Differenze di genere negli studi e all’entrata nel mondo del lavoro

    Differenze di genere negli studi e
    all’entrata nel mondo del lavoro
             22 ottobre 2021 Osservatorio Università cattolica


 Le studentesse hanno voti migliori degli studenti durante tutto il percorso scolastico e
 all’università. Tuttavia, questo vantaggio non si concretizza dopo l’ingresso nel mondo del
 lavoro: le donne hanno tassi di occupazione e salari minori rispetto a quelli dei loro colleghi
 uomini. Questi effetti sono in parte spiegati dalle esperienze universitarie, poiché le studentesse
 tendono a concentrarsi nelle aree disciplinari che danno accesso a professioni con remunerazioni
 più basse. Tuttavia, la maggior parte del pario è spiegata da differenze salariali in ogni settore
 disciplinare. Queste possono essere spiegate da scelte lavorative differenti (lavori flessibili o
 contratti part-time), ma non è possibile escludere effetti dovuti a condizionamenti sociali. Il
 maggior pario tra numero di laureati e laureate emerge nell’area STEM e sembra essere dovuto
 a convenzioni e stereotipi culturali.
                         ***
L’uguaglianza di genere è un obiettivo cardine sia dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile sia
del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Osservando il mondo del lavoro, l’Italia è lontana dal
raggiungere questo traguardo. Il tasso di partecipazione femminile è 14,3 punti inferiore rispetto
alla media europea (53,1 contro 67,4 per cento)[1]. Per quanto riguarda i tassi di occupazione la
differenza è del 18,5 per cento (48,9 contro 67,4 per cento) nella fascia 15-64 anni.[2] Eppure, il
livello di istruzione femminile è sensibilmente più elevato di quello maschile.
1. Le performance nella scuola secondaria
Anche se stereotipi di genere possono emergere anche prima, per mancanza di informazioni sulla
scuola elementare, iniziamo la nostra analisi dalla scuola secondaria di primo grado (scuola media).
Al termine della scuola media, le studentesse hanno voti migliori: il 43,1 per cento delle ragazze
consegue un risultato finale di 9 o 10, mentre solo il 31,6 per cento dei ragazzi raggiunge questa
votazione.[3]
Questa tendenza non solo è stabile nel tempo, ma si conferma anche al termine della scuola
secondaria di secondo grado. Infatti, le ragazze conseguono il diploma in proporzione maggiore
rispetto ai ragazzi (53 per cento contro 47). Quanto ai voti, all’esame di maturità il 35,4 per cento
delle ragazze riceve un voto tra 90 e 100, mentre gli studenti maschi raggiungono questo traguardo
solo nel 22,9 per cento dei casi. Il voto medio delle ragazze è di 84 su 100, cinque punti in più dei
loro compagni. Inoltre, la proporzione di studentesse che terminano gli studi senza bocciature è
maggiore rispetto agli studenti (92,4 per cento contro 87,7 per cento). Le ragazze hanno una
maggiore propensione a proseguire gli studi: l’80 per cento intende seguire corsi universitari contro
i 65 per cento dei maschi.
I percorsi formativi della scuola secondaria di secondo grado non sono però omogenei e portano ad
acquisire competenze perse. Tra i diplomati nei licei e negli istituti professionali, rispettivamente
il 67 e il 56 per cento sono ragazze, mentre la loro proporzione cala al 38 per cento negli istituti
tecnici. Questo in parte contribuisce a generare un pario di competenze informatiche spendibili
nel mondo del lavoro: ad esempio, i ragazzi che ritengono di avere buone conoscenze in linguaggi
di programmazione, database e realizzazione di siti web sono in proporzione di più rispetto alle
ragazze, le quali ritengono di avere migliori competenze linguistiche rispetto ai compagni.[4] Ciò è
confermato dal fatto che le ragazze che ottengono una certificazione linguistica sono il 41,4 per
cento, rispetto al 31,2 per cento dei coetanei.
2. La performance universitaria
Le performance universitarie delle ragazze sono migliori rispetto a quelle degli studenti maschi sia
quantitativamente sia qualitativamente (fonte Almalaurea 2020). L’incidenza delle laureate è del
23,7 per cento per l’intera popolazione, mentre scende al 17,2 per cento per gli uomini. Infatti, ogni
anno, il numero di laureate è superiore rispetto a quello dei laureati (170.695 contro 129.077 nel
2020), i quali hanno maggiore probabilità di terminare gli studi fuori corso (45 per cento dei casi
contro il 40 per cento delle ragazze). Le studentesse si laureano con voti più alti (104 su 110 contro
102 su 110 per i maschi) e aderiscono in maggior proporzione a tirocini curriculari o lavori
riconosciuti dal corso di laurea.[5]




Le performance e la composizione degli studenti variano a seconda dell’ambito disciplinare scelto:
le laureate ai corsi triennali tendono a concentrarsi nei corsi disciplinari di educazione e formazione,
letterario-umanistico, linguistico e psicologico. I laureati invece prediligono ambiti quali
informatica e tecnologie ITC, ingegneria e scienze motorie e sportive, in generale le materie
STEM[6]. Simili proporzioni si osservano per i laureati magistrali.
3. Differenze retributive nel mondo del lavoro
Il salario medio per una laureata magistrale a 5 anni dalla laurea è di 1403 euro netti mensili, mentre
un laureato maschio guadagna in media 1696 euro, generando una differenza di 293 euro, pari al il
21 per cento del salario femminile[7]. Quali sono le cause di queste differenza?
3.1 Differenze settoriali
Una prima causa è relativa ai persi settori di impiego. La Fig. 2 mostra la proporzione di
neolaureati magistrali (biennale) e lo stipendio medio a 5 anni dal conseguimento del titolo per ogni
settore disciplinare, ordinati per salario medio. Nei cinque settori maggiormente remunerativi la
proporzione di laureati maschi è maggiore (lo stesso sarebbe valido considerando i numeri assoluti).
Le laureate sono invece maggiormente presenti nelle discipline meno remunerative. Questa
distribuzione è peraltro coerente con il perso orientamento disciplinare già notato nel paragrafo
precedente.




Queste differenze nei settori di partecipazione al mondo del lavoro spiegano circa 123 euro della
sopracitata differenza retributiva di 293 euro a favore dei maschi, ossia il 42 per cento, mentre la
restante parte è dovuta a differenze retributive a parità di settore.[8]
Questa differenza – dovuta alla cosiddetta segregazione occupazionale è tipica dei paesi avanzati. In
parte, può derivare da preferenze inpiduali: la scelta di impieghi meno gravosi e con maggiore
flessibilità è compensata da salari più bassi. Tuttavia, possono influire anche stereotipi e valori
culturali impliciti.[9] Una diffusa convinzione è vi siano settori tipicamente femminili e settori
tipicamente maschili. Questa percezione tende a generare una categorizzazione degli impieghi, che
ha effetti negativi nel tempo. Se le donne tendono ad essere discriminate in un settore, spesso si
specializzano meno e scelgono altri tipi di carriere, rafforzando dunque questa differenziazione.[10]
In aggiunta, la minor rappresentazione femminile in certi settori è rafforzata dalla cosiddetta
discriminazione statistica: nei casi in cui il datore di lavoro non abbia sufficienti informazioni
rispetto all’inpiduo da assumere, può inferire le sue caratteristiche – come la sua produttività –
utilizzando le caratteristiche medie del gruppo sociale a cui appartiene. Se le donne sono poco
rappresentate in una specifica area disciplinare e in media hanno minore esperienza lavorativa
rispetto agli uomini, possono essere penalizzate rispetto ad un lavoratore maschio che ha la stessa
carriera lavorativa.[11]
3.2 Differenza a parità di settore
La rimanente parte della differenza salariale a 5 anni dalla laurea magistrale, quantificabile in circa
170 euro mensili (il 12 per cento della retribuzione femminile), riflette differenze a parità di settore
disciplinare. Il pario di genere a favore dei maschi è positivo per tutti i settori e tende ad
aumentare nel corso del tempo (ad un anno dalla laurea il suo valore medio è di circa 78 euro).
Analizzando le medie per settore si osserva però molta eterogeneità, sia dal punto di vista dei trend
nel tempo che della dimensione del pario (Fig. 3).
Vari fattori spiegano queste differenze. In assenza di adeguate strutture per la cura dei figli (come
asili nido) e visto il bias culturale per cui in assenza di tali strutture sono le madri in prima battuta a
doversi occupare dei figli, le donne tendono ad avere carriere più discontinue, con effetti negativi
sulla retribuzione.[12] Tuttavia, è improbabile che questi effetti siano significativi a pochi anni dalla
laurea, visto che l’età media del primo figlio in Italia è di circa 31 anni. Potrebbe però essere
rilevante il fatto che le studentesse scelgano impieghi che garantiscano una maggiore flessibilità,
anche al prezzo di una retribuzione più bassa, a causa di condizionamenti sociali.  Gli stereotipi
femminili sulle abilità di cura possono spingere le giovani donne a dedicarsi a impieghi che
consentano loro di occuparsi non solo della maternità, ma anche dell’assistenza agli anziani e della
cura della casa. [13]
Infatti, le laureate magistrali a tre anni dal conseguimento del titolo sono impiegate con contratti
part-time nel 21 per cento dei casi, contro l’8 per cento per i colleghi maschi. I laureati maschi
lavorano mediamente 5,4 ore in più alla settimana rispetto alle femmine (rispettivamente 39,7 e
34,3 ore, in media). Naturalmente è possibile che queste differenze non riflettano i desideri delle
lavoratrici ma bias culturali per cui lavoratori maschi sono preferiti, in termini di opportunità di
lavoro alle lavoratrici. In generale, i datori di lavoro potrebbero preferire lavoratori uomini alle
lavoratrici nei settori più remunerativi, a causa di condizionamenti sociali.
Gli stereotipi percepiti dai datori di lavoro sono spesso della stessa tipologia di quelli che
influenzano la scelta del settore occupazionale. Ad esempio, esiste il pregiudizio che i costi non-
salariali legati all’assunzione delle donne siano maggiori rispetto a quelli degli uomini. Infine, la
discriminazione potrebbe essere determinata dall’esistenza di network lavorativi tipicamente
maschili, i quali tendono a proteggersi dall’accesso delle lavoratrici. 
Questi problemi possono essere risolti con differenti interventi: in primis, è necessario garantire
maggiore continuità lavorativa alle donne durante e dopo la maternità – ad esempio con maggiori
asili nido o estendendo il congedo parentale per i padri, in modo da permettere un maggiore
conpisione dei compiti familiari. In secondo luogo, è necessario scardinare il sistema radicato di
stereotipi e pregiudizi di genere per garantire un accesso equo in tutti i settori disciplinari.
Appendice: la partecipazione femminile nelle STEM
Le differenze di genere nella partecipazione agli studi universitari sono più marcate nelle discipline
STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics): tra le iscritte all’università solamente
il 18 per cento frequenta un corso di laurea in queste aree, contro il 61 per cento degli uomini.
[14] La quota degli uomini laureati in STEM sfiora il 37 per cento, contro il 17 per cento per le
donne. Questo è peraltro un problema europeo: l’incidenza di lauree STEM tra le donne italiane tra
i 25 e il 34 anni è superiore rispetto a quella degli altri grandi paesi dell’Unione Europea.[15]
Le differenti performance rispetto alle materie STEM emergono anche dai test INVALSI. Nelle
materie letterarie, le ragazze ottengono in media punteggi migliori dei ragazzi. Questa forbice è più
ampia nella scuola primaria e in quella secondaria di primo grado e tende a ridursi durante la scuola
secondaria di secondo grado. Invece, in matematica i ragazzi hanno performance migliori con un
pario che tende ad ampliarsi mano a mano che gli studenti proseguono negli studi.[16] Questi
risultati non sono una peculiarità italiana, ma si riscontrano in media nei paesi dell’area OCSE. Nel
confronto internazionale,  l’Italia mostra un gap nelle abilità linguistiche inferiore rispetto alla
media, mentre è maggiore in matematica.[17]
La letteratura in materia ha ricercato le cause di questo fenomeno tra le differenze biologiche e
attitudinali e tra gli stereotipi socio-culturali, sebbene sia difficile misurare le prime senza tener
conto dei secondi. La conclusione fondamentale è che le differenze di genere rispetto alle materie
STEM tendono a pentare più pronunciate durante la scuola secondaria e risentono degli effetti di
molti luoghi comuni. Ad esempio, in un esperimento controllato condotto nelle scuole medie
italiane, gli studenti scelgono maggiormente matematica e le studentesse italiano quando sono
indotti a pensare alla scelta consigliata da parte del genitore dello stesso sesso.[18] Inoltre, sebbene i
voti nelle materie STEM nella scuola secondaria siano correlati con le scelte del percorso futuro,
queste tendono a spiegare solamente in piccola parte la decisione dell’ambito di studio.[19] La
scelta di intraprendere un percorso nelle STEM, dunque, è influenzata da vari fattori che si
presentano durante tutto il percorso scolastico, piuttosto che nel momento della decisione. Perciò è
necessario intervenire in tutti i gradi scolastici per arginare gli stereotipi di genere e per promuovere
metodi di insegnamento innovativi e inclusivi, in grado di valorizzare le abilità degli studenti
indipendentemente dal loro genere.
 
[1] Il tasso di partecipazione è il rapporto tra la forza lavoro (numero di occupati più numero di disoccupati) e la popolazione in età
lavorativa.
[2] Il tasso di occupazione è il rapporto tra il numero occupati e la popolazione di riferimento.
[3] Vedi il rapporto “il Profilo dei Diplomati 2020” di Almadiploma.
[4] Vedi dati del sondaggio Almadiploma sulla condizione dei diplomati.
[5] Vedi il rapporto “Il Profilo dei Laureati 2020” di Almalaurea.
[6] Vedi appendice.
[7] Vedi dati rilevazione Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. 
[8] Il valore di 123 euro deriva dalla differenza tra il salario medio, mensile, netto maschile (1696 euro) e il salario medio netto che le
donne guadagnerebbero se in ogni settore venissero pagate esattamente quanto gli uomini (1573 euro).
[9] Vedi “Sex Differences in Earnings in the United States”, M. M. Marini, Annual Review of Sociology, 1989.
[10] Vedi “Theories of occupational segregation by sex: an overview”, R. Anker, International Labour Review, 1997.
[11]  Vedi riferimenti nelle note 9 e 10.
[12] Vedi “Human Capital, Effort, and the Sexual Division of Labor”, G.S. Becker, Journal of Labour Economics, 1985.
[13] Vedi “Magnitude and Impact Factors of the Gender Pay Gap in EU Countries”, European Commission, p. 26.
[14] Vedi “Osservatorio Talents Venture e STEAMiamoci sul Gender Gap nelle facoltà STEM”.
[15]  Vedi “Livelli di istruzione e partecipazione alla formazione 2020” dell’ISTAT.
[16] Vedi “Rapporto prove INVALSI 2019” dell’istituto INVALSI.
[17] Vedi “PISA 2018 results”, volume II.
[18] Vedi “Parents and Peers: Gender Stereotypes in the Field of Study” di Lucia Corno e Michela Carlana. Ad esempio, quando ad
una studentessa viene chiesto di scegliere tra un’attività in italiano e una in matematica pensando alla raccomandazione che le
avrebbe fatto la madre, la ragazza tende a sceglie maggiormente l’attività in italiano.
[19] Vedi “Women and Stem” di S. Khan e D. Ginther, NBER Working Paper Series