è il Rapporto biennale sul personale maschile e fem-
minile delle aziende con più di 100 dipendenti, come previsto dall’art. 46 del d.lgs.
198/2006, in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della
formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o
di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione
guadagni, della retribuzione effettivamente corrisposta.
   Scopo della prescrizione consiste nel potenziamento del sistema d’informazione di
   cui può disporre la Consigliera, per consentirle il controllo ed il monitoraggio costan-
   te delle situazioni aziendali, secondo distinzioni di genere, in funzione di sostegno
   indiretto all’elaborazione di azioni positive.

   Il quadro delle informazioni così ottenute ricostruisce una mappa delle dinamiche
   salienti nella gestione del personale, con particolare riferimento all’accesso e alla
   costituzione del rapporto, ai fattori di crescita professionale e di sviluppo della car-
   riera, nonché al trattamento retributivo ed infine ai fenomeni relativi alle procedure
300
   di mobilità e di risoluzione del rapporto di lavoro.

   Una corretta redazione del rapporto da parte delle aziende può rendere chiaramen-
   te visibili i fenomeni di segregazione orizzontale e verticale, di sotto inquadramento,
   evidenziare le ragioni di minori opportunità di carriera o di trattamento retributivo
   inferiore, oppure ancora della persa condizione delle lavoratrici rispetto ai lavora-
   tori nell’eventualità di processi di crisi che impongono la cessazione del rapporto di
   lavoro.

   Per le sue finalità, per l’approccio analitico, per la sua completezza, e per il fatto che
   si tratta di una rilevazione declinata per genere in ambito lavorativo che sia assistita
   dall’obbligatorietà, appare ancora oggi tra le migliori metodologie orientate ad un
   utilizzo operativo di cui il nostro ordinamento disponga ed, inoltre, risponde piena-
   mente alle indicazioni della Direttiva 54/2006 che all’art. 20 invitava gli Stati membri
   a designare “uno o più organismi per la promozione, l’analisi, il controllo ed il soste-
   gno della parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sul
   sesso”, i quali siano competenti ad erogare “assistenza indipendente alle vittime di
   discriminazione” ed a svolgere “inchieste indipendenti in materia di discriminazio-
   ne” nonché la” pubblicazione di relazioni indipendenti”.
   La forza di questa indagine sta nella non occasionalità, ma nella continuità, nel con-
   fronto con le valutazioni precedenti per comprendere se le misure di sviluppo e di
   politiche del lavoro messe in campo in questi anni a livello europeo, nazionale e re-
gionale, esplicitamente mirate o meno all’occupazione femminile, abbiano prodotto
un impatto positivo sul lavoro delle donne, sul piano quantitativo e qualitativo. Uno
strumento importante soprattutto per le eventuali azioni collettive.

Dal 2016-2017 le Aziende immettono i dati del Rapporto direttamente sul sito del
Ministero del Lavoro e questo ha reso ancora più cogente la prescrizione normativa.

In tutto questo nostro faticoso, appassionante (e non remunerativo) lavoro le Con-
sigliere chiedono un’alleanza con le/gli Avvocate/i per ribadire che un egualitarismo
astratto, cieco rispetto alle differenze, si tradurrebbe in ingiustizia.
Al diritto, del resto, non si chiede propriamente di “rendere uguali” le persone, ma
piuttosto di non trattarle con disparità, di non discriminarle. Il pieto di discrimi-
nazione è appunto il criterio di cui il diritto si serve per assicurare pieno rispetto e
compimento ai profili di uguaglianza che accomunano gli esseri umani, attraverso la
considerazione delle differenze emergenti dalle situazioni concrete.

È un diritto dunque che “non insegue semplicemente il fatto, ma prova a cambiarlo,
prova a incidere sulle strutture economiche, sociali, culturali, piuttosto che soltanto
sulle strutture giuridico-formali”.
Di qui la specifica funzione della Consigliera di Parità, in particolare Regionale, che
può promuovere un’uguaglianza nella differenza che coinvolga tutte le dimensioni
che hanno un impatto sulle prospettive di vita delle persone e sul loro rapporto con
le istituzioni: dunque non solo reddito, ma anche istruzione, formazione, lavoro,     301
partecipazione alla sfera pubblica, servizi. Ma per fare questo sono necessarie alle-
anze e quella con le Avvocate e Avvocati specializzate/i in Diritto Antidiscriminatorio
può davvero essere molto efficace.
302
Come contattare la/il consigliere di parità
nazionale, regionale o locale in Emila-Romagna




   CONSIGLIERE DI PARITÀ          RECAPITI
CONSIGLIERA NAZIONALE
Francesca Bagni Cipriani   06 46834069 - 4070 - 4107
               consiglieranazionaleparita@lavoro.gov.it
               Via Fornovo 8, Pal. A - 00192 Roma

Serenella Molendini      supplente

CONSIGLIERA REGIONALE
                                       303
Sonia Alvisi         051 5273644
               consparita@regione.emilia-romagna.it
               V.le Aldo Moro, 50 - BO


Adriana Ventura        supplente

CITTÀ METROPOLITANA BOLOGNA
Giorgia Campana        051 6598845
               Segreteria, Laura Venturi, 051 6598143
               consiglieradiparita@cittametropolitana.bo.it
               Via Benedetto XVI, 3 - BO

FERRARA
Donatella Orioli       0532 299240-299241
               consiglieradiparita@provincia.fe.it
               c/o Castello Estense,
               Largo Castello 1 – FE

Elena Ferrari         supplente
   FORLÌ – CESENA
   Castellucci Carla          0543 714545
                     consiglieradiparita@provincia.fc.it
                     Carla.castellucci@provincia.fc.it
                     P.zza Gian Battista Morgagni 2 - FO

   Lentini Maria            supplente
   MODENA
   Valeria Moscardino         059 209355
                     consigliereparita@provincia.modena.it
                     V.le Martiri della Libertà, 34 -MO

   Laura Caputo            supplente

   PARMA
   Mariantonietta Calasso       0521 931623
                     consiglieraparita@provincia.parma.it
304                    mariantonietta.calasso@agenziapo.it
                     V.le Martiri della Libertà, 15 - PR

   Manuela Cucchi           supplente

   PIACENZA
   Manuela Sodini (dimissionaria, in  0523 795813
   attesa di bando)          consigliera.parita@provincia.pc.it
                     Corso Garibaldi, 50 - PC

   Stefania Tagliaferri        supplente

   RAVENNA
   Carmelina Fierro          0544 258404
                     consiglieraparita@mail.provincia.ra.it
                     Via della Lirica 21- RA

   Adriana Ventura           supplente
REGGIO EMILIA
Maria Mondelli    0522 444809
           m.mondelli@provincia.re.it
           consiglierapari@provincia.re.it
           Corso Garibaldi, 59 - RE

Francesca Bonomo   supplente

RIMINI
Adriana Ventura   0541 363988
           cons.parita@provincia.rimini.it
           P.zza Bornaccini 1 -RN

Marinella Mengozzi  supplente




                            305
Accordi e protocolli
Protocollo di intesa 22 giugno 2017 CNP - CNF




                        307
308
309
310
311
312
313
Accordo quadro europeo 8.11.2007


         COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE




                         Bruxelles, 8.11.2007
                         COM(2007) 686 definitivo




    COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL
           PARLAMENTO EUROPEO

 che presenta l'accordo quadro europeo sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro
                                              315
         COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL
                PARLAMENTO EUROPEO

      che presenta l'accordo quadro europeo sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro


    La presente comunicazione mira ad informare il Parlamento europeo e il Consiglio
    dell'Unione europea circa l'accordo quadro europeo relativo alle molestie e alla violenza sul
    luogo di lavoro, firmato il 26 aprile 2007 da: CES, BUSINESSEUROPE, UEAPME e CEEP.
    Si tratta del terzo accordo autonomo negoziato dalle parti sociali europee a livello
    intersettoriale, che fa seguito ad una consultazione organizzata dalla Commissione europea a
    titolo dell'articolo 138 del trattato CE.

    Il 23 dicembre 2004 la Commissione ha deciso di avviare la prima fase di consultazione delle
    parti sociali in merito al tema della violenza sul luogo di lavoro e dei suoi effetti sulla salute e
    sulla sicurezza sul lavoro1, nel quadro del programma della Commissione in materia di salute
    e sicurezza sul lavoro, definito nella strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo
    di lavoro 2002-2006.

    Le parti sociali europee a livello intersettoriale hanno successivamente informato la
    Commissione della loro intenzione di organizzare un seminario su tale aspetto al fine di
    analizzare la possibilità di negoziare un accordo autonomo, conformemente al loro
316  programma di lavoro sul dialogo sociale per il periodo 2003-2005. A seguito di tale
    seminario, le organizzazioni hanno elaborato i rispettivi mandati di negoziato e aperto
    ufficialmente i negoziati il 6 febbraio 2006. I negoziati relativi ad un accordo quadro sono
    durati più di dieci mesi e si sono conclusi con successo il 15 dicembre 2006. A seguito
    dell'approvazione da parte degli organismi decisionali interni delle quattro organizzazioni
    delle parti sociali partecipanti ai negoziati, l'accordo è stato ufficialmente firmato il 27 aprile
    2007 alla presenza di Vladimír Špidla, commissario responsabile dell'occupazione, degli
    affari sociali e delle pari opportunità, e presentato alla stampa.

    L'accordo mira a impedire e, se del caso, a gestire i problemi di prepotenza, molestie sessuali
    e violenza fisica sul luogo di lavoro. Esso condanna tutte le forme di molestia e di violenza e
    conferma il dovere del datore di lavoro di tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese in
    Europa sono tenute ad adottare una politica di tolleranza zero nei confronti di tali
    comportamenti e a fissare procedure per gestire i casi di molestie e violenza laddove essi si
    verifichino. Le procedure possono comprendere una fase informale con la partecipazione di
    una persona che goda della fiducia tanto della direzione che dei lavoratori. I ricorsi andranno
    esaminati e risolti rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità, riservatezza,
    imparzialità ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate misure adeguate,
    dall'azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime sarà fornita, se del caso,
    assistenza nel processo di reinserimento.

    L'accordo autonomo va applicato dai membri delle parti firmatarie, cioè dalle organizzazioni
    nazionali delle parti sociali, conformemente alle procedure e alle prassi proprie delle parti
    sociali negli Stati membri, come disposto dalla prima opzione dell'articolo 139, paragrafo 2



    1
        C/2004/5220.



 IT                          2                           IT
del trattato CE. L'accordo va attuato entro tre anni dalla firma. Nel quarto anno il comitato del
dialogo sociale elaborerà una relazione sulla sua attuazione.

Pur rispettando il principio dell'autonomia delle parti sociali, la Commissione riveste un ruolo
particolare nel caso specifico degli accordi autonomi attuati conformemente alla prima
opzione dell'articolo 139, paragrafo 2, del trattato CE, ove tale accordo risulti da una
consultazione secondo l'articolo 1382. In particolare, la Commissione si è impegnata a
pubblicare gli accordi autonomi e ad informare il Parlamento europeo e il Consiglio previa
valutazione del testo. Tale valutazione a priori riguarda sia la rappresentatività delle parti
firmatarie sia il contenuto dell'accordo.

Rappresentatività: Come già in studi precedenti, la Commissione ritiene che le parti
firmatarie siano, collettivamente, sufficientemente rappresentative3 delle parti sociali da
potere firmare accordi intersettoriali a livello europeo. Molte volte in passato esse hanno
dimostrato la propria capacità di concludere accordi quadro europei. Tutte le parti firmatarie
hanno il mandato di rappresentare i rispettivi membri nei negoziati nell'ambito del dialogo
sociale e hanno approvato l'accordo conformemente alle rispettive procedure interne di
decisione.

Contenuto: Le varie disposizioni dell'accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo            317
di lavoro sono conformi al diritto comunitario e gli obiettivi coincidono con quelli della
politica europea in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. L'accordo opta per un approccio
attivo piuttosto che giuridico al fine di risolvere il problema delle molestie e della violenza a
livello dell'impresa. La Commissione ritiene l'accordo un utile contributo delle parti sociali
alla protezione non soltanto della salute e della sicurezza, ma anche della dignità dei
lavoratori, nonché alla promozione di organizzazioni moderne del lavoro. In quanto tale,
l'accordo rappresenta un valore aggiunto per le relative legislazioni europea e nazionali e si
ispira al documento di consultazione della Commissione.

Alla luce della valutazione a priori, la Commissione ha deciso di informare il Parlamento
europeo e il Consiglio dell'accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro.



2
    Cfr. COM(2004) 557 del 12.8.2004.
3
    La valutazione della rappresentatività delle parti sociali europee si basa sui tre criteri illustrati nel
    documento COM(93) 600. Per essere considerate rappresentative, le organizzazioni delle parti sociali
    debbono:
    - essere intersettoriali, settoriali o categoriali ed essere organizzate a livello europeo;
    - essere composte da organizzazioni riconosciute come parte integrante delle strutture delle parti sociali
    degli Stati membri, essere abilitate a negoziare accordi e, nei limiti del possibile, essere rappresentative
    di tutti gli Stati membri;
    - disporre di strutture adeguate che consentano loro di partecipare in modo efficace al processo di
    consultazione.
   Inoltre la Commissione invita le istituzioni europee a promuovere l'accordo con tutti i loro
   mezzi, fornendo un'adeguata pubblicità e sostenendo l'attuazione a livello nazionale.

   La Commissione fornirà tutto l'aiuto necessario alle parti sociali durante il processo di
   attuazione. Inoltre, una volta scaduto il periodo di attuazione, la Commissione, pur
   concedendo la precedenza ai controlli effettuati dalle parti sociali stesse, effettuerà i propri
   controlli per valutare fino a che punto l'accordo abbia contribuito al raggiungimento degli
   obiettivi comunitari.




318
                         ALLEGATO

     ACCORDO QUADRO SULLE MOLESTIE E SULLA VIOLENZA SUL LUOGO DI
                          LAVORO


   26 aprile 2007

   (Fa fede unicamente la versione inglese. La presente traduzione non è stata verificata né
   approvata dalle parti sociali.)


   1.   INTRODUZIONE

       Il rispetto reciproco della dignità a tutti i livelli sul luogo di lavoro è una delle
       caratteristiche principali delle organizzazioni di successo. Per questo motivo le
       molestie e la violenza sono inaccettabili. BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e
       CES (come pure il comitato di collegamento EUROCADRES/CEC) le condannano
       in tutte le loro forme. Essi ritengono che sia nell'interesse tanto del datore di lavoro
       quanto dei lavoratori affrontare la questione, che può comportare gravi conseguenze
       sociali ed economiche.

       Le legislazioni nazionali e comunitaria4 stabiliscono l'obbligo dei datori di lavoro di
       proteggere i lavoratori contro le molestie e la violenza sul luogo di lavoro.              319
       Varie sono le forme di molestie e di violenza che possono presentarsi sul luogo di
       lavoro. Esse possono:

       – essere di natura fisica, psicologica e/o sessuale;

       – costituire incidenti isolati o comportamenti più sistematici;

       – avvenire tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, ad esempio
        clienti, pazienti, studenti, ecc.;

       – andare da manifestazioni lievi di mancanza di rispetto ad altri atti più gravi, ad
        esempio reati che richiedono l'intervento delle autorità pubbliche.

       Le parti sociali europee riconoscono che le molestie e la violenza possono interessare
       qualsiasi posto di lavoro e qualsiasi lavoratore, indipendentemente dall'ampiezza
       dell'impresa, dal settore di attività o dalla forma di contratto o di relazione di lavoro.


   4
      Nella legislazione comunitaria figurano, tra l'altro, le direttive seguenti:
      - Direttiva 2000/43/CE, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le
      persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica
      - Direttiva 2000/78/CE, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di
      trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
      - Direttiva 2002/73/CE, del 23 settembre 2002, che modifica la direttiva 76/207/CEE relativa
      all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda
      l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro
      - Direttiva 89/391/CEE concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della
      sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.



IT                            5                              IT
      Peraltro alcuni gruppi e settori possono essere più a rischio di altri. Nella pratica il
      fenomeno non interessa tutti i posti di lavoro né tutti i lavoratori.

      Il presente accordo riguarda le forme di molestie e di violenza di competenza delle
      parti sociali e corrisponde alla descrizione di cui al punto 3 seguente.


   2.  OBIETTIVO

      Il presente accordo ha l'obiettivo di:

      – sensibilizzare maggiormente i datori di lavoro, i lavoratori e i loro rappresentanti
       sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro;

      – fornire ai datori di lavoro, ai lavoratori e ai loro rappresentanti a tutti i livelli un
       quadro di azioni concrete per inpiduare, prevenire e gestire le situazioni di
       molestie e di violenza sul luogo di lavoro.


   3.  DESCRIZIONE

      Molestie e violenza sono l'espressione di comportamenti inaccettabili di uno o più
320    inpidui e possono assumere varie forme, alcune delle quali sono più facilmente
      identificabili di altre. L'ambiente di lavoro può influire sull'esposizione delle persone
      alle molestie e alla violenze.

      Le molestie avvengono quando uno o più lavoratori o dirigenti sono ripetutamente e
      deliberatamente maltrattati, minacciati e/o umiliati in circostanze connesse al lavoro.

      La violenza interviene quando uno o più lavoratori o dirigenti sono aggrediti in
      circostanze connesse al lavoro.

      Molestie e violenza possono essere esercitate da uno o più lavoratori o dirigenti, allo
      scopo e con l'effetto di ferire la dignità della persona interessata, nuocere alla sua
      salute e/o creare un ambiente di lavoro ostile.


   4.  PREVENIRE, RICONOSCERE E GESTIRE LE SITUAZIONI DI MOLESTIE E VIOLENZA

      Una maggiore consapevolezza e una formazione adeguata dei dirigenti e dei
      lavoratori possono ridurre le probabilità di molestie e di violenza sul luogo di lavoro.

      Le imprese debbono elaborare una dichiarazione precisa che indichi che le molestie e
      la violenza non saranno tollerate. Tale dichiarazione deve specificare le procedure da
      seguire in caso di incidenti. Le procedure possono includere una fase informale in cui
      una persona che gode della fiducia tanto della direzione quanto dei lavoratori è
      disponibile per fornire consigli e assistenza. È possibile che procedure preesistenti
      siano adeguate a far fronte ai problemi di molestie e violenza.

      Una procedura adeguata deve ispirarsi ma non limitarsi alle seguenti considerazioni:
   – é nell'interesse di tutte le parti agire con la discrezione necessaria per tutelare la
    dignità e la vita privata di tutti;

   – non vanno pulgate informazioni alle parti non implicate nel caso;

   – i ricorsi debbono essere esaminati e trattati senza indebiti ritardi;

   – tutte le parti coinvolte debbono fruire di un'audizione imparziale e di un
    trattamento equo;

   – i ricorsi debbono essere sostenuti da informazioni particolareggiate;

   – non vanno tollerate false accuse, che potranno esporre gli autori a misure
    disciplinari;

   – può rivelarsi utile un'assistenza esterna.

   Ove siano state constatate molestie e violenza, occorre adottare misure adeguate nei
   confronti del/degli autore/i. Tali misure possono andare da sanzioni disciplinari al
   licenziamento.

   La/le vittima/e deve/devono ricevere sostegno e, se del caso, essere assistita/e nel
   processo di reinserimento.
                                                321
   I datori di lavoro, in consultazione con i lavoratori e/o i loro rappresentanti,
   elaborano, riesaminano e controllano tali procedure, al fine di garantirne l'efficacia
   nella prevenzione dei problemi e nella loro risoluzione, ove essi sorgano.

   Se del caso, le disposizioni del presente capitolo possono essere applicate ai casi di
   violenza esterna.


5.  ATTUAZIONE E VERIFICA

   Nel contesto dell'articolo 139 del trattato, il presente accordo quadro autonomo
   europeo impegna i membri di BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES
   (nonché il comitato di collegamento EUROCADRES/CEC) ad attuarlo secondo le
   procedure e le prassi proprie alle parti sociali negli Stati membri e nei paesi dello
   Spazio economico europeo.

   Le parti firmatarie invitano altresì le relative organizzazioni associate nei paesi
   candidati ad attuare il presente accordo.

   Il presente accordo sarà attuato entro tre anni dalla data della firma.

   Le organizzazioni associate riferiranno al comitato del dialogo sociale circa
   l'attuazione del presente accordo. Durante i primi tre anni dalla data della firma il
   comitato del dialogo sociale elaborerà e adotterà una tabella annuale con un quadro
   riassuntivo dell'andamento dell'attuazione dell'accordo. Nel quarto anno il comitato
   del dialogo sociale elaborerà una relazione completa sulle misure di attuazione; la
   relazione sarà adottata dalle parti sociali europee.
   Alla scadenza dei cinque anni dalla data della firma le parti firmatarie valuteranno e
   riesamineranno l'accordo, qualora una di esse ne faccia richiesta.

   In caso di dubbi circa il contenuto del presente accordo, le organizzazioni associate
   interessate possono, separatamente o congiuntamente, rivolgersi alle parti firmatarie,
   che risponderanno alle domande congiuntamente o separatamente.

   Nel quadro dell'attuazione del presente accordo, i membri delle parti firmatarie
   eviteranno di imporre alle PMI un onere di lavoro eccessivo.

   L'attuazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il
   livello generale di protezione offerto ai lavoratori nel campo coperto dal presente
   accordo.

   Il presente accordo non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere, al livello
   appropriato, compreso quello europeo, accordi intesi ad adeguare e/o a completare il
   presente accordo di modo che esso tenga conto delle esigenze specifiche delle parti
   sociali interessate.




322
Accordo Regionale RER 17 maggio 2018 CONFAPI – CGIL, CISL e UIL




                                 323
324
325
326
327
328
329
330
Le fonti normative del diritto antidiscriminatorio.
Elenco dei titoli di legge
(Aggiornamento dal Codice contro le discriminazioni 2012 del
Difensore Civico della Regione Emilia-Romagna)



1. NORME DI CARATTERE GENERALE
Costituzione della Repubblica Italiana, deliberazione Assemblea.

Costituente 22 Dicembre 1947, entrata in vigore il 1° gennaio 1948.


1.1 Normativa Internazionale
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948.

                                                331
1.2 Normativa dell’Unione Europea
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 12 Dicembre 2007.

Versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea.

Versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali


1.3 Normativa italiana
Legge 24 luglio 1954, n. 722. Ratifica della Convenzione relativa allo statuto dei rifu-
giati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951.

Legge 4 agosto 1955, n. 848. Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la sal-
vaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 no-
vembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmata a Parigi
il 20 marzo 1952.

Legge 25 ottobre 1977, n. 881. Ratifica ed esecuzione del patto internazionale rela-
tivo ai diritti economici, sociali, e culturali, nonché del patto internazionale relativo
ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma di New
York rispettivamente il 16 e il 19 Dicembre 1966.
   Legge 27 maggio 1991, n. 176. Ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti
   del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989.

   Legge 9 febbraio 1999, n. 30. Ratifica ed esecuzione della Carta Sociale Europea,
   riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996.

   Legge 8 novembre 2000, n. 328. Legge quadro per la realizzazione del sistema inte-
   grato di interventi e servizi sociali.

   D.lgs. 27 maggio 2005, n. 116. Attuazione della Direttiva 2003/8/CE intesa a mi-
   gliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere attraverso la de-
   finizione di norme minime comuni relative al patrocinio a spese dello Stato in tali
   controversie.


   1.4. Normativa regionale
   Legge Regionale 31 marzo 2005, n. 13. Statuto della Regione Emilia-Romagna. Testo
   coordinato con le modifiche apportate da Legge Regionale 27 luglio 2009, n. 12

   Legge Regionale 22 dicembre 2009, n. 24. Legge finanziaria regionale adottata a
   norma dell’articolo 40 della Legge Regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coinciden-
   za con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per
   l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012.
332
   Legge Regionale 27 giugno 2014, n. 6, Legge quadro per la parità e contro le discri-
   minazioni di genere.



   2. DISABILITÀ
   2.1 Normativa Europea
   Regolamento (CE) n. 1107/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio
   2006 relativo ai diritti delle persone con disabilità e delle persone a mobilità ridotta
   nel trasporto aereo.


   2.2 Normativa italiana
   Legge 10 febbraio 1692, n. 66. Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i
   ciechi civili.

   Legge 26 maggio 1970, n. 381. Aumento del contributo ordinario dello Stato a fa-
   vore dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza ai sordomuti e delle misure
   dell’assegno di assistenza ai sordomuti.

   Legge 27 maggio 1970, n. 382. Disposizioni in materia di assistenza ai ciechi civili.
Legge 30 marzo 1971, n. 118. Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5, e
nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili.

Legge 14 febbraio 1974, n. 37. Gratuità del trasporto dei cani guida dei ciechi sui
mezzi di trasporto pubblico.

Legge 4 agosto 1977, n. 517. Norme sulla valutazione degli alunni e e sull’abolizione
degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento.

Legge 11 febbraio 1980, n. 18. Indennità di accompagnamento agli invalidi civili to-
talmente inabili.

Legge 29 marzo 1985, n. 113. Aggiornamento della disciplina del collocamento al
lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti.

Legge 21 novembre 1988, n. 508. Norme integrative in materia di assistenza econo-
mica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti.

D.lgs. 23 novembre 1988, n. 509. Norme per la revisione delle categorie delle mino-
razioni e malattie invalidanti, nonché dei benefici previsti dalla legislazione vigente
per le medesime categorie, ai sensi dell’art. 2 comma 1, della Legge 26 luglio 1988,
n. 291.

Legge 9 gennaio 1989, n. 13. Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazio-       333
ne delle barriere architettoniche negli edifici privati.

D.M. 14 giugno 1989, n. 236. Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibi-
lità l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere
architettoniche.

Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale
e i diritti delle persone handicappate.

D.L. 27 agosto 1993, n. 234. Proroga dei termini di durata in carica degli ammini-
stratori straordinari delle unità sanitarie locali, nonché norme per le attestazioni
da parte delle unità sanitarie locali della condizione di handicappato in ordine all’i-
struzione scolastica e per la concessione di un contributo compensativo all’Unione
italiana ciechi.

D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503. Regolamento recante norme per l’eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici, spazi, e servizi pubblici.

Legge 12 marzo 1999, n. 68. Norme per il diritto al lavoro dei disabili.

D.P.C.M. 13 gennaio 2000, n. 91. Atto di indirizzo e coordinamento in materia di
collocamento obbligatorio dei disabili, a norma dell’art. 1, comma 4, della Legge 12
marzo 1999, n. 68.
   D.P.R. 10 ottobre 2000, n. 333. Regolamento di esecuzione della Legge 12 marzo
   1999, n. 68, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili.

   Legge 21 novembre 2000, n. 342. Misure in materia fiscale.

   D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipen-
   denze delle amministrazioni pubbliche.

   Legge 3 aprile 2001, n. 138. Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive
   e norme in materia di accertamenti oculistici.

   Legge 9 gennaio 2004, n. 4. Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili
   agli strumenti informatici.

   Legge 1° marzo 2006, n. 67. Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disa-
   bilità vittime di discriminazione.

   D.lgs. 24 febbraio 2009, n. 24. Disciplina sanzionatoria per la violazione delle di-
   sposizioni del regolamento (CE) n. 1107/2006 relativo ai diritti delle persone con
   disabilità e delle persone a mobilità ridotta nel trasporto aereo.

   Legge 3 marzo 2009, n. 18. Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni
   Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New
334  York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione
   delle persone con disabilità.

   D.P.C.M. 23 febbraio 2009, n. 31. Regolamento di disciplina del contrassegno da
   apporre sui supporti, ai sensi dell’articolo 181-bis della Legge 22 aprile 1941, n. 633.

   D.lgs. 1° luglio 2009, n. 78. Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini. D.L.
   convertito con modificazioni dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102.

   Legge 24 giugno 2010, n. 107. Misure per il riconoscimento dei diritti delle persone
   sordocieche.

   Legge 11 marzo 2011, n. 25. Interpretazione autentica del comma 2 dell’articolo 1
   della Legge 23 novembre 1998, n. 407, in materia di applicazione delle disposizioni
   concernenti le assunzioni obbligatorie e le quote di riserva in favore dei disabili.

   D.L. 6 luglio 2011, n. 98. Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, con-
   vertito con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111.

   D.P.R. 27 luglio 2011, n. 171. Regolamento di attuazione in materia di risoluzione
   del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e
   degli enti pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità psicofisica, a norma
   dell’articolo 55-octies del D.lgs 30 marzo 2001, n. 165.

   D.P.R. 30 luglio 2012, n. 151. Regolamento recante modifiche al D.P.R. 16 dicembre
1992, n. 495, concernente il regolamento di esecuzione e attuazione del Nuovo co-
dice della strada, in materia di strutture, contrassegno e segnaletica per facilitare la
mobilità delle persone invalide.

D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159. Regolamento concernente la revisione delle mo-
dalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione
economica equivalente.

Legge 13 luglio 2015, n. 107. Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazio-
ne e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti.

Legge 18 agosto 2015, n. 134. Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione
delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie.

D.lgs. 14 settembre 2015, n. 150. Disposizioni per il riordino della normativa in ma-
teria di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
della Legge 10 dicembre 2014, n. 183.

D.lgs. 14 settembre 2015, n. 151. Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione
delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposi-
zioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della Legge
10 dicembre 2014, n. 183.

Legge 22 giugno 2016, n. 218. Disposizioni in materia di assistenza in favore delle      335
persone con disabilità grave prive del sostegno familiare.

D.lgs. 26 agosto 2016, n. 179. Modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministra-
zione digitale, di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della Legge 7
agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
(16G00192).

Legge 14 novembre 2016, n. 220. Disciplina del cinema e dell’audiovisivo (art. 3 lett.
g).

D.M. del lavoro e delle politiche sociali 23 novembre 2016. Requisiti per l’accesso
alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo per l’assistenza alle
persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, nonché ripartizione alle
Regioni delle risorse per l’anno 2016.

D.P.R. 10 gennaio 2017, n. 23. Regolamento concernente modifiche al D.P.R. 30 apri-
le 1999, n. 162, per l’attuazione della Direttiva 2014/33/UE relativa agli ascensori
ed ai componenti di sicurezza degli ascensori nonché per l’esercizio degli ascensori.

D.L. 20 febbraio 2017, n. 14. Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città.

D.lgs. 27 febbraio 2017, n. 43. Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche,
concernente il Comitato italiano paralimpico, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, let-
   tera f), della Legge 7 agosto 2015, n. 124.

   D.lgs. 13 aprile 2017, n. 66. Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli
   studenti con disabilità, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera c), della
   Legge 13 luglio 2015, n. 107.

   D.P.C.M. 23 maggio 2017, n. 87. Regolamento di attuazione dell’articolo 1, commi da
   199 a 205, della Legge 11 dicembre 2016, n. 232, in materia di riduzione del requisi-
   to contributivo di accesso al pensionamento anticipato per i lavoratori c.d. precoci .

   D.P.R. 12 ottobre 2017. Adozione del secondo programma di azione biennale per la
   promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità.

   Legge 22 dicembre 2017, n. 219. Norme in materia di consenso informato e di di-
   sposizioni anticipate di trattamento.

   Legge 3 maggio 2019, n. 37. Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
   dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2018. Attuazione
   della Direttiva (UE) 2017/1564 relativa a taluni utilizzi consentiti di determinate ope-
   re e di altro materiale protetto da diritto d’autore e da diritti connessi a beneficio
   delle persone non vedenti, con disabilità visive o con altre difficoltà nella lettura di
   testi a stampa. Modifiche alla Legge 22 aprile 1941, n 633.

336  D.lgs. 10 agosto 2018, n. 106. Attuazione della Direttiva (UE) 2016/2102 relativa
   all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici.

   Circolare AgID n. 2 del 23 settembre 2015 Specifiche tecniche sull’hardware, il
   software e le tecnologie assistive delle postazioni di lavoro a disposizione del dipen-
   dente con disabilità.

   Circolare AgID n. 3/2017 Raccomandazioni e precisazioni sull’accessibilità digitale
   dei servizi pubblici erogati a sportello dalla Pubblica Amministrazione, in sintonia
   con i requisiti dei servizi online e dei servizi interni.


   Normativa Regione Emilia-Romagna
   Legge Regionale 21 agosto 1997, n. 29. Norme e provvedimenti per favorire le op-
   portunità di vita autonoma e l’integrazione sociale delle persone disabili. Testo co-
   ordinato con le modifiche apportate da: L. R. 12 marzo 2003 n. 2.

   Legge Regionale 1° agosto 2005, n. 17. Norme per la promozione dell’occupazione,
   della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro.

   Legge Regionale 19 febbraio 2008, n. 4. Disciplina degli accertamenti della disabi-
   lità - ulteriori misure di semplificazione ed altre disposizioni in materia sanitaria e
   sociale.

   Legge Regionale 28 marzo 2014, n. 2. Norme per il riconoscimento ed il sostegno del
caregiver familiare (persona che presta volontariamente cura e assistenza). (Linee
attuative: DGR 858/2017).

Legge Regionale 15 luglio 2016, n. 11. Modifiche legislative in materia di politiche
sociali, abitative, per le giovani generazioni e servizi educativi per la prima infanzia,
conseguenti alla riforma del sistema di governo regionale e locale.

Legge Regionale 22 ottobre 2018, n. 15. Legge sulla partecipazione all’elaborazione
delle politiche pubbliche.



3. RAZZA, GRUPPO CULTURALE, ETNIA, NAZIONALITÀ, RELIGIONE

3.1 Normativa internazionale
Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione raz-
ziale, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965.


3.2 Normativa dell’Unione Europea
Direttiva 2000/43/CE. Consiglio del 29 giugno 2000. Parità di trattamento fra le per-
sone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
                                              337
3.3 Normativa italiana
Legge 20 giugno 1952, n. 645. Norme di attuazione della XII disposizione transitoria
e finale (comma primo) della Costituzione.

Legge 13 ottobre 1975, n. 654. Ratifica ed esecuzione della Convenzione Internazio-
nale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma
a New York il 7 marzo 1966.

D.L. 26 aprile 1993, n. 122. Misure urgenti in materia di discriminazione razziale,
etnica e religiosa. Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla Legge 25 giugno
1993, n. 205.

Legge 28 agosto 1997, n. 302. Ratifica ed esecuzione della Convenzione quadro per
la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995.

D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

D.lgs. 9 luglio 2003, n. 215. Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la Parità di
trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

D.M. 16 dicembre 2005. Istituzione dell’elenco delle associazioni ed enti legittimati
   ad agire in giudizio in nome, per conto o a sostegno del soggetto passivo di discri-
   minazione basata su motivi razziali etnici di cui all’articolo 5 del D.lgs. 9 luglio 2003,
   n. 205.

   D.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30. Attuazione della Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto
   dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente
   nel territorio degli Stati membri.

   D.lgs. 19 novembre 2007, n. 251. Attuazione della Direttiva 2004/83/CE recante
   norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica
   del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché
   norme minime sul contenuto della Protezione riconosciuta.


   3.4 Normative della Regione Emilia-Romagna
   Legge Regionale 24 marzo 2004, n. 5. Norme per l’integrazione sociale dei cittadini
   stranieri immigrati. Modifiche alle Leggi Regionali 21 febbraio 1990, n. 14 e 12 mar-
   zo 2003, n. 2.



   4. GENERE
338
   4.1 Normativa internazionale
   Convenzione sui diritti politici della donna, firmata a New York il 31 marzo 1953,
   entrato in vigore il 7 luglio 1954 (testo ufficiale in inglese).

   Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, risoluzione dell’As-
   semblea Generale delle Nazioni Unite 48/04 del 24 febbraio 1994.

   Protocollo opzionale alla convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discrimi-
   nazione nei confronti delle donne, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni
   Unite il 6 ottobre 1999.

   Consiglio d’Europa Raccomandazione CM/Rec(2019)1 del Comitato dei Ministri agli
   Stati membri sulla prevenzione e la lotta contro il sessismo.

   Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro
   n. 190 del 10 giugno 2019 della Conferenza generale dell’Organizzazione Internazio-
   nale del lavoro.

   4.2 Normativa dell’Unione Europea
   Direttiva 13 dicembre 2004, n. 2004/113/CE Direttiva del Consiglio che attua il prin-
   cipio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso ai
   beni e servizi e la loro fornitura.
4.3 Normativa italiana
Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia
di lavoro.

Legge 14 marzo 1985, n. 132. Ratifica ed esecuzione della convenzione sull’elimi-
nazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New
York il 18 dicembre 1979.

D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Norme Generali sull’ordinamento del lavoro alle di-
pendenze delle amministrazioni pubbliche.

D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a nor-
ma dell’articolo 6 della Legge 28 novembre 2005, n. 246 (come modificato nel 2015
e poi con Legge 27 dicembre 2017, n. 205, cd. Legge di Bilancio 2018).

D.P.R. 14 maggio 2007, n. 115. Regolamento per il riordino della Commissione per le
pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 29 del D.L. 4 luglio 2006, n.
223 convertito, con modificazioni, dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248.

D.lgs. 6 novembre 2007, n. 196. Attuazione della Direttiva 2004/113/CE che hanno
il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’ac-
cesso ai beni e servizi e la loro fornitura.

D.L. 6 luglio 2011, n. 98. Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, con-  339
vertito con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111.



5. DISCRIMINAZIONE IN AMBIENTE DI LAVORO

5.1 Normativa internazionale
Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro
n. 190 del 10 giugno 2019 della Conferenza generale dell’Organizzazione Internazio-
nale del Lavoro.

Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e
delle loro famiglie, adottata per Risoluzione Assemblea Generale delle Nazioni Uni-
te 45/158 del 18 dicembre 1990, entrata in vigore il 1° luglio 2003.


5.2 Normativa dell’Unione Europea
Direttiva 2000/78/CE del consiglio, del 27 novembre 2000, un quadro generale per
la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006. Direttiva del Parlamento Europeo e del con-
siglio riguardante la situazione del principio delle pari opportunità e della parità di
   trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).

   Direttiva 7 luglio 2010, n.41- 2010/41/UE. Direttiva del Consiglio sull’applicazione
   del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano
   un’attività autonoma e che abroga la Direttiva 86/613/CEE del Consiglio.


   5.3 Normativa italiana
   Legge 6 Febbraio 1964, n. 405. Ratifica ed esecuzione della convenzione interna-
   zionale del lavoro n. 111, concernente la discriminazione in materia di impiego e di
   professione adottata a Ginevra il 25 giugno 1958.

   Convenzione 25 giugno 1958. Convenzione Organizzazione Internazionale del Lavo-
   ro (O.I.L.) sulla discriminazione in materia di impiego e nelle professioni.

   Legge 20 maggio 1970, n. 300. Norme sulla tutela della libertà e dignità dei sapori,
   della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul col-
   locamento.

   Legge 10 aprile 1981, n. 158. Ratifica della Convenzione Internazionale della Orga-
   nizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L.), n. 143 del 1975.

   Convenzione internazionale della Organizzazione Internazionale del lavoro (O.I.L.),
340  n. 143 del 1975.

   D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi
   nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei con-
   corsi unici e delle altre forme di Assunzione nei pubblici impieghi.

   Legge 15 maggio 1997, n. 127. Misure urgenti per lo snellimento dell’attività ammi-
   nistrativa e dei procedimenti di controllo.

   D.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61. Attuazione della Direttiva 97/81/CE relativa all’accor-
   do-quadro sul lavoro e tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES.

   D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
   tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della
   Legge 8 marzo 2000, n. 53.

   D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Norme Generali sull’ordinamento del lavoro alle di-
   pendenze delle amministrazioni pubbliche.

   D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Attuazione della Direttiva 1999/70/CE e relativa
   all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e
   dal CES.

   D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216. Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Attuazione delle deleghe in materia di occupazio-
ne e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30.

Legge 24 febbraio 2006, n. 104. Modifica della disciplina normativa relativa alla tu-
tela della maternità delle donne dirigenti.

Legge 28 giugno 2012, n. 92. disposizioni in materia di riforma del Mercato del La-
voro in una prospettiva di crescita.

Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 7 luglio 2019 - Misure per pro-
muovere le pari opportunità e rafforzare il ruolo dei Comitati unici di garanzia nelle
amministrazioni pubbliche.

Legge 19 luglio 2019, n. 69 - Modifiche al codice penale, al codice di procedura pe-
nale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di
genere (CODICE ROSSO).




                                             341
   Bibliografia. Riferimenti essenziali


   M. Barbera, A. Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti strumenti in-
   terpreti. Giappichelli, 2020

   A.K. Giuliani, A. Brunetti www.clap-info.net/2020/11/molestie-e-discriminazio-
   ni-di-genere-nei-luoghi-di-lavoro-quali-strumenti-per-lazione-giudiziaria/

   F. Bilotta, A. Zilli (a cura di), Codice di diritto antidiscriminatorio, Pacini editore, Pisa
   2019

   O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e pieti di discriminazione nell’era del diritto del
   lavoro derogabile, Roma 2017

   M.Peruzzi, La prova del licenziamento ingiustificato e discriminatorio, Torino 2017
342
   S. Scarponi, Licenziamento discriminatorio, licenziamento per motivo illecito deter-
   minante, Rivista giuridica del lavoro, II, 2016

   B. Pezzini (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole. 1. Corso di analisi di
   genere e diritto antidiscriminatorio, 2012

   B. Pezzini (a cura di), Genere e diritto. Come il genere costruisce il diritto e il diritto
   costruisce il genere. 2. Corso di analisi di genere e diritto antidiscriminatorio, 2012

   A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro, Padova 2010

   L. Calafà e D. Gottardi (a cura di), Il diritto discriminatorio tra teoria e prassi applica-
   tiva, Ediesse, Roma 2009

   M. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano 2007
Un caso di discriminazione per maternità davanti alla Consigliera
di parità di Rimini e poi al Giudice del Lavoro (scheda e sentenza)




Carmelina Fierro*



La Consigliera di Parità di Rimini riceve una lettera da parte del sindacato per as-
segnazione di ferie obbligatorie/variazione di mansione ad una donna lavoratrice.
Trattasi di una donna di 32 anni con due figli, di 3 anni e 18 mesi. Assunta a tempo
indeterminato dal 2009 presso un’azienda di commercio all’ingrosso con 18 dipen-
denti di cui 4 uomini. L’attività viene gestita con 2 reparti: magazzino, segreteria/    343
contabilità.

Al primo incontro, presentata la situazione lavorativa e familiare, la lavoratrice con-
ferisce delega alla Consigliera ai sensi del Dlgs 198/2006. La Consigliera convoca la
lavoratrice, il sindacato e l’azienda per rilevare i persi aspetti lavorativi nelle due
versioni:

• LAVORATRICE: al rientro dalla maternità non sono più in ufficio ma in magazzino
  a fare la magazziniera

• AZIENDA: stiamo cambiando le procedure e investendo nell’e-commerce per cui
  avremo un ufficio anche in magazzino dove la signora sarà responsabile

La Consigliera, alla luce di quanto esposto dall’azienda, chiede di formalizzare che
trattasi di un’azione positiva e di qualificazione, rimandando a un aggiornamento
entro sei mesi. Formalizza che l’azienda nella valorizzazione delle competenze ne-
cessarie al coordinamento del magazzino promuoverà un’azione positiva nei con-
fronti della lavoratrice nel rispetto di mansioni e livelli contrattuali. Invita a moni-
torare l’indicatore «conciliazione dei tempi» nella valutazione dello stress lavoro
correlato.


* Consigliera di Parità della Provincia di Rimini.
   AGGIORNAMENTO

   Nell’aggiornamento richiesto dalla Consigliera emerge che la lavoratrice di fatto in
   magazzino espleta le mansioni di pulizia, ha avuto una variazione unilaterale dell’o-
   rario, non ha potuto usufruire né delle ferie, né di permessi non retribuiti per an-
   dare alle terme già prenotate per una cura prenotata in precedenza per il figlio. Pur
   trattandosi del consueto periodo di chiusura collettiva, la Consigliera avvia la valuta-
   zione e chiede la documentazione ritenuta necessaria. Nel frattempo la lavoratrice
   in data 13 agosto riceve lettera di licenziamento per giustificato motivo soggettivo
   per assenze ingiustificate (la lavoratrice non si presenta a lavoro nella settimana di
   ferie richieste per cure termali dei figli).

   La documentazione richiesta con il coinvolgimento dell’Ispettorato del Lavoro e la
   Medicina del Lavoro di riferimento consta di: DVR- VALUTAZIONE STRESS LAVORO
   CORRELATO-ORGANICO con livelli e mansioni – mansionario scritto della lavoratrice
   - Spiegazioni formali sulla variazione d’orario e sul diniego delle ferie- LIBRO UNICO
   - LETTERE DI ASSUNZIONI eventuali promozioni e contestazioni dal 2010 a oggi -
   Eventuali procedure e regolamenti interni.

   Dalla valutazione emergono i seguenti dati significativi: nel 2011 è stata formalizzata
   alla lavoratrice una promozione, passaggio da magazzino a ufficio, rilevato come
   elemento migliorativo e di riconoscimento positivo. Dal 2010 l’azienda ha sempre
344  avuto la chiusura collettiva di 2 settimane nel mese di agosto.
   Assunzione a tempo determinato di una nuova persona per sostituzione maternità.
   Tale rapporto viene confermato anche dopo la maternità
   Assenza di riduzione di personale all’area amministrativa
   Assenza di un ufficio nel magazzino

   Alla luce dei questi elementi considerati significativi, la Consigliera di Parità invia al
   datore di lavoro e alla lavoratrice il proprio PARERE evidenziando la SIGNIFICATIVA
   CORRELAZIONE CON IL RIENTRO DALLA MATERNITA’.
345
346
347
348
Un caso di discriminazione per maternità davanti alla Consiglie-
ra di parità di Modena nell’atto di intervento ad adiuvandum

Mirella Guicciardi*

               TRIBUNALE CIVILE DI MODENA

                   -SEZIONE LAVORO-

R.G.L. 359/2014 UDIENZA 15 OTTOBRE 2014 G.d.L. DOTT.SSA VACCARI

Nel ricorso ex art. 414 c.p.c. promosso da

MRM, ricorrente, con l’Avv…

                      CONTRO
                                            349
SPA., resistente,

              CON INTERVENTO AD ADIUVANDUM

CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA DI MODENA, nella persona della dott.ssa
prof.ssa Barbara Maiani, interveniente, con l’Avv. Prof. Mirella Guicciardi.

Oggetto: accertamento comportamenti discriminatori / mobbizzanti posti in essere
al rientro dalla maternità– strategia negativa in danno della ricorrente – straining
/ bossing - dequalificazione professionale - risarcimento danni patrimoniali e non
patrimoniali. C.C.N.L.: Tessili

                      *****

INTERVENTO AD ADIUVANDUM DELLA CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA
DI MODENA ai sensi dell’art.38 Decreto legislativo 11.04.2006 n. 198 per la
ricorrente MRM.

La CONSIGLIERA DI PARITA’ EFFETTIVA DELLA PROVINCIA DI MODENA, nella persona
della dott.ssa prof.ssa Barbara Maiani, con sede in Modena (MO), Viale Martiri della
Libertà n. 34, presso Direzione Generale URP Pari Opportunità della Provincia di

* Avvocata del Foro di Modena, già Vice Presidente CPO Ordine Avvocati di Modena.
   Modena, P.IVA 01375710363, elettivamente domiciliata in Modena (MO), Corso
   Canalgrande n. 26, presso lo studio e nella persona dell’Avv. Prof. Mirella Guicciardi,
   che la rappresenta e difende in forza di procura alle liti posta in calce al presente atto e
   come affidamento di incarico libero professionale con determinazione del Direttore
   generale dott. Ferruccio Masetti della Provincia di Modena n. 24 in data 02 ottobre
   2014 agli atti, che dichiara di voler ricevere le notificazioni, le comunicazioni e gli
   avvisi di Cancelleria presso il proprio fax 059-241465 e presso il proprio indirizzo di
   p.e.c. mirella.guicciardi@ordineavvmodena.it, C.F. GCCMLL52P64F240T, così come
   indicati ai sensi degli artt. 125, 136 e 170 c.p.c. e dell’art. 37 D.L. 6 luglio 2011, n. 98
   (convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111) e successive modifiche ed integrazioni.


                    PREMESSE IN FATTO
   1. In data 13 Novembre 2013 la lavoratrice MRM, assistita dal legale Avv.,
     inviava una lettera raccomandata A/R all’Ufficio della Consigliera di parità
     della Provincia di Modena avente ad oggetto “Contestazione comportamenti
     discriminatori, dequalificazione professionale e comportamenti vessatori /
     mobbizzanti” perpetrato dalla società SPA., ai sensi del Decreto legislativo n.
     198/2006, che si produce doc. n.6;
   2. in data 05-12-2013 la Consigliera di parità convocava la lavoratrice unitamente
350
     al di Lei legale Avv. e MRM sottoscriveva la scheda informativa e di incarico di
     assistenza e rappresentanza ai sensi del D.lgvo n. 198/2006 ora D.lgvo n.5/2010
     onde porre in essere ogni azione utile a tutela degli interessi della stessa
     lavoratrice per la tutela avente ad oggetto discriminazione al rientro dalla
     maternità (docc. nn. 9-10);
   3. la Consigliera di parità apprendeva i seguenti fatti: (omissis)

     • che in data 8 giugno 2012, la signora MRM si assentava per maternità (doc.
       20 ricorso); -che in data 7 agosto 2012, la ricorrente inviava al Presidente
       una e-mail con la quale annunciava che il primo agosto era nata Rebecca
       ed il Presidente le rispondeva: “complimenti ….. e cazzi tuoi adesso” (doc.
       21 ricorso);
     • che decorsi alcuni giorni dal rientro dopo il periodo di astensione per
       maternità (4 marzo 2013), la signora MRM veniva convocata dalla signora X
       (doc. 22 ricorso), la quale, nel corso dell’incontro, Le proponeva di risolvere
       il rapporto di lavoro a fronte della sottoscrizione di un nuovo contratto a
       termine della durata di otto mesi con il ruolo di buyer;
     • che la proposta veniva declinata dalla signora MRM che non poteva
       ovviamente permettersi di rimanere priva di occupazione dopo pochi mesi
       dal rientro, con una bimba appena nata;
     • che trascorsi alcuni giorni, la stessa signora X ricontattava la lavoratrice
    proponendoLe di recarsi in Polonia dove la società gestiva alcuni negozi;

  • che a seguito della domanda della MRM in merito alla gestione della bimba,
    quest’ultima Le rispondeva: “l’allattamento lo fai in Polonia”;
  • che il giorno 5 marzo 2013, la signora MRM inoltrava alla società la richiesta
    dei permessi previsti per l’allattamento, che prevedevano un orario di
    lavoro pari a sei ore giornaliere da lunedì a venerdì con termine alle ore
    16.00 (v.doc. 24 ricorso);
  • che rientrata al lavoro (la data del 4.03.2013 era stata concordata
    preventivamente con l’azienda), alla lavoratrice non Le venivano assegnate
    le mansioni che aveva svolto prima dell’astensione per maternità, non Le
    veniva riconsegnato né il computer, né il cellulare, nè l’auto aziendale, e
    non Le venivano riconosciuti il fondo spese e la carta di credito;
  • che in pratica la lavoratrice, privata degli strumenti di lavoro, si ritrovava a
    svolgere esclusivamente semplici mansioni esecutive che consistevano nel
    sistemare / riordinare le vetrine o i punti vendita (v. doc. 25 ricorso);
  • che SPA Le impepa di beneficiare delle due ore giornaliere per
    l’allattamento; -che la ricorrente non si occupava più dell’immagine del
    prodotto o di intrattenere i rapporti con i fornitori o ancora di intrattenere
    i rapporti con gli addetti ai punti vendita, ossia di tutte quelle attività già  351
    dettagliatamente descritte nei precedenti punti. (omissis). I fatti prospettati
    ed i documenti prodotti ovvero demansionamento al rientro dalla maternità,
    intimazione alla risoluzione del rapporto di lavoro, vessazioni continue (es.
    isolamento dai/le Colleghi/ghe anche attraverso esclusione da riunioni
    di lavoro, mail, omesse informazioni importanti sul lavoro), violazione
    delle norme sulla tutela della maternità, dimostravano il comportamento
    discriminatorio di genere onde legittimare la Consigliera di parità in qualità
    di pubblico ufficiale a procedere con invito formale al Datore di lavoro SPA
    di presentarsi onde accertare i fatti, così come previsto dal D.lgvo 198/2006
    ora D.lgvo n.5/2010;
4. in data 12-12-2013 la Consigliera di parità inviava a mezzo fax la richiesta di
  incontro a SPA., che si produce (doc. n. 11);
5. in data 16-01-2014 le parti: la lavoratrice MRM ed il legale Avv ed il Datore
  di lavoro ed il legale si presentavano avanti la Consigliera di parità al fine di
  accertare i fatti denunciati e perfezionare un contradittorio sulla discriminazione
  denunciata;
6. i tentativi di conciliare la vertenza, ovvero invito formale della Consigliera di
  parità di rimuovere immediatamente la discriminazione ed il comportamento in
  palese violazione alle norme di legge con ripristino della mansione, ebbero un
  esito negativo, come da relazione della Consigliera di parità in data 01/10/2014
     che si produce doc. n. 4;

   7. la documentazione prodotta e i fatti lamentati hanno dimostrato in maniera
     palese il pregiudizio ed il grave danno professionale subito dalla lavoratrice
     per effetto della discriminazione di genere quali: impoverimento delle capacità
     professionali acquisite, correlato alla mancata acquisizione di una maggiore
     capacità; frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale;
     mancanza di costante aggiornamento sul campo, tenuto conto della continua
     evoluzione del mercato e dell’esclusione ai corsi di aggiornamento aziendali,
     lesione del prestigio, dell’immagine, del decoro e dell’umiliazione subita in
     azienda; demansionamento e dequalificazione, non concessione dei permessi
     per allattamento, mobbing;
   8. la certificazione medica e la relazione medica prodotte dalla ricorrente
     hanno riconosciuto il danno biologico e morale subito, in particolare vedasi la
     documentazione dell’Ospedale in data 08.01.2014 (doc. 48 ricorso);
   9. successivamente nell’aprile 2014 la lavoratrice era, quindi, costretta a rassegnare
     le dimissioni per giusta causa con mandato a procedere per la tutela dei propri
     diritti;
   10. in data 07-04-2014 l’Avv. …notificavano alla Consigliera di parità della Provincia
      di Modena per chiedere l’intervento ad adiuvandum a favore della lavoratrice
352    MRM come previsto ex lege;
   11. stante la discriminazione accertata e l’interesse ancora attuale, appare legittimo
      e lecito l’intervento ad adiuvandum della Consigliera di parità della Provincia di
      Modena, in quanto competente per territorio, ai sensi del D.lgvo 198/2006 ore
      D.lgvo n.5/2010, al fine di denunciare i comportamenti illeciti e discriminatori,
      per i seguenti

                    MOTIVI DI DIRITTO
   Preme richiamare in toto tutte le premesse e le motivazioni in diritto spiegate dalla
   ricorrente che si devono intendere parte integrante del presente atto.

   In primis, appare precipuo fare un breve excursus normativo al fine di inquadrare la
   discriminazione.

   DECRETO LEGISLATIVO N.198/2006 del 11-04-2006 CODICE PARI OPPORTUNITA’ ora
   DECRETO LEGISLATIVO N.5 IN DATA 25-01-2010

   Art. 1 (Divieto di discriminazione tra uomo e donna)

   (L. 14 maggio 1985, n. 132, art. 1)

   1. Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad elimina-
   re ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conse-
guenza, o come scopo, di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimen-
to o l’esercizio dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo.

Capo I Nozioni di discriminazione

Art. 26 (Discriminazione diretta e indiretta)

(L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, commi 1 e 2)

1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto,
patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le
lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno
favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situa-
zione analoga.

2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una dispo-
sizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparente-
mente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in
una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo
che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’o-
biettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati
e necessari.
                                               353
Divieti di discriminazione
Art. 28 (Divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro)

(L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 1, commi 1, 2, 3 e 4; L. 10 aprile 1991, n. 125, art.
4, comma 3)

1. È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso
al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendente-
mente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a
tutti i livelli della gerarchia professionale.

2. La discriminazione di cui al comma 1 è vietata anche se attuata:

1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza;

2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa
o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale
l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.

3. Il pieto di cui ai commi 1 e 2 si applica anche alle iniziative in materia di
orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per
quanto concerne sia l’accesso sia i contenuti, nonché all’affiliazione e all’attività in
un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i
   cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali
   organizzazioni.

   4. Eventuali deroghe alle disposizioni che precedono sono ammesse soltanto per
   mansioni di lavoro particolarmente pesanti inpiduate attraverso la contrattazione
   collettiva.

   5. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di terzi, da
   datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev’es-
   sere accompagnata dalle parole «dell’uno o dell’altro sesso», fatta eccezione per
   i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del
   lavoro o della prestazione.

   6. Non costituisce discriminazione condizionare all’appartenenza ad un determinato
   sesso l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, quando ciò sia
   essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.
   Art. 29 (Divieto di discriminazione retributiva)

   (L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 2)

   1. La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le presta-
   zioni richieste siano uguali o di pari valore.
354
   2. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribu-
   zioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne
   Art. 30 (Divieti di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella carriera)

   (L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 3)

   1. È vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attri-
   buzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera.”

   Orbene, la situazione denunciata dalla lavoratrice deve essere esaminata sotto vari
   aspetti dal punto di vista giuridico nel senso che si rende necessaria una premessa
   sul concetto di discriminazione in quanto concetto perso dalla nozione di parità di
   trattamento. Mentre il principio di parità di trattamento implica un obbligo positivo,
   ossia che sia riconosciuto il medesimo trattamento a coloro che si trovano nella
   stessa situazione, ed un trattamento ragionevolmente differenziato a coloro che si
   trovano in situazioni differenti, il pieto di discriminazione consiste invece nel di-
   vieto di differenziazioni di trattamento fondate su differenze (di sesso, lingua, razza,
   religione, opinioni politiche e sindacali) che l’ordinamento non ritiene ammissibili.
   Le norme sulla discriminazione si limitano dunque ad imporre dei pieti, dei limiti
   di ordine negativo, non degli obblighi di carattere positivo. Ebbene, il nostro ordina-
   mento, mentre accoglie in modo molto timido il principio di parità di trattamento
   nell’ambito del rapporto di lavoro, è invece caratterizzato da una efficace strumen-
   tazione contro i comportamenti discriminatori. A tal proposito, occorre ricordare:
- i principi Costituzionali espressi dall’art. 3 e 37; le norme Costituzionali in materia
di libertà di espressione del pensiero e di diritti sindacali, politici, religiosi. Il pieto
di discriminazione si pone dunque come principio fondamentale dell’ordinamento,
e come vincolo all’attività sia dello Stato che dei privati; gli artt. 1345 e 1418 del
codice civile, in base ai quali deve ritenersi nullo qualsiasi contratto, patto, accordo
(anche collettivo), atto giuridico discriminatorio: il motivo discriminatorio, in quanto
motivo illecito, compromette la validità del contratto o dell’atto giuridico, renden-
dolo nullo; la legge 9 dicembre 1977, n. 903: a) modifica l’art. 15 dello statuto
aggiungendo alle discriminazioni per motivi politici, sindacali e religiosi quelle
razziali, di lingua e di sesso; b) vieta, dichiarando nulla, qualsiasi discrimina-
zione nell’accesso al lavoro, anche se realizzata attraverso il riferimento allo
stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza o in modo indiretto, tramite
meccanismi di selezione o a mezzo stampa (si pensi alla proposta di assunzione
che richieda lavoratori non sposati, o che abbiano già dei figli); c) vieta, dichia-
rando nulle, le discriminazioni in materia di formazione professionale nonché
qualsiasi trattamento pregiudizievole (demansionamento, licenziamento, tra-
sferimento o altro) effettuato in considerazione del sesso; d) introduce uno
speciale procedimento contro le discriminazioni (art. 15).

  - la l. n. 860/1950, poi sostituita dalla l. 1204/1971, dalla l. n. 53/2000
  (ora d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151) di tutela della maternità e che,
  per quanto in questa sede interessa, prevede: a) il pieto (e dunque la
                                                 355
  nullità) di licenziamento della lavoratrice in gravidanza, fino ad un anno
  successivo alla nascita del bambino; b) il pieto di sospensione dal lavoro;
  c) la nullità del licenziamento determinato dalla fruizione del congedo
  parentale (astensione facoltativa) o di malattia del bambino; ecc. il pieto
  di adibire la lavoratrice in gravidanza a lavori pericolosi o insalubri;
  l’assenza obbligatoria della lavoratrice dal lavoro (con conservazione della
  retribuzione) , in coincidenza con la nascita del figlio; il diritto a permessi
  retribuiti o all’astensione facoltativa parzialmente retribuita (anche per il
  padre). ogni comportamento contrario è nullo, discriminatorio, di per sé
  fonte di danni e quindi di specifico risarcimento.

  - la legge sulle azioni positive (l. n. 125/1991). per rimediare ai limiti sopra
  evidenziati, soprattutto per quanto concerne la prospettiva di realizzazione
  di una effettiva parità, interviene la legge n. 125 del 1991. questa da un lato si
  propone di favorire l’occupazione delle donne, di realizzare un’uguaglianza
  sostanziale fra uomini e donne in tutti i momenti dell’attività lavorativa,
  dall’assunzione, alla formazione, alla progressione in carriera, rimuovendo
  gli ostacoli che impediscono di fatto una sostanziale parità. questi ostacoli
  sono essenzialmente rappresentati dalla maternità e dalla funzione della
  donna nella famiglia.

La parità di trattamento fra uomini e donne è altresì un principio fondamentale
dell’Unione europea e nazionale. La giurisprudenza della Corte ha contribuito a
   sviluppare ulteriormente l’interpretazione e la portata del principio della parità di
   trattamento. In questo quadro: “un trattamento meno favorevole riservato ad una
   donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità costituisce
   una discriminazione” (art. 2, par. 7, 3° comma, dir. 76/207/CEE come modificato
   dall’art. 1, n. 2), Direttiva 2002/73/CE; da ultimo art. 2 dir.2006/54/Ce recepita nel
   nostro ordinamento con il D. lgs. N. 5/2010); “Alla fine del periodo di congedo per
   maternità, la donna ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente
   secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di
   eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante
   la sua assenza” (art. 2, par. 7, 2° comma, dir. 76/207/CEE, come modificato dall’art.
   1, n. 2), dir. 2002/73/CE; art. 16 dir. 2006/54/Ce). Nel nostro ordinamento già l’art.
   37 Cost. introduce il principio di uguaglianza tra i sessi e di tutela della donna-madre
   nell’ambito lavorativo: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavo-
   ro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
   consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla
   madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

   Sulla scorta comunque della legislazione comunitaria e nazionale, appare evidente
   la piena legittimazione dell’intervento ad adiuvandum della Consigliera di parità.

   La discriminazione subita dalla lavoratrice

   Nel caso di specie, i fatti descritti e documentati nel ricorso confermano la sussi-
356
   stenza di un chiaro comportamento discriminatorio in ragione del ruolo di madre
   della lavoratrice, con grave violazione della normativa volta a favorire l’occupazione
   femminile, a realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro ed a
   rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. I
   fatti dedotti nel presente giudizio tratteggiano un quadro di aperta violazione delle
   disposizioni di tutela della maternità di cui al D. Lgs. N. 151/2001 ed appaiono tali da
   far desumere la sussistenza di un comportamento discriminatorio fra i più ricorrenti
   e diffusi, che colpisce le donne lavoratrici in relazione alla loro gravidanza ed al pre-
   sumibile impegno che, al loro rientro, dovranno affrontare per riuscire a conciliare
   l’impegno dell’attività lavorativa con l’espletamento delle funzioni di cura particolar-
   mente necessarie nei primi anni di vita del bambino. Come dimostrato nel ricorso,
   la ricorrente è stata oggetto di un costante quanto macroscopico demansionamento
   che la Società resistente ha posto in essere in danno della ricorrente a seguito del
   rientro dalla maternità. La ricorrente è stata adibita a svolgere semplici mansioni
   di “riordino” delle vetrine e di punti vendita; è stata messa da parte subito dopo
   l’assenza per maternità; è stata esplicitamente invitata, per mezzo del Presidente, a
   lasciare l’azienda e a cercare un nuovo lavoro. I dipendenti hanno inevitabilmente
   percepito la volontà aziendale di “costringere” la ricorrente a dimettersi, assistendo
   all’umiliazione della stessa e, involontariamente, ne hanno acuito la sofferenza. La
   figura professionale della ricorrente è stata sminuita, è stata privata di ogni autono-
   mia decisionale e deresponsabilizzata, perdendo progressivamente le soddisfazioni
   legate allo svolgimento del proprio lavoro per il quale “aveva dato tutto”.
La ricorrente ha sperato fino in fondo e fino all’ultimo che l’azienda le assegnasse le
precedenti mansioni di Visual Merchandiser (oggi svolte dal signor Y), o quantome-
no che la ricollocasse in un incarico adeguato.

Come ha avuto modo di rilevare sia la giurisprudenza di merito che quella di legit-
timità, è pacifico che assegnare ad una dipendente nel pieno della propria carriera
professionale (la ricorrente era inquadrata nel VII livello CCNL, coordinava i fornitori
dei prodotti di allestimento, aveva poteri decisionali e gestionali, etc…) un ruolo
meramente manuale, monotono e ripetitivo, altro non può apparire o essere che
la manifestazione di un giudizio datoriale negativo sulle capacità e sulle potenzia-
lità della dipendente. Sono naturalmente e notoriamente ovvi gli inevitabili riflessi
negativi di tale giudizio implicito sulla comunità lavorativa (conforme, Trib. Monza,
23.07.2009, in Rivista Critica Di Diritto Del Lavoro, 2009,Trib. Modena, Sez. Lavo-
ro, Sent. 9.04.2008, in Massima Redazionale, 2008; Cass. Civ., S.U., Sent. n. 6572
del 24.03.2006, in Corriere del Merito, 2006, 10, 1165). La ricorrente, a partire dal
marzo 2013, è stata oggetto di una strategia negativa, finalizzata ad ottenere le
“spontanee” dimissioni della lavoratrice madre. La ricorrente prima di assentarsi
per maternità si occupava di svolgere una molteplicità di attività che comportava-
no autonomia e discrezionalità e che impegnavano l’azienda anche nei confronti
di terzi (ad esempio nei rapporti con i fornitori), arrivando a coordinare e formare
gli store manager di tutti i punti vendita della società. Rientrata dalla maternità e
all’improvviso la ricorrente svolgeva attività meramente esecutive; riceveva le diret-
                                              357
tive da colleghi neo assunti che avevano preso il suo posto (signor Y); non gestiva
più alcuna risorsa; era soggetta a programmi di lavoro imposti; non veniva invitata a
partecipare ai corsi di aggiornamento professionale; era esclusa dalle comunicazio-
ni che riguardavano il proprio ruolo ecc.

L’onere probatorio appare assolto ampiamente con fatti gravi, precisi e concordanti
così come previsto ex lege e dalla giurisprudenza.

Conseguentemente, la ricorrente ha senz’altro il diritto al risarcimento dei danni
patrimoniali e non subiti nei termini precisati anche nel ricorso.

L’art. 2103 c.c. prevede espressamente un obbligo in capo al datore di adibire il la-
voratore alle mansioni per le quali è stato assunto oppure, in alternativa, a mansioni
corrispondenti alla categoria superiore o a mansioni equivalenti a quelle previste
all’atto dell’assunzione. Ogni patto contrario è nullo.

Nel caso in esame la dequalificazione subita dalla ricorrente è stata a dir poco ma-
croscopica, quanto dimostrata per tabulas.

La signora MRM svolgeva ormai un’attività meramente fisica e di fatica, senza il ben-
ché minimo apporto creativo/intellettuale, a differenza di quello che accadeva pri-
ma della maternità. Il “ruolo” non teneva in alcun modo conto della professionalità
acquisita e dell’esperienza maturata e, certamente, non consentiva alla ricorrente
di utilizzare il bagaglio professionale conquistato, nè di migliorare quello già facente
   parte del proprio patrimonio di conoscenze.

   Al di là della questione dell’immediatezza della dequalificazione subita ai sensi
   dell’art. 2103 c.c., nel caso di specie assume rilievo, ed aggrava il comportamento
   datoriale, l’umiliazione e la perdita di credibilità che la ricorrente ha subito (v. Cass.
   Sez. Lav., 14.04.2011 n. 8527). “In caso di accertato demansionamento professiona-
   le del lavoratore in violazione dell’articolo 2103 c.c., il giudice di merito, con apprez-
   zamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può de-
   sumere l’esistenza del relativo danno non patrimoniale, derivante dalla lesione della
   dignità personale e del prestigio professionale, tutelati dall’articolo 35, I° comma,
   Cost, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico
   attinente alla formazione della prova anche presuntiva, in base agli elementi di fatto
   relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di profes-
   sionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalifi-
   cazione e alle altre circostanze del caso concreto (nella fattispecie è stata ritenuta
   illegittima l’assegnazione di un lavoratore all’uso di un elaboratore elettronico senza
   la previa necessaria istruzione, con il conseguente diritto del lavoratore al risarci-
   mento del danno per il disagio sofferto a causa dell’evidente incolpevole imperizia).

   Per quanto riguarda recenti sentenze di legittimità, si citano per tutte: Cass. Sez.
   Lav., Sent., 04.03.2011, n. 5237; Cass. Sez. Lav. 14.06.2010 n. 14199; Cass. Sez. Lav.
   26.02.2009 n. 4652. Anche in precedenza, la Cassazione riconosceva il danno patri-
358  moniale nei termini sopra descritti, ossia quando il lavoratore allegava e provava,
   anche attraverso presunzioni, che l’attività precedentemente svolta è soggetta a
   continua evoluzione, oppure che la precedente attività era caratterizzata da van-
   taggi connessi all’esperienza professionale acquisita, destinata a venir meno in
   caso di mancato esercizio per un apprezzabile lasso di tempo (conforme, Cass. Civ.,
   Sez. Unite, Sent. n. 6572 del 24.03.2006, in Corriere del Merito, 2006, 10,1165).
   Proprio come nel caso di specie.

   Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, rilevano altresì ulteriori elementi,
   quali l’anzianità di servizio, la qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa,
   la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento.

   Oltre alla dequalificazione subita, come risulta dai documenti SPA, a far tempo dal
   mese di marzo 2013, ossia dopo il rientro dal periodo di maternità, ha iniziato a por-
   re in essere una serie di comportamenti sistematici ad alto contenuto persecutorio
   e discriminatorio in danno della ricorrente, finalizzati ad ottenere le dimissioni della
   stessa.

   Le puntuali e documentali descrizioni contenute nella parte in fatto sono consistite:
   nella negazione dei permessi previsti per l’allattamento; nella progressiva emargina-
   zione della lavoratrice dal contesto aziendale; nella mancata consegna al rientro dal-
   la maternità degli strumenti di lavoro consegnati solo a seguito della contestazione
   mossa personalmente dalla signora MRM; nella proposta di trasformare il rapporto
   di lavoro in essere in un contratto della durata di 8 mesi prospettandole addirittura
una trasferta in Polonia durante il periodo dell’allattamento; nell’assegnazione di
compiti a dir poco dequalificanti e umilianti; nell’esclusione della ricorrente dai corsi
di aggiornamento / formazione; nell’esclusione della ricorrente dalle informazioni /
comunicazione aziendali relative al proprio ruolo; nell’assegnazione di programmi/
trasferte di lavoro irragionevoli senza neppure l’indicazione dei punti vendita in cui
si sarebbe dovuta recare e senza l’indicazione di cosa avrebbe dovuto fare; ecc..

Come risulta dai documenti prodotti la ricorrente, prima di assentarsi per maternità
svolgeva la propria attività con ampia autonomia operativa nell’ambito del livello
d’inquadramento riconosciuto (I livello Commercio poi VII Tessile). Al rientro dalla
maternità, la società assegnava alla ricorrente semplici mansioni esecutive/di fatica
(che le provocavano peraltro dolori alla schiena, cfr. doc. in atti), che consistevano
in attività di “vetrinista/riordino/pulizia dei punti vendita”. Queste ultime attività
rientravano, come espressamente previsto dal contratto, addirittura nel II° livello
del C.C.N.L. (cfr. doc. 13). In tale fattispecie appare palese anche il mobbing subito
dalla lavoratrice come discriminazione, laddove sull’onere della prova la giurispru-
denza di merito ritiene che il mobbing, quale palese violazione dell’art. 2087 c.c., sia
oggetto della conseguente inversione dell’onere che grava così in capo al datore di
lavoro. È infatti il datore di lavoro a dover provare di aver ottemperato all’obbligo di
tutela dell’integrità psicofisica della lavoratrice. Su quest’ultimo grava unicamente
l’onere di provare la sussistenza della lesione (che nel caso di specie emerge dai do-
cumenti in atti), e il relativo nesso di causalità, già confermato dalle relazioni peritali
                                               359
prodotte, e che si chiede comunque di provare/confermare anche a mezzo di C.T.U.
medico legale.

I danni non patrimoniali: “danno biologico permanente e temporaneo”; “pregiudi-
zio morale”; “pregiudizio esistenziale”.

L’odierno procuratore richiama in toto le certificazioni mediche e le motivazione del
ricorso.

Merita solo citare le relazioni redatte dal Dott., nonché il parere medico legale re-
datto dal Dott. (cfr. docc. 48 e 49 ricorso), ove la ricorrente, anche a causa della
sola dequalificazione subita, a partire dal marzo 2013 ha sofferto di un “disturbo
dell’adattamento con ansia e umore depressi misti, cronico”, valutabile nella misura
del 10% del danno biologico permanente (cfr. doc. 49 ricorso). Già la Clinica del La-
voro di Milano, accertava che la signora MRM, a causa dell’assegnazione di compiti
lavorativi di basso profilo, soffriva di un “ un disturbo dell’adattamento con reazione
emotiva a dominanza depressiva” (cfr. doc. 48 ricorso), talchè da costringere la ri-
corrente a sottoporsi a visite specialistiche.

Preme solo precisare che tale quadro clinico è stato confermato anche nella relazio-
ni peritale del Dott. il quale ha dichiarato il nesso causale tra la malattia sofferta e
i comportamenti datoriali. È pertanto pacifico, e provato per tabulas, che vi sia una
stretta relazione (nesso causale) tra le condizioni psicofisiche della signora MRM e
le condotte omissive e commissive discriminatorie dell’azienda, anche solo relativa-
   mente alla dequalificazione.

   Tutto ciò premesso, la Consigliera di parità della Provincia di Modena dott.ssa Prof.
   ssa Barbara Maiani nell’interesse di MRM, spiega le seguenti

                      CONCLUSIONI

   Voglia l’Ill.mo Tribunale di Modena, in funzione di Giudice Unico del Lavoro, disat-
   tesa e respinta ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così giudicare conse-
   guentemente.

   Nel merito:
   1. Accertare e Dichiarare che la società, a partire dal marzo 2013 ha posto in
     essere nei confronti ed in danno della ricorrente MRM una discriminazione ma-
     nifestatasi in tutte le condotte ed azioni, anche omissive e discriminatorie, come
     meglio articolate nella parte in narrativa e nei motivi di diritto, in violazione
     degli artt. 1175, 1176, 2103,2087 c.c., degli artt. 1, 2, 4, 32, 35 e 41 della Costi-
     tuzione, del decreto legislativo n.198/2006 ora decreto legislativo n.5/2010, del
     T.U. sulla maternità D.Lgs n.151/2001;
   2. Accertare e Dichiarare che la discriminazione e le condotte ed azioni, anche
     omissive, della Società resistente descritte in narrativa, anche solo relativamen-
360    te alla dequalificazione subita, hanno ravvisano le discriminazioni nei confronti
     della signora MRM con conseguente riconoscimento di tutti i danni previsti an-
     che dal D.lgv 198/2006 ora D.lgvo n.5/2010, tra cui danno biologico da invalidità
     permanente, danno non patrimoniale, nella misura del 10%, come risulta dalle
     relazioni peritali in atti, calcolata sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano,
     anno 2013 (età 38 al marzo 2013), maggiorato del 49%, in ossequio alle disposi-
     zioni dell’ ”Osservatorio per la Giustizia civile di Milano”, tenuto conto: del grave
     pregiudizio morale ed interiore sofferto dalla ricorrente come descritto nella
     parte in narrativa e confermato dalle relazioni mediche; del grave pregiudizio
     esistenziale come meglio argomentato in atti, ovvero nella persa percentuale/
     misura che verrà determinata in corso di causa quale adeguata personalizza-
     zione della liquidazione, onde pervenire al ristoro del danno non patrimoniale
     nella sua interezza, anche a seguito di C.T.U. medico legale, e/o quell’altra per-
     centuale ritenuta di giustizia;
   3. DICHIARARE LA NULLITÀ DI TUTTI GLI ATTI O PATTI DISCRIMINATORI;

   4. conseguentemente, Condannare la Società resistente SPA., in persona del le-
     gale rappresentante pro tempore, a risarcire alla signora MRM tutti i danni pa-
     trimoniali e non patrimoniali costituiti dagli importi citati nelle conclusioni del
     ricorso, pari a complessivi € 60.947,97, di cui:
     • € 22.370,00 a titolo di danno biologico permanente, da intendersi quale ca-
      tegoria/componente descrittiva del danno non patrimoniale calcolato nella
    misura del 10% e/o quell’altro importo/percentuale che risulterà in corso di
    causa o ritenuto di giustizia, oltre interessi e rivalutazione;
  • € 10.961,00 (49% calcolato sull’importo del danno biologico permanente),
   quale adeguata personalizzazione della liquidazione a titolo di ristoro del
   danno non patrimoniale inteso quale pregiudizio morale e pregiudizio esi-
   stenziale, ovvero la persa somma che risulterà all’esito della C.T.U., ovvero
   la persa somma ritenuta di giustizia, oltre a rivalutazione monetaria ex art.
   429, III comma, c.p.c. ed interessi al tasso legale dal 17 dicembre 2011 sino
   all’effettivo saldo, oltre interessi ex art. 1283 c.c. dalla data della domanda
   giudiziale sino all’effettivo saldo;
  • € 8.640,00 a titolo di danno biologico temporaneo, da intendersi quale ca-
   tegoria/componente descrittiva del danno non patrimoniale calcolato nella
   misura indicata nella relazione peritale, oltre interessi e rivalutazione mone-
   taria dalle singole scadenze al saldo, ovvero la persa somma che risulterà
   all’esito della C.T.U. ;
  • € 18.000,00 a titolo di danno patrimoniale conseguente la dequalificazione
   subita, (calcolato fino al marzo 2014), oltre ai successivi importi maturandi
   (60% della retribuzione globale di fatto), fino all’assegnazione delle man-
   sioni che la ricorrente svolgeva prima di assentarsi per maternità, come de-
   scritte e documentate, oltre interessi e rivalutazione dalle singole scadenze
                                             361
   al saldo, e/o quell’altro importo ritenuto di giustizia;
  • € 854,00 a titolo di danno patrimoniale per refusione dei costi sostenuti per
   la perizia medico legale , ovvero la persa somma che risulterà in corso di
   causa, anche all’esito della C.T.U. medico legale, ovvero la persa somma
   ritenuta di giustizia o di equità, oltre rivalutazione monetaria ed interessi al
   tasso legale sulla somma rivalutata anno per anno dalle singole scadenze
   (pagamenti effettuati) all’effettivo saldo;
  • € 122,92 a titolo di danno patrimoniale per le spese mediche connesse alle
   patologie accertate, ovvero la persa somma che risulterà nel corso di cau-
   sa, anche all’esito della C.T.U. medico legale, ovvero la persa somma rite-
   nuta di giustizia, oltre rivalutazione monetaria ed interessi al tasso legale
   sulla somma rivalutata anno per anno dalle singole scadenze (pagamenti
   effettuati) all’effettivo saldo;

In ogni caso:
1. Ordinare la pubblicazione del dispositivo della sentenza su due testate a diffu-
  sione nazionale (“Il Corriere” e/o “La Repubblica” e/o “La Stampa” e/o “Il Gior-
  nale” e/o “Libero” e/o “Il Quotidiano”), e su almeno una testata giornalistica del
  settore moda (“Panbianco”).

Sentenza esecutiva, come per legge.
   In via istruttoria:

   • Ordinare ex art. 210 c.p.c., a spese ed a carico della società resistente, la produ-
     zione in giudizio delle lettere di assunzione/contratti di lavoro dei signori X e Y;
   • Ordinare ex art. 210 c.p.c., a spese ed a carico della resistente, la produzione in
     giudizio del libro unico del lavoro dal gennaio 2013 fino al termine per la costi-
     tuzione in giudizio della resistente;
   • Ordinare ex art. 210 c.p.c., a spese ed a carico della società resistente, la pro-
     duzione in giudizio della lettera di dimissioni della signora W e la lettera di licen-
     ziamento/risoluzione del rapporto di lavoro della signora Z;
   • Ordinare ex art. 210 c.p.c. all’INPS di Milano, a spese e a carico della resistente,
     di produrre in giudizio tutti i certificati medici trasmessi dalla ricorrente a far
     tempo dal marzo 2013;
   • Ammettere C.T.U. medico legale a spese della resistente sulla persona della ri-
     corrente al fine di accertare: la natura dei danni psicofisici patiti dalla signora
     MRM a causa della strategia negativa posta in essere dalla resistente, ovvero
     anche solo a causa della dequalificazione professionale subita a partire dal mar-
     zo 2013; il nesso causale tra i comportamenti posti in essere dalla società come
     descritti e documentati in atti; il danno biologico da invalidità permanente, da
362   calcolarsi sulla base delle Tabelle del Tribunale di Milano 2013, il pregiudizio esi-
     stenziale ed il pregiudizio morale; il danno biologico da invalidità temporanea,
     totale e parziale; l’ammontare delle spese mediche/sanitarie sostenute dalla
     ricorrente e quelle da sostenersi nel futuro;
   • trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica competente per i reati che vor-
     rà ravvisare anche in correlazione con la violazione delle norme sulla sicurezza
     sul lavoro, sulla tutela della maternità e sulla normativa in materia di discrimi-
     nazioni;
   • trasmettere gli atti all’AUSL competente per accertare la violazione delle norme
     sulla sicurezza sul lavoro, sulla tutela della maternità e sulla normativa in mate-
     ria di discriminazioni;
   • trasmettere gli atti alla DTL competenti affinchè predisponga ispezioni per ac-
     certare la violazione anche delle norme sulla sicurezza sul lavoro, sulla tutela
     della maternità e sulla normativa in materia di discriminazioni;
   • Condannare la Società resistente al pagamento dei compensi professionali,
     comprese le spese di CTU e CTP, oltre al 22% I.V.A. e al 4% C.p.A. e rimborso
     spese generali 15%.

   Io sottoscritta Avv. Prof. Mirella Guicciardi del Foro di Modena dichiara che il valore
   della causa, ai sensi dell’art. 10 e seguenti c.p.c. non è modificato e, pertanto, non
   varia il valore della stessa.
Con osservanza.


Si produce:
1. Ricorso ex art. 414 c.p.c. dell’Avv. nell’interesse di MRM in data 01-03-2014,
  notificato con pedissequo decreto alla Consigliera di parità della Provincia di
  Modena in data 07-04-2014;
2. determinazione del Direttore generale dott. Ferruccio Masetti della Provincia
  di Modena - Direzione Generale – n. 24 in data 02-10-2014 avente ad oggetto
  “Affidamento di incarico libero professionale all’Avv. Mirella Guicciardi per inter-
  vento ad adiuvandum per la Consigliera di Parità della Provincia di Modena” con
  allegata lettera accompagnatoria classifica 01-15 fasc. 28.31/2013 in pari data;
3. conferimento di incarico di intervento ad adiuvandum della lavoratrice MRM
  alla Consigliera di Parità della Provincia di Modena nella persona della Dott.ssa
  Prof.ssa Barbara Maiani in data 30-09-2014, ai sensi dell’art. 37 Decreto legisla-
  tivo n. 198/2006 con allegata carta d’identità e codice fiscale di MRM;
4. relazione riassuntiva dei fatti da parte della Consigliera di Parità della Provincia
  di Modena Dott.ssa Prof.ssa Barbara Maiani in data 01-10-2014, protocollo n.
  95851 in data 02-10-2014, cl. 01-15 fasc. 28.31/2013;
                                              363
5. copia lettera dell’Avv. a firma di MRM a SPA ed alla Consigliera di Parità della
  Regione Emilia Romagna in data 19 settembre 2013 avente ad oggetto “conte-
  stazione comportamenti discriminatori, dequalificazione professionale e com-
  portamenti vessatori/mobbizzanti”;
6. copia lettera dell’Avv. a firma di MRM a SPA ed alla Consigliera di Parità della
  Provincia di Modena in data 13 novembre 2013, ricevuta dalla Provincia con
  protocollo n. 113444 in data 19-11-2013, avente ad oggetto “contestazione
  comportamenti discriminatori, dequalificazione professionale e comportamenti
  vessatori/mobbizzanti”;
7. copia lettera dell’Avv. a firma di MRM alla Consigliera di Parità della Provincia
  di Modena dott.ssa Prof.ssa Barbara Maiani in data 27-01-2014, ricevuta dalla
  Provincia con protocollo n. 10490 in data 30-01-2014;
8. copia lettera dell’Avv. a firma di MRM a SPA ed alla Consigliera di Parità della
  Provincia di Modena in data 24-03-2014, ricevuta dalla Provincia con protocollo
  n. 34088 in data 26-03-2014, avente ad oggetto “dimissioni per giusta causa”;
9. copia scheda informativa della Consigliera di Parità della Provincia di Modena
  relativa alla lavoratrice MRM in data 05-12-2013 con incarico di assistenza e
  rappresentanza ai sensi del D.lgvo n. 198/2006 ora D.lgvo n.5/2010 onde porre
  in essere ogni azione utile a tutela degli interessi della stessa lavoratrice per la
  tutela avente ad oggetto discriminazione al rientro dalla maternità;
   10. copia conferimento della delega della lavoratrice MRM alla Consigliera di Pa-
      rità della Provincia di Modena in data 05-12-2013 ai sensi dell’art.37 D.lgvo n.
      198/2006 ora D.lgvo n.5/2010;
   11. copia lettera della Consigliera di Parità della Provincia di Modena Dott.ssa Prof.
      ssa Barbara Maiani a SPA in data 12-12-2013, protocollo n. 121307, avente ad
      oggetto “Richiesta incontro”;
   12. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna Decreto legislativo 11-04-2006
      n. 198, G.U. 31-05-2006, decreto legislativo n.5/2010 e Codice delle P.O. così
      modificato ed integrato ad oggi.

   Con osservanza

   Modena, lì 04 Ottobre 2014

   La Consigliera di parità della Provincia di Modena

   Dott.ssa Prof.ssa Barbara Maiani




   Avv. Prof. Mirella Guicciardi
364  PROCURA ALLE LITI

   Io sottoscritta Consigliera di parità della Provincia di Modena Dott.ssa Prof.ssa Bar-
   bara Maiani delego a rappresentarmi e difendermi nella presente causa, azione e/o
   procedura ed in ogni altra alla stessa connessa, ivi compreso l’eventuale giudizio
   di reclamo, appello e/o opposizione all’esecuzione, in ogni connessa incombenza,
   comprese riassunzioni, reclami e trascrizioni di qualsiasi atto, conferendo espresso
   mandato per la eventuale chiamata di terzi, per la produzione di domande riconven-
   zionali, domande nuove e nei confronti dei convenuti, dei terzi chiamati e di tutte le
   parti del giudizio, la richiesta di provvedimenti cautelari o d’urgenza e la presenta-
   zione delle occorrenti istanze, di comparire in sostituzione e rendere l’interrogatorio
   libero di cui agli artt. 185, 317, 320, 420 codice di procedura civile ed art. 3 Legge
   102/06 e successive modifiche, di conciliare e transigere la lite stessa, nonché il
   potere di rinunciare agli atti del giudizio e di accettare l’altrui rinuncia, incassare
   somme, ed, inoltre, con facoltà di farsi rappresentare, assistere o sostituire, eleg-
   gere domicilio ed ogni altra facoltà inerente, l’Avv. Prof. Mirella Guicciardi, presso
   il suo studio in Modena, Corso Canalgrande n. 26. Considerato rato e valido il Suo
   operato senza ulteriore ratifica, assumendo fin da ora l’onere di pagamento di diritti
   e onorari secondo la determinazione dirigenziale Direttore generale dott. Ferruccio
   Masetti della Provincia di Modena n. 24 in data 02 ottobre 2014.

   Dichiaro inoltre di essere edotta ex art. 13 D.lgs. 196/2003 che il trattamento e/o
   comunicazione dei miei dati personali e/o identificativi e/o sensibili sarà utilizzato
ai soli fini del presente incarico ai sensi e per gli effetti di legge. Prendo atto che il
trattamento dei dati personali avverrà mediante strumenti manuali, informatici e
telematici con logiche strettamente correlate alla finalità dell’incarico. Così pure,
dichiaro di essere stato informato sulla normativa antiriciclaggio.

La Consigliera di parità della Provincia di Modena

Dott.ssa Prof.ssa Barbara Maiani



V° è autentica

Avv. Prof. Mirella Guicciardi




                                               365