Intervento inaugurazione nuovo centro antiviolenza Arzignano_8mar22

8 marzo 2022 Inaugurazione Centro Antiviolenza Arzignano

In questo primo anno del mio mandato ho rilevato situazioni difficili, tristi, sono entrata nella
carne viva delle condizioni del Mercato del Lavoro del nostro territorio e sto capendo la reale
situazione delle donne nel lavoro, non che non la conoscessi, ma l’approccio è diretto e mi
interroga profondamente. Questa stessa percezione arriva da chiunque operi a contatto con le donne,
mi riferisco alla rete degli sportelli antiviolenza e antimolestie sul territorio della Provincia.
Le donne che si rivolgono al mio ufficio hano un’età di 31/50 anni , più del 60% sono italiane, Il
50% con figli, Il 55% non è indipendente economicamente , la maggior parte ha lavori fragili,
sommersi, precari. Il lavoro delle donne è in media un lavoro più fragile rispetto a quello maschile.
Siamo pentati il Paese del part-time involontario, subito da chi, invece, vorrebbe il tempo pieno
con le certezze che ne conseguono.
Il lavoro delle donne da troppo tempo ha queste caratteristiche: è intermittente, aleatorio, in altri
termini flessibile, informale, deregolamentato, incerto. Le cause possibili sono tante: rilevano la
pisione di genere del lavoro, la segregazione del percorso formativo, la segregazione
occupazionale sia orizzontale sia verticale, le procedure di selezione non neutrali rispetto al genere
e così via … ma in tutte queste possibili cause gli stereotipi hanno un ruolo importante nel
distorcere l’allocazione delle risorse rispetto a quella efficiente.
Vale la pena di comprendere la rilevanza che questo lavoro fragile porta nelle soggettività di
ciascuna e di molte: da più parti si sottolinea come stia avvenendo una sorta di mutamento
antropologico. Un lavoro debole porta inevitabilmente a pensioni povere, a protezioni fragili, a
reddito scarso, alla precarietà delle vite, alla frammentazione dello spazio e del tempo e porta a
conseguenze ormai chiaramente visibili: nell’era delle flessibilità negative, gli spazi di tempo per la
cura e gli affetti sono per tutti più brevi, la società richiede duttilità, adattabilità, orizzonti a breve
scadenza che nelle vite inpiduali, soprattutto di chi vive in fasce sociali marginali e poco
protette, possono pentare solitudine, precarietà, fragilità, assenza di prospettiva futura, questa
condizione di debolezza economica si intreccia con la violenza di genere, aumentata tragicamente
durante la pandemia dentro e fuori i luoghi dei lavoro.
Dobbiamo dirci prima di tutto che siamo in una situazione molto grave, che penta drammatica
nelle periferie e nelle aree economicamente marginali, da Nord a Sud. La Pandemia ha fatto
esplodere alcune contraddizioni ed esasperato l’emergenza.

Le donne con figli e senza lavoro in questo lungo anno si sono trovate a far fronte a un enorme
carico economico, psicologico e di cura. Il 60% dichiara di aver avuto durante la pandemia una
riduzione di almeno del 20% delle proprie entrate economiche, che implica spesso un’aumentata e
preoccupante dipendenza: (1 su 2) sostiene infatti di dipendere economicamente maggiormente da
famiglia e partner rispetto al passato.

I dati raccontano un impatto devastante, in termini di conseguenze psicologiche della pandemia,
sull’autopercezione delle donne: l’80% delle donne dichiara un impatto fortemente negtivo sulle
proprie relazioni sociali e il 46% (1 donna su 2) sulla propria voglia di vivere. Il 76% delle donne ha
visto un impatto negativo sulla voglia di fare progetti per la propria vita. Sono le giovani donne (18-
24 anni; 25-34 anni) a segnalare un maggior impatto della pandemia sul loro umore, mentre l’83%
delle meno giovani (55-65 anni) soffrono maggiormente sul fronte relazionale. Per il 64% delle più
giovani (18-24 anni) la pandemia ha avuto un impatto fortemente negativo sulla propria autostima.
Oltre alle implicazioni pratiche: perdere l’autostima e la voglia di vivere mina tutti i pilastri
fondamentali per costruire una vita sana e dignitosa per sé e per i propri figli.
La violenza basata sul genere è fondata sulla disparità di potere tra uomini e donne ed è un
fenomeno sociale strutturale che ha radici culturali profonde, riconducibili ad un’organizzazione
patriarcale della società che ancora oggi vive nelle pratiche e nella vita quotidiana di molti uomini e
donne in Italia. Questa struttura di genere gerarchica si riproduce attraverso rappresentazioni
collettive fondate sugli stereotipi e il sessismo, i quali incidono nell’immaginario e nell’agire
collettivo creando le condizioni per una giustificazione e una perpetuazione della violenza maschile
sulle donne, presente ancora oggi nel nostro Paese in maniera assolutamente inaccettabile.
Viviamo d’altronde in una fase storica che stiamo imparando a definire post-patriarcale o neo-
patriarcale nella quale sono presenti oltre agli elementi del patriarcato classico, anche quelli di un
patriarcato nuovo, moderno e apparentemente liberale. Un sistema sessista che non opera più
vistose ed evidenti discriminazioni, ma agisce in maniera ambigua, subdola, occultata, ma non
meno pervasiva.
Questo clima culturale, questo stereotipato pensiero è diffuso e occulta la violenza domestica, la
violenza sui luoghi di lavoro, fa leva sul pregiudizio infondato che le donne denuncino falsamente
maltrattamenti e altre forme di violenze nelle relazioni intime per trarne vantaggio nei procedimenti
in tema di separazione e affidamento dei minori, sabotando l’efficacia di tutti gli strumenti di
prevenzione e protezione ottenuti negli ultimi trent’anni di impegno politico delle donne, è un
condizionamento autoritario delle scelte inpiduali in violazione delle garanzie costituzionali in
tema di libertà personale e uguaglianza anche nelle relazioni familiari. La carenza di relazioni e di
legami sociali accentuata dalla pandemia e dalla perdita del lavoro ha prodotto una diminuzione
dei livelli di capitale sociale e costituisca una causa dell’esclusione sociale di grandi gruppi di
popolazione al seguito del verificarsi di situazioni determinate dalle cosiddette trappole di povertà,
ovvero “condizioni di vita in cui è relativamente facile entrare, ma difficile uscire, in quanto, una
volta che si verificano, tendono a produrre o a rafforzare una serie di caratteristiche (minore
credibilità verso l’esterno, perdita di fiducia e di motivazione, bassa autostima, ecc.) che rendono
meno frequenti od efficaci i comportamenti inpiduali che consentirebbero l’uscita dalla povertà
stessa” .
La povertà così intesa si carica di nuove caratteristiche: non significa solo ristrettezza dei beni
materiali, ma situazione generale di debolezza, di dipendenza in modo permanente o anche
transitorio. Significa vivere in uno stato di umiliazione, di emarginazione da ogni partecipazione
attiva alla vita pubblica e alla considerazione sociale. E colpisce soprattutto le donne.
L’8 marzo ha senso se ci richiama all’impegno in questa direzione.

Buon 8 marzo e buon lavoro.

                                      Francesca Lazzari



                           Consigliera di Parità della Provincia di Vicenza