Musicare_gennaio 2020_Sanremo, Rap e Maschilismo

Sanremo, Rap, Maschilismo: alcune riflessioni per la rivista Musicare

Un rapper, Junior Cally di 28 anni, invitato alla settantesima edizione del Festival di Sanremo, finisce al
centro delle polemiche per via di alcuni versi di una canzone accusata di sessismo che sembra in qualche
modo avvallare la violenza sulle donne. Si scatena la discussione e social e media si accorgono che le
canzoni, non solo quella di Cally, sono intrise di maschilismo….
La polemica non riguarda se un testo per quanto discutibile debba o meno andare a Sanremo, in orario di
prima fascia del servizio pubblico,televisivo, ma se un musicista che in passato ha scritto e cantato testi
sessisti o scorretti abbia diritto di parteciparvi. I versi di Strega ( del 2017) e Si chiama Gioia (il brano del
2018 di cui si discute) sono, a mio avviso, eticamente inaccettabili. Nessuna donna e nessun uomo dotati di
un minimo di consapevolezza, assennatezza, rispetto, visione inclusiva, si identificherebbero con la
narrazione evocata, ma il rap è uno dei generi musicali in cui la cifra stilistica è l’eccesso, dove il
maschilismo è più presente e dove nei testi delle canzoni la donna è descritta spesso come un oggetto. Nel
rap, non solo in quello italiano, c’è un sessismo esplicito. Da sempre.
Ce ne accorgiamo e ci indignamo solo a Sanremo? Il tema è importante, al di là della polemica, delle
dichiarazione dei vertici Rai e degli/delle opinion leader e mi offre l’ occasione per riflettere su una
questione seria come quello del sessismo e della violenza di genere nelle espressioni artistiche e culturali.
Premetto che le canzoni (ma non solo) devono essere considerate in riferimento al periodo storico in cui
sono state composte, ai connotati culturali del contesto sociale e alle intenzioni dell’artista che le interpreta e
le propone ad un determinato pubblico. Spesso i testi dei brani musicali si basano su un repertorio
linguistico fondato su variazioni stilistiche e sociali che si caratterizzano per un registro informale, gergale e
colloquiale, riferibile al proprio tempo, alla propria tribù, al proprio pubblico. Soprattutto nel rap il testo
semiotico è estremo, provocatorio, violento, controverso, propone una narrativa dedotta ed evocata anche
da altra musica (il metal, il trap ad es.), da certi film, da certi videogiochi che dilagano tra i giovani e non
solo. Il rap veicola spesso contenuti antisociali, scomodi, ma non è inusuale che la musica popolare
racconti e enfatizzi stili di vita discutibili (ci ricordiamo il rock e l’uso delle droghe?). Il femminicidio,
magari con linguaggio meno esplicito e meno volgare, si ritrova in molti brani italiani e internazionali…. Se
gli stessi contenuti sono veicolati dalla canzone d’autore o dal rock classico, magari utilizzando musica più
strutturata e parole più ricercate, sono più accettabili? Per me è altrettanto detestabile l’ipocrisia di certa
musica (italiana e non), con le sue canzoni stereotipate dove, magari meno esplicitamente, passa un sessismo
mieloso, costruito su un immaginario falso e non meno oggettivante delle donne.
Da sempre gli eventi musicali popolari, qual è Sanremo, sfruttano abilmente il discorso mediatico, sia
nell’enfasi e sia nella polemica, per instaurare un rapporto privilegiato, quasi personale, col proprio pubblico
di riferimento. I media e i social giocano un ruolo decisivo nella cultura dell’oggettivazione sessuale e
contribuiscono sistematicamente alla frammentazione del corpo femminile, all’ annullamento della donna in
quanto persona tramite la stereotipizzazione del suo ruolo culturale e sociale. Sanremo e la televisione non
sfuggono a questa rappresentazione, la mettono in scena sapietemente.
L’ uomo che ama troppo e uccide per il troppo amore o quello dell’uomo che abusa in preda ad un raptus
irrefrenabile sono due chiavi di lettura dei fatti di violenza di genere che ritroviamo ampiamente usate non
solo nei media e nei social, ma anche nella narrazione letteraria, filmica, giornalistica, quotidiana, nelle
conversazioni. Allora un dubbio mi sorge spontaneo: forse la parola e il racconto mediatici riflettono e
mettono nero su bianco quell’antica consuetudine culturale che giustifica la reazione violenta degli uomini
davanti al cambiamento degli equilibri sociali tra i generi. Parto dall’ipotesi secondo cui si tende a
raccontare i casi di femminicidio attraverso chiavi di lettura implicitamente maschiliste e sessiste, nei
giornali, in tv, nei film e anche nel rap, anche nelle canzoni.
Pratiche e stereotipi sessisti alimentano la discriminazione e la discriminazione è una forma di violenza. Il
sessismo praticato abitualmente piene causa e fonte di violenza di genere e costituisce un’esperienza
quotidiana che, proprio per la sua pervasività, è difficile da concettualizzare e alla quale non è semplice
resistere. La violenza di genere non può e non deve essere considerata una realtà “inevitabile”. La causa
principale della violenza di genere è la discriminazione, agita in ogni sfera della vita delle donne. E la
discriminazione cresce negli stereotipi culturali, nel sessismo diffuso implicito ed esplicito, consapevole e
inconsapevole e nell’ignoranza.
Molti studi recenti hanno dimostrato che esiste una relazione fra esposizione a contenuti sessualizzanti e
atteggiamenti sessisti. Donne e uomini esposti a immagini e a contenuti sessualmente oggettivanti,
dimostrano di accettare i “miti sullo stupro” ( se l’è cercato), modificano, in negativo, la percezione della
donna, tendono a trattare le donne come oggetti e a valutarle solo dal punto di vista estetico.
Secondo altri studi, gli algoritmi che regolano le informazoni in rete tendono ad associare le donne con la
cura domestica e privata e gli uomini con la carriera e le attività pubbliche (è fantascienza sperare che gli
algoritmi siano in grado da soli di liberarci dal sessismo diffuso tra gli esseri umani).
Per risolvere questo problema sarebbe meglio concentrarsi sul processo educativo, sulla cultura della
valorizzazione delle differenze per eliminare gli stereotipi dalla mentalità delle nuove generazioni, investire
risorse su politiche culturali autenticamente inclusive, investire maggiormente nella cultura diffusa nei
territori, nelle scuole, nelle città, nei teatri, nelle orchestre, nei musei, nella promozione alla lettura,
nell’arte,... e meno nei grandi eventi mediatici.
Non basta indignarsi, firmare appelli, censurare un rapper che esplicitamente, nel circo mediatico di
Sanremo, inneggia alla discriminazione e alla violenza se non si interviene nella quotidianità per contrastare
il maschilismo, il sessismo e i pregiudizi di genere nelle relazioni, nel linguaggio, nelle sensibilità delle
persone e di conseguenza nella comunicazione mediatica, nelle trasmissioni televisive, nel marketing, ….
dappertutto.

Solo la reciprocità del riconoscimento tra persone differenti dà significato ai sentimenti, alle intenzioni e alle
azioni del sé e permette di verificare l'efficacia del proprio agire e della propria creatività artistica. Ogni
persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, ma nella consapevolezza che il
maschilismoe e il sessismo oscurano l’arte, la rendono sterile, la deteriorano nel conformismo e nella
ripetizione.

E’ il momento di dotarsi di cultura perché l'umanità tutta possa differenziarsi dal suo modo di essere
discriminante e razzista.


Francesca Lazzari

Vicenza, 30 gennaio 2020