FISAC_5marzo_lavoro_donne_pandemia

   Note a cura di Francesca Lazzari, Consigliera di Parità – 5 marzo 2022


Dobbiamo dirci prima di tutto, parlando di lavoro e di donne, soprattutto se giovani,
che non siamo in una situazione normale. Siamo piuttosto in una situazione molto
grave, che penta drammatica nelle periferie e nelle aree economicamente marginali,
da Nord a Sud.

Le caratteristiche fondamentali sono la compresenza di lavoratori/trici “forti” e “deboli” e il
progressivo incremento del lavoro di cura e dei servizi alle famiglie, soprattutto a domicilio a pieno
tempo o comunque ad orari lunghi. L’accesso a tale mercato è tipicamente femminile:

-  giovani che svolgono attività di baby sitting;
-  donne senza qualifiche professionali specifiche;
-  donne immigrate (la maggioranza delle lavoratrici impegnate nel lavoro domiciliare a tempo
  pieno), di cui molte senza permesso di soggiorno. Per queste ultime tale soluzione lavorativa
  risponde ad una duplice esigenza: quella di poter disporre da subito di un alloggio e di effettuare
  risparmi sul salario .
Tale mercato è (in particolare quello domiciliare a tempo pieno) è:
- fortemente connotato al femminile ed è in larga parte invisibile e sommerso
- fortemente marcato sul piano etnico /est Europa (Ucraina; Moldavia,...) in quanto le immigrate
rappresentano la quasi totalità di quelle impegnate nella attività “notte e giorno” o comunque ad
orari lunghi, - rappresentato da fasce deboli di donne autoctone senza specifiche competenze
professionali.

Un mondo, quello delle famiglie locali, costituito da figlie, nuore, nipoti, sorelle che addestrano,
alfabetizzano, sostituiscono, affiancano, danno regole e controllano, in una dimensione relazionale
di ”catena al femminile “ che contemporaneamente le accomuna e le pide sulle responsabilità ed i
doveri della cura comunque in capo, innanzitutto al genere femminile.
Malgrado i cambiamenti avvenuti, il Veneto continua a mantenere alcuni caratteri peculiari che lo
distinguono dalle altre regioni e che sembrano derivare dal passato:
- in particolare la quota di famiglie estese, cioè famiglie costituite da due o più nuclei (coppie o
monogenitori), è notevolmente superiore a quella di quasi tutte le altre regioni.
- ha la più alta quota di coniugati che vivono con la madre nella stessa abitazione .
Negli ultimi anni la famiglia è tornata ad emergere come soggetto primario delle politiche per il
Welfare.
L’indebolimento di tutte le reti di solidarietà familiare ha contribuito all’evoluzione “di fatto” del
mercato del lavoro verso forme flessibili ad elevata mobilità.
In media le donne lavorano un numero di ore inferiore rispetto a quello degli uomini, tranne le
imprenditrici e le lavoratrici autonome. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, si assiste ad una
progressiva diminuzione delle ore lavoro “per il mercato” e ad un corrispondente aumento delle ore
di attività di cura connesso all’aumento degli impegni familiari.
Il mutamento della struttura della famiglia e delle reti di sostegno interfamiliari ha portato, in
generale, ad un aumento dei costi di conciliazione tra lavoro per il mercato e impegno per la
famiglia e ad un peggioramento della qualità della vita .
L’onere di conciliare tempi di lavoro e tempi di cura continua a rimanere per lo più a carico delle
donne e, pertanto, i tempi per raggiungere il posto di lavoro, l’orario, la sua distribuzione nel corso
della giornata, della settimana, dell’anno, la disponibilità e le caratteristiche dei servizi sociali ed
educativi presenti sul territorio, rappresentano fattori condizionanti la partecipazione delle donne e
la loro permanenza nel lavoro retributivo extrafamiliare.
L’esistenza di queste necessità si è tradotta in questi anni nell’aumento di disponibilità a lavorare a
particolari condizioni: la progressiva sostituzione del lavoro di cura parentale con quello offerto dal
mercato (colf, badanti, baby sitter, ecc.) ha modificato i tempi di entrata e uscita dallo stesso delle
donne, soprattutto di quelle in età intermedia con figli minori.
Le trasformazioni economiche e sociali sopra descritte fanno emergere la necessità della
conciliazione/conpisioni fra lavoro e cura, determinando nuove realtà conseguenti, quali la
disoccupazione da basse oppure obsolete competenze, le cure per famigliari anziani, disabili o
malati (conseguenza dell’aumento dell’aspettativa di vita), la monoparentalità, le tutele sociali
insufficienti per far fronte alla cura dei minori. In questo contesto la partecipazione femminile al
mercato del lavoro, modificata per quantità e qualità, entra in conflitto con la natura concessiva
delle eccezioni al tempo standard di lavoro per ragioni di cura che alimenta ulteriormente la
segregazione di genere, verticale e orizzontale.

Appare con sempre maggiore urgenza l’esigenza e il desiderio – non soltanto il bisogno- di
costruire delle occasioni di riflessione che possano guardare a condizioni perse del lavorare, che
possano indicare le differenze senza però marcare delle contrapposizioni, o peggio dei conflitti.
Se lavoro tipico e atipico sono due sponde perse, lo sono di una stesso fiume, quello di una
condizione eterodiretta, purtroppo il trovarsi su sponde perse fa avvertire soprattutto le distanze,
le incomprensioni, tessute di mutismi reciproci che generano difficoltà di ascolto.
Eppure il lavoro delle donne da sempre ha queste caratteristiche: intermittente, aleatorio, in altri
termini flessibile.
La diseguaglianza di genere strutturale nel nostro mercato del lavoro è stata aggravata dalla
pandemia. I livelli di disocccupazione in Italia erano GIA’ tragicamente sotto la soglia
europea nel 2019. Solo tra marzo e aprile 2020, ci sono stati 400 mila occupati in meno, 274 mila
solo ad aprile. Una cifra però che non include i cassintegrati, esclusi dal dato statistico della
disoccupazione. Il passaggio del lockdown è stato un vero e proprio tifone sociale, che si è
abbattuto sul mercato del lavoro italiano ribaltando i rapporti tra occupati giovani e anziani, donne e
uomini. E i dati Istat di fine 2020 peggiorano la tendenza. A dicembre 2020 il tasso di occupazione
femminile è sceso a 48,6 perdendo 1,4 punti percentuali. Quello maschile ha perso invece 0,4 punti
percentuali (67,5). Si sono persi 101.000 posti di lavoro, di cui 99.000 di donne (98%). Dati
inoppugnabili. L’occupazione è calata per uomini e donne, giovani e adulti. Ma al tempo stesso ha
colpito di più le donne e i giovani di 25-34 anni. In Italia il tasso di disoccupazione tra gli under 25
è il più alto in assoluto. Le percentuali variano a seconda del genere e, per quanto riguarda le donne,
la situazione è critica: il 31% delle 15-24enni non ha un impiego, contro il 27,8% dei coetanei
maschi.

Dunque le principali vittime economiche della pandemia sono le donne, soprattutto madri
disoccupate, senza distinzioni di età e area geografica: 1 su 2 ha visto peggiorare la propria
situazione economica negli ultimi 12 mesi sia al Nord che al Centro e Sud; la quota sale al 63%
tra le 25-34enni i (6 donne su 10) e al 60% tra le 45-54enni.; tra le occupate, 1 su 2 teme per il
futuro di perdere il lavoro e si sente più instabile economicamente; la pandemia, inoltre, ha
avuto un forte impatto anche sul lavoro sommerso, soprattutto di cura/assistenza domestica tra chi
oggi non ha un’occupazione: tra le disoccupate, 1 donna su 4 dichiara che a causa del Covid ha
rinunciato a cercare un’occupazione. Le donne con figli e senza lavoro in questo lungo anno si
sono trovate a far fronte a un enorme carico economico, psicologico e di cura..
Il 60% delle donne non occupate con figli dichiara di aver avuto durante la pandemia una
riduzione di almeno del 20% delle proprie entrate economiche, che implica spesso
un’aumentata e preoccupante dipendenza: il 51% (1 su 2) sostiene infatti di dipendere
economicamente maggiormente da famiglia e partner rispetto al passato.
Il 38% delle donne dichiara di non poter sostenere una spesa imprevista, quota che sale al 46% tra
le madri con figli.
Per quanto riguarda il carico famigliare, il lavoro di cura è quasi interamente sulle spalle delle
donne: nonostante gli aiuti familiari, ripartiti dopo il primo lockdown, ancora il 38% delle donne
(2 su 5) dichiara di farsi carico da sole di persone non autonome (anziani o bambini): dato che
sale al 47% tra le donne tra i 25-34 anni, concentrate sui figli minori, e al 42% nella fascia 45-54
anni, che curano soprattutto gli anziani.
Il Covid 19 ha provocato una crisi economica senza precedenti, per estensione, per caratteristiche,
per profondità. Il mondo si è chiuso. È stata nel contempo una crisi di domanda e una crisi di
offerta e per questo sono saltati principi e regole che sembravano inattaccabili: ad es. il patto di
stabilità in Europa.
Il passaggio del lockdown è stato un vero e proprio tifone sociale, che si è abbattuto sul mercato del
lavoro. Così dentro i nostri confini - nell'inedita recessione pandemica - si è assistito al crollo del
lavoro delle donne.
Conseguenza in parte del fatto che la quota maggiore di lavoro femminile è soprattutto impiegata:
- nel lavoro fluido dei servizi, sbarrati durante le terribili giornate di contagio
- e nelle frange marginali del mercato del lavoro.
Il crollo economico per settori come quello alberghiero, della ristorazione, dell’intero comparto
turistico, dello spettacolo e della cultura, pulizia, dei servizi alla persona, dove fisiologicamente
lavorano più donne e più giovani, appare veramente drammatico.
Il lavoro delle donne è in media un lavoro più fragile, più intermittente, più aleatorio, più flessibile
e quindi meno garantito en tutelato rispetto a quello maschile. Siamo pentati il Paese del part-
time involontario, subito da chi, invece, vorrebbe il tempo pieno con le certezze che ne conseguono.
Anche questa è una delle tante flessibilità che non ha mai fatto accrescere la produttività e
nemmeno la produzione. Il 60 per cento delle donne che lavora con un contratto a tempo parziale
non l'ha scelto e, dunque, non lo utilizza come uno strumento per conciliare i propri tempi di vita.
Dovremmo, oggi, forse parlare non tanto di Gender gap ( Lo studio in preparazione per il prossimo
G20 Women, ha stabilito che ci vorranno 135 anni per cancellare il gender gap e la pandemia ha
spostato il traguardo di ulteriori 36 anni…..) ma di back lasch (contraccolpo): dopo aver
rivendicato diritti e libertà, le donne stanno tornando indietro, percepiscono i salari più bassi,
vengono più facilmente espulse dal mercato del lavoro, non godono più di alcune tutele sociali,
sono sotto rappresentate nelle istituzioni e nei ruoli apicali, e, nella maggio parte dei casi, non
vedono riconosciuto il diritto alla maternità e a servizi di supporto efficienti e accessibili per
agevolare la cura di figli piccoli e parenti anziani.
Tra i dati che accompagnano il problematico quadro occupazionale ci sono la bassa natalità, la
diminuzione complessiva della popolazione e l’età mediana dei cittadini ( in Europa la popolazione
sta pentando sempre più vecchia: entro il 2070, il 30% delle persone avrà almeno 65 anni, un
aumento del 20% rispetto a oggi). Nei Paesi in cui la conciliazione vita-lavoro ha guidato le
politiche per la famiglia, non come da noi dove è prevalsa, nonostante le norme, una cultura
paternalista e una visione maschilista, i tassi di occupazione femminile sono più alti così come
l'indice di fecondità.
Il nostro declino demografico passa anche da qui: poco lavoro e pochi figli.
Negli altri paesi europei, la nascita di un figlio non frena l'occupazione femminile, anzi incentiva la
presenza di servizi legati alla gestione della maternità, creando un volano di crescita economica.
Per l'occupazione femminile italiana, il problema non è solo il Coronavirus. Il vero nodo è la
mancanza di un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare al loro percorso
lavorativo le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro.
Manca una conciliazione effettiva tra il tempo di cura, di vita e di lavoro, manca la cultura della
conpisione dei carichi di lavoro famigliare. Infatti, la disparità tra le donne occupate e gli uomini
occupati va oltre la pandemia.
Prescindendo da ogni interpretazione moralistica è possibile fare della maternità un crocevia a
partire dal quale leggere le criticità che investono la condizione delle donne, delle madri e delle
lavoratrici nella nostra contemporaneità.
Le costanti
 - presenza ubiquitaria della violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica, stalking).
Violenza che segna indelebilmente il vissuto e lo condiziona continuamente, rendendo il presente
difficile e doloroso. Violenza che non è possibile superare senza un lavoro di cura
- il difficile rapporto con il lavoro. Tutte le donne mi hanno parlato di sfruttamento, orari disumani
(soprattutto nel settore delle pulizie), difficoltà estreme nel conciliare la vita familiare con quella
lavorativa, tentativi di abuso sessuale, licenziamenti in seguito alla scoperta della maternità da parte
del datore di lavoro, buste paghe ridotte rispetto ai propri colleghi uomini. Per non parlare poi della
difficoltà di essere assunte da madri con figli (ancora di più se separate o porziate).
- il lavoro di cura che le donne prestano in famiglia senza alcuna retribuzione e
riconoscimento (figli, mariti, anziani genitori).

Da queste costanti è possibile ricavare un quadro molto chiaro: aldilà delle ideologie più o meno
alla moda, per le donne il cammino di autonomia è ancora duro e difficile - molte volte tragico – e i
diritti sulle carte non corrispondono poi alla quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Il Welfare italiano, in gran parte smantellato, è da sempre basato sul lavoro volontario delle
donne che si dedicano ai figli, agli anziani e ai maschi adulti: a fronte della mancanza e della
carenza di servizi pubblici, la difficoltà della conciliazione dei tempi di lavoro con quelli
familiari costringe sempre più le donne a scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o
rinunciare al proprio lavoro.
Dopo la stagione delle battaglie femministe degli anni Settanta, che ha prodotto risultati importanti
come le leggi sui congedi di maternità, i riposi per l’allattamento, l’istituzione degli asili-nido e dei
consultori familiari, stiamo registrando una regressione sul piano dei diritti sociali: basti pensare
alla carenza strutturale e ai costi degli asili-nido, ai ritardi con i quali partono le mense scolastiche,
agli orari ridotti nelle scuole pubbliche che non sono in grado di impegnare i bambini in attività
sportive e/o ricreative extrascolastiche.
Nelle crisi aumenta la pratica illegale delle dimissioni in bianco o la richiesta brutale di fornire test
di gravidanza nei periodi di rinnovo dei contratti .
Inoltre, esse devono sobbarcarsi la maggior parte del lavoro domestico e di cura in una società nella
quale non è previsto nessun criterio per una più equa conpisione delle responsabilità familiari.
Questa pisione dei ruoli rappresenta una trappola, una morsa che co-stringe le donne nel doppio
ruolo pubblico-privato, produttivo e riproduttivo e rende la maternità una corsa ad ostacoli.
Viviamo d’altronde in una fase storica che stiamo imparando a definire post-patriarcale o neo-
patriarcale nella quale sono presenti oltre agli elementi del patriarcato classico, anche quelli di un
patriarcato nuovo, moderno e liberale. Un sistema sessista che non opera più vistose ed evidenti
discriminazioni, ma agisce in maniera ambigua, subdola e non meno pervasiva. Di fatto, la
maternità sta pentando per un verso un “lusso” per i costi che comporta e, per l’altro verso, un
ordine naturale, esclusivo e trionfante per i sacrifici che comporta in termini di tempo, energie e
rinunce.
Per secoli, essa è stata un “destino” biologico, un dovere religioso e sociale, il luogo nel quale la
figura della donna è stata appiattita e modellata su quella della madre esclusa dalla sfera della
decisione e del dibattito pubblico.
Oggi torna, giocoforza, ad essere prospettata come l’esperienza più importante ed
irrinunciabile per una donna. Il ruolo destinale delle madri, per lungo tempo rimosso, ritorna
ad essere centrale mentre di padri si parla, ancora, troppo poco. È paradossale come nel
momento in cui le donne sono riuscite a liberarsi del patriarcato, classicamente inteso, esse
stiano sperimentando l’ideologia maternal-naturalista che riscopre le leggi della natura e della
biologia.
Alle donne viene, infatti, chiesto di riscoprire i piaceri familiari, dedicarsi totalmente ai figli
allattando per molti anni, rinunciare ad un lavoro che sacrifica e mortifica la loro “femminilità”.
Oppure, se proprio vogliono lavorare, esse devono pentare mamme “acrobate” in grado di
conciliare vita lavorativa e affettiva e offrire le migliori performance. La mamma multitasking è,
dunque, il modello imposto alle donne che non vogliano rinunciare né al lavoro né alla maternità.
Intanto, nel nostro paese, dove il mito del materno è potentissimo, si fa assai poco sul piano delle
leggi, del Welfare e della rappresentazione sociale della maternità. Mentre messaggi pubblicitari,
immagini e valori fondati su stereotipi esaltano la bellezza di tale esperienza, non si parla mai del
rovescio della medaglia fatto di difficoltà, disagio, frustrazione e solitudine .
In questo contesto, le donne sentono il disagio, ma non dicono per il timore di essere considerate
“cattive madri”, madri non conformi. Anche i padri, come le madri, sono “vittime” di modelli di
genere che più che guardare alle capacità e ai desideri dei singoli inpidui, li imprigionano in
modelli sociali penalizzanti. Si pensi ai padri “accudenti”, come se non potesse esistere una cifra
paterna dell’accudimento, come se questo coinvolgimento degli uomini fosse la testimonianza di
debolezza e di perdita di autorevolezza.
Il lavoro delle donne da troppo tempo ha queste caratteristiche. Beck parla di femminilizzazione
del lavoro non come di una trionfante diffusione di modalità di cura e di relazione, quanto di
diffusione al contrario di informalità, deregolamentazione, incertezza. Le cause possibili sono tante:
rilevano la pisione di genere del lavoro, la segregazione del percorso formativo, la
segregazione occupazionale sia orizzontale sia verticale, le procedure di selezione non neutrali
rispetto al genere e così via … ma in tutte queste possibili cause gli stereotipi hanno un ruolo
importante nel distorcere l’allocazione delle risorse rispetto a quella efficiente.
Vale la pena di comprendere la rilevanza che questo lavoro fragile porta nelle soggettività di
ciascuna e di molte: da più parti si sottolinea come stia avvenendo una sorta di mutamento
antropologico. Un lavoro debole porta inevitabilmente a protezioni fragili, a reddito scarso, alla
precarietà delle vite, alla frammentazione dello spazio e del tempo e porta a conseguenze ormai
chiaramente visibili: nell’era delle flessibilità negative, gli spazi di tempo per la cura e gli affetti
sono per tutti più brevi, la società richiede e premia duttilità, adattabilità, orizzonti a breve
scadenza che nelle vite inpiduali, soprattutto di chi vive in fasce sociali marginali e poco
protette, possono pentare solitudine, precarietà, fragilità, assenza di prospettiva futura. Senza
dimenticare la violenza di genere aumentata tragicamente durante la pandemia.
I dati raccontano un impatto devastante, in termini di conseguenze psicologiche della pandemia,
sull’autopercezione delle donne: l’80% delle donne dichiara un impatto fortemente negtivo
sulle proprie relazioni sociali e il 46% (1 donna su 2) sulla propria voglia di vivere.
Il 76% delle donne ha visto un impatto negativo sulla voglia di fare progetti per la propria vita.
Sono le giovani donne (18-24 anni; 25-34 anni) a segnalare un maggior impatto della pandemia sul
loro umore, mentre l’83% delle meno giovani (55-65 anni) soffrono maggiormente sul fronte
relazionale. Per il 64% delle più giovani (18-24 anni) la pandemia ha avuto un impatto fortemente
negativo sulla propria autostima. Oltre alle implicazioni pratiche: perdere l’autostima e la voglia di
vivere mina tutti i pilastri fondamentali per costruire una vita sana e dignitosa per sé e per i propri
figli.
Ma questo non deve essere il lavoro delle donne. E’ una lezione che la crisi sta provando ad
impartirci.
Da una situazione così grave si esce solo ricercando soluzioni che vadano nella direzione di un
deciso cambiamento di prospettiva in grado di superare l’abituale visione meramente redistributiva.
Abbiamo bisogno di pensieri e azioni che valorizzino i legami sociali, i beni collettivi, la capacità di
conpisione, concetti ideali su cui l’Europa ha costruito la sua storia migliore e che devono essere
ritrovati, pena la crescita della conflittualità sociale.
Uno dei motivi del disastro che ci circonda può essere proprio la mancanza della solidarietà come
infrastruttura sociale che ricrei i legami con coloro che si trovano in situazioni di svantaggio e
contrasti la tendenza a perseguire il nostro interesse personale anteponendolo al bene comune.
Il cambiamento di prospettiva passa attraverso la proposta di un Welfare di comunità affiancato ad
un più efficiente Welfare pubblico: bisogna creare spazi in cui si genera valore conpiso come
luogo in cui gli interessi dei singoli attori si posizionano e si intrecciano per costruire un modello
che permetta da un lato di uscire dalla crisi e dall’altro di garantire migliori e più eque
prospettive future sia da un punto di vista economico sia sociale. Siamo chiamati a costruire
ecosistemi che generino formazione e valore per le donne e per i giovani, condizioni perse del
lavorare e del vivere.
E’ urgente e non più rinviabile.
Dobbiamo contrastare il populismo politico che è figlio del populismo industriale. Mi spiego:
l’Italia ha vissuto in maniera particolarmente accentuata negli ultimi dieci anni, una stagione in
cui il lavoro e la cura delle persone sono state ampiamente svalorizzate a vantaggio del mero
consumo. Il populismo industriale è un’idea di crescita economica in cui si immagina che la
stessa sia determinata principalmente dai consumi. Certamente perché ci sia crescita centrano i
consumi. Ma oggi, che siano esclusivamente i consumi a determinare la crescita è un paradigma che
non regge più, è un’idea sbagliata. Un’economia e una società avanzate vivono e prosperano se si
investe sul lavoro buono, sulla qualità e dignità della vita, sulla cultura e sulla formazione, sulle
persone e sulla qualità delle comunità, delle infrastrutture sociali e delle istituzioni.
La crisi dei consumi è frutto della disuguaglianza sociale.
Per far funzionare il sistema in modo equo bisogna contrastare le disuguaglianze di genere, di
generazione, sociali, culturali. Solo con questa precondizione si cresce creando valore per tutti.
Il cambiamento più importante di cui abbiamo bisogno in questa fase di profonda e necessaria
“metamorfosi”, riguarda proprio la necessità di superare la visione monocentrica dello sviluppo
per perseguire la coesione sociale come uno dei principali obiettivi di sviluppo sostenibile.
Il populismo industriale disgrega la coesione sociale e, sulla debolezza dei legami di comunità,
prospera il populismo politico. Oggi non c’è più posto per chi usa la logica dello sfruttamento
perché è dissipativa, distrugge valore collettivo, non genera crescita durevole e produce
smarrimento sociale, disidentità.
La carenza di relazioni e di legami sociali accentuata dalla pandemia e dalla perdita del lavoro ha
prodotto una diminuzione dei livelli di capitale sociale e può essere la principale causa
dell’esclusione sociale di grandi gruppi di popolazione al seguito del verificarsi di situazioni
determinate dalle cosiddette trappole di povertà, ovvero “condizioni di vita in cui è relativamente
facile entrare, ma difficile uscire, in quanto, una volta che si verificano, tendono a produrre o a
rafforzare una serie di caratteristiche (minore credibilità verso l’esterno, perdita di fiducia e di
motivazione, bassa autostima, ecc.) che rendono meno frequenti od efficaci i comportamenti
inpiduali che consentirebbero l’uscita dalla povertà stessa” .
La povertà così intesa si carica di nuove caratteristiche: non significa solo ristrettezza dei beni
materiali, ma situazione generale di debolezza, di dipendenza in modo permanente o anche
transitorio. Significa vivere in uno stato di umiliazione, di emarginazione da ogni
partecipazione attiva alla vita pubblica e alla considerazione sociale. E colpisce soprattutto le
donne.
IL futuro passa dalla qualità del lavoro, che significa anche qualità della forza lavoro, della vita di
lavoratrici e lavoratori e dalla qualità dell’ambiente, inteso nel suo senso più ampio. Altrimenti si
rischia l’involuzione sociale, la crescita della disuguaglianza, la decadenza economica e il ristagno
dei territori.
La crisi sanitaria lascerà un profondo impatto economico e sociale sulla vita di tutti e tutte se non si
perseguirà con determinazione un ribilanciamento delle disuguaglianze e se non si offriranno
concrete opportunità a chi è escluso dai circuiti visibili del benessere economico a partire dalla
sanità di prossimità e territoriale di base, dal sistema scolastico e formativo, dalle proposte per
contrastare le povertà educative, dalle politiche di aggregazione diffuse, alle politiche attive e degli
ammortizzatori sociali…ecc.
Sarà sempre più necessario promuovere e valorizzare modelli organizzativi basati sulla
collaborazione, sulla cura, sulla conpisione, sull’esercizio della delega, sulla fiducia,
sull’autorevolezza, sull’intelligenza sociale ed emotiva, sull’adattabilità e sulla creatività.
Tutte caratteristiche molto femminili.
In questa prospettiva le donne e i giovani dovranno avere il giusto spazio.
non penti condizione permanente per migliaia di donne e di giovani nel nostro Paese.

                  Schede di approfondimento


1. I dati: VENETO -VICENZA 2020/21

Vicenza segnala una disoccupazione provinciale complessiva al 7%, più 2,3% sul 2019, e di
riduzione delle ore lavorate e quindi di reddito (secondo Eurostat i lavoratori in Italia hanno perso
nel 2020 quasi 40 miliardi di Euro di nsalari e stipendi). Il blocco dei licenziamenti, gli
ammortizzatori sociali ed i vari sussidi e bonus pubblici attivati hanno consentito di evitare
conseguenze sociali disastrose, tuttavia si è purtroppo gonfiata l’area del disagio sociale, soprattutto
tra le donne, i giovani e le persone fragili. Nel 2020 in media d’anno, le donne occupate in
provincia di Vicenza erano 151 mila pari al 41,4% del totale degli occupati. Il relativo tasso di
occupazione femminile in età lavorativa (15-64) era pari a 54,8% contro un tasso totale pari a
64,3% e un tasso relativo alla popolazione maschile pari a 73,5%. La situazione occupazionale delle
donne in provincia è comunque migliore rispetto all’Italia, ma vi è un significativo peggioramento
rispetto al 2019: le donne occupate sono diminuite di 13 mila unità e il tasso di occupazione
femminile (15-64) è passato dal 59,4% al 54,8%. Anche prendendo a riferimento il tasso di
disoccupazione femminile, si conferma il peggioramento del mercato del lavoro nella nostra
provincia: tale tasso passa dal 5,7% del 2019 al 9,3% del 2020 che resta ancora molto più elevato
del corrispondente tasso di disoccupazione maschile (5,4% nel 2020, mentre il tasso totale è pari al
7% il più elevato dal 2013).
Naturalmente tutti i dati sono risentono pesantemente dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19.

Nel 2020 in media d’anno, le donne occupate in Veneto erano 896 mila pari al 42,4% del totale
degli occupati. Il relativo tasso di occupazione femminile in età lavorativa (15-64) era pari a 56,5%
ncontro un tasso totale pari a 64,3% e un tasso relativo alla popolazione maschile pari a 75,3%. La
situazione occupazionale delle donne in Veneto resta quindi migliore rispetto all’Italia. La
situazione è comunque significativamente peggiorata rispetto al 2019: le donne occupate sono
diminuite di 36 mila unità e il tasso di occupazione femminile (15-64) è passato dal 58,8% al
56,5%. Anche prendendo a riferimento il tasso di disoccupazione femminile la situazione
occupazionale mostra un peggioramento: tale tasso passa dal 7,4% al 7,5% restando molto più
elevato del corrispondente tasso di disoccupazione maschile (4,5% nel 2020).

2. I numeri delle imprese femminili al 31 dicembre 2020
Al 31 dicembre 2020 in Italia le imprese femminili registrate nel Registro delle Imprese delle
Camere di Commercio sono 1.336.227 (il 22% del totale), in Veneto sono 96.633 (20,1%) e in
provincia di Vicenza sono 15.742 (19,4%). La variazione rispetto al 31 dicembre 2019 è
negativa per tutti i livelli territoriali considerati (- 3.907 imprese femminili inItalia, - 822 in
Veneto e -309 in provincia di Vicenza). Le imprese femminili sono in generale di piccole
dimensioni e in genere devono affrontare molte delle difficoltà (accesso al credito, capacità di
investimento limitata, …).


Gli addetti alle imprese femminili in Italia sono 2.844.989 un valore importante ma che
rappresenta una quota pari al 14,7% del totale degli addetti alle imprese. la quota di addetti alle
imprese femminili in Veneto è pari al 13,2% (238.474) un numero rilevante ma comunque più
contenuto della percentuale delle imprese. Gli addetti della provincia di Vicenza sono 41.350 che
rappresenta il 12,5% del totale degli addetti alle imprese in provincia.

Con riferimento ai macro-settori dell’economia, in Italia la partecipazione femminile alle
imprese è significativa nell’agricoltura (28,3%), nei servizi (26,6%) e nel commercio (23,3%) è
meno rilevante nell’industria (16,9%) e nelle costruzioni (6,5%). Più in dettaglio le imprese
femminili rappresentano una quota molto importante nelle attività dei servizi alle persone
(51,4%), nella sanità e assistenza sociale (37,5%), nell’istruzione (30,5%), nei servizi di alloggio e
ristorazione (29,3%). In Veneto la partecipazione femminile alle imprese varia solo in parte
rispetto alla situazione italiana: è infatti significativa nei servizi (43.559 imprese e 26% del totale)
nell’agricoltura (15.009 imprese, 22,9%), e nel commercio (22.513 imprese, 21,6%) mentre è
meno rilevante nell’industria (9.060 imprese, 15,7%) e nelle costruzioni (3.357 imprese, 5%). Più
in dettaglio, le imprese femminili rappresentano la maggioranza delle imprese nelle attività dei
servizi alle persone (58,4%), e una quota importante nella sanità e assistenza sociale (35,1%), nei
servizi di alloggio e ristorazione (29,7%) e nei servizi di supporto alle imprese (noleggio, agenzie
di viaggio, …) (26,9%). Nella provincia di Vicenza la partecipazione femminile alle imprese
replica quella a livello veneto: è significativa nei servizi (7.454 imprese e 27% del totale),
nell’agricoltura (1.799 imprese, 22,1%), e nel commercio (3.653 imprese, 20,8%) mentre è meno
rilevante nell’industria (1.872 imprese, 13,8%) e nelle costruzioni (457 imprese, 4,2%). Più in
dettaglio in provincia, le imprese femminili rappresentano la maggioranza delle imprese nelle
attività dei servizi alle persone (61,6%), e una quota importante nella sanità e assistenza sociale
(37,8%), nei servizi di alloggio e ristorazione (31,3%) e nei servizi di supporto alle imprese
(noleggio, agenzie di viaggio, …) (26,8%).

Al di là degli aspetti più congiunturali è interessante verificare gli effetti a medio termine della
cosiddetta legge “Golfo-Mosca” del 2011 che, come noto, ha inserito vincoli di genere nei
consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in mercati
regolamentati e delle società controllate da pubbliche amministrazioni, non quotate in
mercati regolamentati.:
- Nel 2011 le donne con carica “amministratore” erano 914.360 in Italia e a 12.209 Vicenza,
- nel 2020 tali valori sono aumentati rispettivamente di oltre 60 mila (976.435) e di oltre 1.500
unità (13.794) con aumenti di +6,8% e di +13%.

- È interessante il confronto con il dato degli amministratori totali che è aumentato, in
correlazione con l’incremento delle società di capitali, ma in modo molto meno significativo:
+2,4% in Italia e +4,7% a Vicenza (rispettivamente 3.792.203 e 53.961 nel 2011 e 3.886.084 e
56.490 nel 2020).
- Con riferimento alle tipologie di cariche, in Italia le titolari donna sono 828.586 (pari al
26,5% del totale dei titolari), le socie sono 523.635 (42,3%), le amministratrici sono 976.435
(25,1%) e le altre cariche sono coperte da 196.586 (22,6%). Analogamente in Veneto le titolari
donna sono 60.608 (pari al 24,6% del totale), le socie sono 66.076 (39,4%), le amministratrici
sono 67.817 (23,7%) e le altre cariche sono coperte da 15.701 (23,3%). In provincia di Vicenza
le titolari donna sono 9.374 (pari al 24,5% del totale), le socie sono 10.454 (39,7%), le
amministratrici sono 13.794 (24,4%) e le altre cariche sono coperte da 3.276 (23,7%).

- Nei tre livelli territoriali ( Italia/Veneto/ Prov VI) non ci si evidenziano composizioni
sostanzialmente differenti, ma va rilevato che nelle società la quota di soci donne è sempre attorno
al 40% del totale.

- In Italia con riferimento ai settori caratterizzati dalla presenza di cariche al femminile, vi
sono le attività dei servizi alle persone (le donne con cariche sono il 53,8% del totale), la sanità e
assistenza sociale (43,7%), l’istruzione (38,2%) e i servizi di alloggio e ristorazione (38,1%). In
Veneto, con riferimento ai settori con più cariche al femminile vi sono le attività dei servizi
alle persone (60,4%), la sanità e assistenza sociale (41,8%), i servizi di alloggio e ristorazione
(40,5%) e le attività immobiliari (34,2%). Nella provincia di Vicenza con riferimento ai settori
con più cariche al femminile vi sono le attività dei servizi alle persone (63,4%), la sanità e
assistenza sociale (46,2%), i servizi di alloggio e ristorazione (41,4%) e l’istruzione (34%).




Fonti dati riportati: Rapporto ISTAT sui dati 2020 di febbraio 2021 ( i dati complessivi 2021 non sono ancoira
disponibili); Dati 2020 ,Commissione europea relativi ell’età mediana ; Indagine IPSOS per WeWorld. “La
condizione economica femminile in epoca di Covid-19”- WeWorld => organizzazione italiana che difende da
50 anni i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo inclusa l’Italia.